giovedì 7 aprile 2016

Intervista a don Julian de la Morena: "La verità dell'America Latina è che Cristo c'è"

Il testo integrale dell'intervista a don Julián de la Morena
LA RIVOLUZIONE
di Alessandra Stoppa


«La verità dell’America Latina è che Cristo c’è». Di schianto, è la prima cosa che don Julián de la Morena dice sul «Nuovo Mondo», così lo chiama, mentre si prepara a passare la Settimana Santa nel carcere femminile di Belo Horizonte. Spagnolo, vive in Sud America dal 2002. È missionario della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo e da sei anni guida le comunità di Comunione e Liberazione sparse in tutto il Continente.
Il centro dei gesuiti dove si è svolta l’Assemblea responsabili del movimento, l’Espaço Anhanguera a San Paolo del Brasile, è uno dei posti in cui si radunava il Partito dei lavoratori dell’ex presidente brasiliano Lula, che passo a passo «ha lasciato Cristo per la lotta sociale». La coincidenza lo colpisce. «È la stessa alternativa, sempre, per la Chiesa e per ciascuno di noi».

Che cosa pensa guardando, oggi, l’America Latina? Ci sono problemi molto grandi. C’è il narcotraffico, c’è la violenza, la crisi. Ma quello che vedo di più sono dei fatti che mostrano come Cristo continua ad essere presente. Come ha detto di recente il papa emerito Benedetto XVI:?«Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza».

Quali?
La cosa più importante è che il Papa è molto presente in Sudamerica. Lo è come pastore universale. E sta iniziando, sta offrendo una pacificazione del Continente. Meglio, lui è il cuore di una «conversione pastorale» della Chiesa, in America Latina ma non solo. Questa è la parola fondamentale: conversione pastorale.

Cosa significa?È una conversione molto concreta e che provoca resistenze da parte di una nostra certa mentalità tradizionalista. Anche nella stessa Chiesa, tra i cattolici. Francesco non vuole identificare la proposta politica “più nemica o più amica”, elimina gli schemi e le categorie. Lui cerca l’essenziale della fede, con un desiderio forte di incontrare tutti, di creare un mondo nuovo, di pace. Apre dialoghi con uomini lontani, ideologicamente, dalla Chiesa. Prendiamo l’esempio dei sistemi economici: lui non si identifica nella guerra tra liberalisti e populisti. La Chiesa è un’altra cosa. Non è nata per cambiare i Governi. Allora, quello che vedo in Francesco è che sta puntando il nostro sguardo sul fatto che la Chiesa è nata perché Cristo sia di tutti. Cristo è di tutti.

In che senso «Cristo è di tutti»? E cosa ci sta chiedendo il Papa?Cristo ha parlato a tutti. Ed è morto per tutti. Questo significa che c’è un seme nell’altro, un seme che noi dobbiamo imparare e di cui abbiamo bisogno. Che cos’ha l’altro di buono per me? Il fatto che vedi in lui che Cristo lo cerca. Chiunque sia, qualunque cosa abbia fatto. Perché dovrei restare colpito e lasciarmi cambiare da uno che sta in carcere? Perché vedo un uomo cercato da Cristo. La redenzione è questa. Quello che ci è chiesto è di non “chiudere” l’incarnazione, cioè Cristo che cerca l’altro. E questo può favorirlo solo una Chiesa in uscita, che comporta un cambiamento. La forza della “prima” Chiesa, della Chiesa degli inizi è stata non rimanere a Gerusalemme. Avere chiaro che la propria missione era per tutto il mondo. Quegli uomini, quegli apostoli, che amavano il Tempio di Salomone, potevano dire: rimaniamo a difendere Gerusalemme. Invece hanno detto: qui sono solo pietre. Nel primo secolo erano in Spagna. E di lì in India... La difesa è debole, perché chiude l’incarnazione. Questa è la proposta del Papa. E anche del movimento.

