TEMPERANZA
La virtù del buon umore
Scopo della temperanza è
quello di governare nella persona umana gli slanci propri della sua
natura. In tal senso, Aristotile insegnava che la temperanza «è una
medietà relativa ai piaceri» ( Etica Nicomachea III, 10). Il termine greco cui egli ricorre è edoné,
che vuol dire piacere, ma pure gioia; godimento, ma pure compiacenza.
Nella forma plurale indica le passioni, ma anche i desideri.
Sofocle, nelle sue tragedie aveva fatto ricorso a edoné per dire che si può essere «pazzi per la gioia» ( Elettra 1153), ma pure ch’è possibile «buttar via il senno per la voluttà» ( Antigone
648). Ecco, allora, l’importanza del termine medietà, usato da
Aristotile: la temperanza è intermedia fra due eccessi, che nei casi
estremi sono l’insensibilità e la sfrenatezza. Sono due forze opposte
che possono lacerare una persona. Lo abbiamo veduto per Medea.
Altrettanto drammatica la vicenda di Mezio Fufezio, l’ultimo re di Alba
Longa ( VII secolo a. C.), che da Tullo Ostilio, l’antagonista re di
Roma fu fatto legare ad una quadriga per le braccia e ad un’altra per le
gambe sicché i cavalli, spronati in direzioni contrarie, strapparono le
sue membra (cfr.
Historiarum ab Urbe condita I, 28)! Così le passioni e i desideri possono rovinare gli uomini se non sono guidati dalla temperanza...
Tommaso condividerà sostanzialmente la tesi aristotelica,
reinterpretandola ovviamente in senso cristiano e stabilendo che in
ogni caso, come per le altre virtù umane, più importanti sono le virtù
teologali.
Cosa, però,
la temperanza ha di proprio, rispetto alle altre virtù umane? J. Pieper,
filosofo cattolico tedesco (1904-1997) che sulla lettura tomista della
temperanza ci ha lasciato uno studio fondamentale, spiega bene che
diversamente dalle altre, la virtù della temperanza tocca direttamente
la persona. Scrive: «La prudenza guarda alla realtà concreta di tutti
gli esseri; la giustizia regola i rapporti con altri; con la fortezza
l’uomo, dimentico di se stesso, sacrifica beni e vita. La temperanza, invece, è ordinata all’uomo stesso. Temperanza significa: prendere di mira se stessi e la propria condizione, dirigere sguardo e volontà su noi stessi» ( La temperanza, Brescia-Milano 2001, 28).
La sua funzione propria, dunque, è moderare gli slanci della natura
umana. Non che essa si opponga alle inclinazioni, ai desideri, alle
simpatie, alle preferenze… La virtù della temperanza non nega tutto
questo; invita, piuttosto, a farne un uso ordinato, armonico,
costruttivo[...]. La temperanza non è nemica della gioia, ma della sua
ricerca smodata, a tutti i costi, anche a discapito degli altri. Una
traccia di questa istanza la troviamo forse nel termine contrario di intemperanza,
col quale s’indicano gli atteggiamenti scostanti, esagerati, “sopra
le righe” al punto da destare irritazione e suscitare disgusto.
Pensiamo, ad esempio, alle intemperanze nell’uso dei beni materiali,
in particolare del denaro, e nell’uso del potere. Nella Scrittura
leggiamo che coloro «che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione,
nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare
gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro
infatti è la radice di tutti i mali» ( 1Tim 6, 9-10). Sono qui messi a tema questioni a noi purtroppo
ben note, come gli acquisti e l’arricchirsi disonesti; le spese
sfrenate per il lusso e i divertimenti… è implicito, però, anche il loro
contrario che è l’avarizia (si pensi alla figura tipica dell’avaro
disegnato da Molière).
Il testo biblico citato richiama pure la corruzione amministrativa e
politica, che nasce dall’avidità personale o di gruppo; l’arroganza e
la tracotanza nella gestione della cosa pubblica; l’uso spregiudicato
del potere sì da “logorare chi non ce l’ha”, come recita un noto
aforisma di Talleyrand, che in Italia ha la voce e il volto di un altro
politico.
Ora, la virtù
umana che, unitamente alla giustizia, può tagliare alla radice tutto
questo è proprio la temperanza. Essa aiuta a porre degli argini alle
passioni e questo non per annullarne, ma perché non giungano a
scompaginare e destrutturare la persona e far sì, invece, di produrre
effetti benefici per l’uomo [...]. In relazione alla virtù della temperanza, la tradizione cattolica pone anche quella preziosa del
buon umore,
capace di mantenere il giusto equilibrio fra la battuta e lo scherzo
volgare e scurrile e la freddezza insapore... In fin dei conti
l’umorismo è proprio l’arte di conservare la “giusta misura” ( métron)
dal mondo per puntare meglio all’essenziale. Si tratta, però, anche di
una questione cristiana, come ha simpaticamente spiegato G.P. Salvini
S.J. in un articolo pubblicato lo scorso anno su “La Civiltà Cattolica”
e intitolato L’umorismo di Dio
(cfr. quaderno 2017 - 3/17 giugno 2017, 484-489). Anche “L’Osservatore
Romano” del 2-3 maggio 2015 nel numero 35 del mensile “donne chiesa
mondo” aveva