Può fare degli esempi? L’alternativa a cui siamo di fronte l’ho capita bene in due fatti che mi sono successi negli ultimi giorni. Ero sull’aereo tra Sudamerica ed Italia. Un’hostess, che ha reincontrato la fede da poco, durante una pausa del suo lavoro mi ha detto: «Posso raccontarti il percorso di fede che sto facendo?». Siamo stati a parlare ed è stato il più bel viaggio che ho fatto in tutti questi anni. Mentre quasi tutti in aereo dormivano, ad undicimila metri sopra l’Oceano Atlantico, a 60 gradi sotto zero, su un mezzo insicuro, quella voce, amica, ha avuto la forza di svegliarmi, dicendomi la cosa più grande del mondo, perché tutta definita dalla Misericordia di Gesù. Questa è la Chiesa: una bella donna, fragile, non perfetta, come tutti, ma che accompagna gli uomini da un posto all’altro, offrendo un bicchiere d’acqua a chi lo chiede, e la cui vota porta una testimonianza, un punto fermo per il mondo. Per l’uomo di oggi, che ha bisogno della misericordia, ma che senza un incontro vivo dorme. Come avrei dormito anch’io, senza di lei.

E il secondo fatto? Ero ad un cocktail in Argentina, con varie personalità ed autorità. Ci stavamo conoscendo l’un l’altro. E c’era un politico, religioso e molto osservante, che mi ha colpito perché è stato distratto tutto il tempo: era così preoccupato di rispettare i precetti del suo credo, che non è riuscito a parlare con gli altri ospiti. Il problema non è lui, ma mi ha richiamato al fatto che io posso voler essere fedele a delle regole e non incontrare niente e nessuno. E non testimoniare nulla. I nostri valori se non sono la conseguenza di un incontro ci rendono chiusi, se non ridicoli. Perché la prima testimone della Risurrezione di Gesù è una prostituta? Non perché Gesù ha detto: si può fare tutto, va bene tutto. Ma perché tutto il valore di quella donna era di essere amata dal Mistero. Sono solo due esempi, ma in cui ho visto l’alternativa per la Chiesa, per ciascuno di noi.

E cos’ha capito di più? Il mondo ferito siamo noi. Non sono gli “altri”. Noi, i nostri amici, le nostre famiglie, i nostri preti. Non c’è nessuno che non sia ferito. Per questo in Messico Francesco ha fatto testimoniare famiglie travagliate. È la testimonianza del Figliol prodigo. Ma noi rischiamo di essere i fratelli maggiori. Per questo ci viene paura se il Papa apre a tutti. Per questo, Julián Carrón insiste tanto - come nell’Assemblea che abbiamo vissuto in Brasile - sul fatto che dobbiamo imparare di nuovo cos’è il cristianesimo. La verità non l’apprendi con una formula precisa, ma la impari quando la individui in una circostanza, quando sai vederla in quello che accade. E l’unico posto in cui s’impara la verità in tutto il suo valore è la misericordia. Non è una cosa che applichi, ma che arriva, che Dio ti dà. Se non attendi di imparare quello che già sapevi, non sperimenti la verità. Ed è evidente che questo deve accadere tutti i giorni.

Come si reimpara tutti i giorni? Mi rendo conto che noi possiamo arrivare a fine giornata e dire: «Oggi è andata bene. È andata bene perché non ho avuto bisogno». Come se dicessimo: «Oggi Gesù puoi stare tranquillo con me, lavora per gli altri». Ma quel giorno in cui io non ho bisogno della misericordia, non ho bisogno di Te, Cristo. Abbiamo un patrimonio in banca per noi, la misericordia di Dio, e pensiamo di non averne bisogno. Non abbiamo ancora capito questa parola. La realtà che il mondo ci offre, in tutto, ci aiuta proprio in questo: ad andare fino in fondo al mistero che Cristo è. Come ci ha insegnato Giussani: dopo che abbiamo tutto chiaro, Cristo è di più. È sempre di più.

Dice che il mondo aiuta la Chiesa a conoscere quello che ancora non sa di Cristo?Sì. Per questo il metodo è quello della Chiesa “in uscita”. È la nostra unica possibilità.

Questo come sta cambiando l’America Latina? Il Nuovo Mondo sta diventando un luogo di incontri impossibili. Chi poteva pensare che Castro, un uomo che dice «Dio è l’oppio dei popoli», offrisse l’unico aeroporto comunista del Sudamerica per un incontro che dopo mille anni favorisce l’unità della Chiesa? L’unità, ovvero ciò che sarebbe la testimonianza più grande di Cristo risorto! Al posto di favorire la divisione. Quindi, l’America Latina vive la sfida di mostrare, come dicevamo, qualcosa di Cristo che ancora la Chiesa non conosce. Questo avviene attraverso “processi” che si aprono, che iniziano. La Chiesa è il luogo dei processi. E ha scelto Cuba, un posto che è sempre stato “un problema”, guardandolo come possibilità. La pacificazione di Cuba significa pacificazione di tutto il Continente, perché, se pur “piccola”, è strategica.

Qual è, quindi, la novità che la Chiesta sta portando in America Latina? La pazienza nella storia. La pazienza che serve per risolvere un problema. La misericordia non è qualcosa che resta “intimo”, incide nella costruzione sociale: è pastorale. Lo sguardo di Gesù cambia il mondo, apre un dialogo tra due nemici (mentre parliamo Barack Obama è a Cuba; ndr) e mostra che il problema non è accusare l’altro. Tutti noi siamo più sicuri se c’è qualcuno che è “cattivo”, ma questo non offre niente all’uomo perché possa cambiare. Mentre è evidente che la Chiesa, ben prima di Francesco, ha sempre lavorato per creare un ponte, in un mondo dove identifichiamo sempre il limite, quello che manca. Non vuol dire che non ci sia il male, l’errore: la Chiesa non è ingenua, ma guarda all’uomo, non al “delitto”, perché per lei esiste una forza più grande, un valore più grande.

Come vede l’esperienza del movimento in Sudamerica oggi? Dove le persone fanno un lavoro sulla propria esperienza, diventano un faro, in ogni posto. Sono “piccole” luci in questo Continente immenso, ma sono stelle nella notte: ti orientano. Seguendo la posizione delle stelle nell’oscurità, posso camminare. È la vittoria di Cristo. Se penso ai nostri in Venezuela...

Nella grande crisi che vivono?Sì. Soprattutto nei posti dove certi Governi sono più devastanti, il movimento si è salvato da una posizione reattiva. Gli amici del Venezuela hanno visto che c’era una possibilità più grande che essere “contro” il Governo. Due di loro - due professori universitari - mi raccontavano che non hanno più la possibilità di mangiare carne, pesce, eccetera, e sono tornati alle patate: «Dobbiamo essere creativi con le patate!», mi hanno detto. Questo mi commuove. Tu puoi passare la vita lamentandoti o diventando sempre più attento alla realtà per trovare soluzioni. C’è una signora, benestante, che si fa da sola la biancheria intima; amici che si danno l’un l’altro quello di cui hanno bisogno, anche togliendolo a sé; i più giovani che scoprono la caritativa, fino ad offrirsi per lavare la madre anziana di uno di loro. E poi vedo tanta sete. Di ogni parola chiedono, e vogliono capire, approfondire.

È nato anche un coro, tra di loro, in questo tempo di crisi.Hanno detto che può mancargli tutto, ma non la bellezza. Le grandi difficoltà non sono l’ultima parola. E il potere non può impedire questo desiderio. Questo già cambia il mondo. È un segno, come il fatto che tanti che potevano andare via non sono andati: guadagnano sempre meno, soffrono sempre di più, ma restano per amore a Cristo. Tra di noi non ci siamo mai detti: bisogna restare. Ciascuno deve scegliere in assoluta libertà se rimanere o meno. E restano, dando vita ad una solidarietà nuova.

In cos’altro vede la vita cambiata dalla fede? Sicuramente, nella violenza. È una cosa difficilissima questa, che lascia delle ferite terribili nell’uomo. Ma poi guardi il nostro amico Oliveiro del Messico: gli hanno ammazzato il padre e poteva passare la vita con il desiderio di vendetta, invece la passa a costruire la pace. Se in lui la violenza non è l’ultima parola, sarà vinta definitivamente. Un altro tema molto delicato è quello dei popoli indigeni. Sono stati conquistati e violentati: la Chiesa questo l’ha giudicato. Il Papa è andato in Chiapas e ha chiesto perdono, e si è riferito a questo problema più volte. Sono popoli poverissimi, estranei a tutti, agli stessi Paesi in cui vivono, ma c’è un dialogo nuovo anche qui, da parte della Chiesa insieme ad alcuni movimenti sociali, che sta favorendo l’aiuto a loro, oltre gli schieramenti.

Questo cosa ci dice?Che il primo sguardo su di loro è che esistono. Dopo tutta la storia, i soprusi, le manipolazioni, quel popolo esiste. La Chiesa guarda la realtà! Non c’è la fede e poi la storia. C’è la fede nella storia. Loro esistono e non sono identificati innanzitutto come “un problema”: sono un bene. Ci insegna anche questo: il popolo è una cosa buona. Infatti, la Chiesa lotta per fare un’esperienza di popolo. Non di élite...

In che senso? Nel senso che il protagonismo delle persone possa essere sempre più grande. Il protagonismo di ciascuno, di ogni battezzato. Chi è chiamato a educare deve solo favorire la crescita di questo. C’è un fatto significativo: la Conferenza generale di Aparecida - il cui documento mi sembra resti il giudizio ultimo a cui Francesco si riferisce per guardare al Sudamerica - è stata fortemente voluta in un Santuario, perché un Vescovo giudicando e proponendo abbia davanti agli occhi il popolo, la fede del popolo. Giussani ci ha sempre insegnato che «la vittoria di Cristo Risorto è il popolo cristiano». Il pericolo, quindi, è pensare che l’esperienza cristiana è per pochi, un cattolicesimo dei puri. Lo vediamo per noi: il movimento è un popolo di feriti, come gli altri. Quando il Papa ci ha corretto sull’autoreferenzialità, ci ha detto questo, che noi non possiamo dire: ecco, noi questo lo facciamo bene, lo viviamo bene. No, noi siamo come tutti, bisognosi di misericordia come tutti, ma portando un bene per tutti. Questo lo impariamo di più grazie a questo Papa che, come è stato chiaro fin dall’inizio, ha portato l’America Latina a Roma e Roma in America Latina.

Spieghi meglio... Porta a Roma l’importanza della periferia, che è appunta una grande conversione di sguardo. E porta al popolo sudamericano il cuore della Chiesa: qui non lo ascoltano come sudamericano, come argentino. Assolutamente. Ma come Vescovo di Roma.

Cosa l’ha colpita delle presentazioni della biografia in spagnolo di don Giussani, in Argentina e in Paraguay? La cosa per me più interessante è nuovi lettori di Giussani, gente che non c’entra con il mondo della Chiesa, ci offrono uno sguardo su di lui molto essenziale. Non incontrano la sua opera, i suoi libri, i suoi argomenti, il suo pensiero. Ma la sua persona. Giussani è molto poco conosciuto qui, e chi lo conosce lo conosce come un buon ideologo. È come se uno conoscesse il Vangelo, ma non pensasse mai a Cristo. La biografia è un’occasione per un incontro con la sua persona, con il suo percorso, e la scoperta che il suo cammino è un aiuto all’uomo di oggi per essere se stesso. Un ospite ha detto: «È un grande esploratore del cuore umano, del mio cuore». Ed un altro: «Ah, ma il cristianesimo è questo?». Come a dire: questo è un diamante ed io non lo sapevo! Poi, è stato molto bello vedere come le comunità si sono coinvolte per realizzare questi incontri. Non avevo mai visto una mossa così. Anche tra i più giovani: per loro Giussani è un uomo del passato, un vecchietto. Non potrebbe mai prendere la vita. Invece no, è più vivo che mai: solo un’esperienza che accade, presente, ti fa desiderare e vivere così.
(www.tracce.it)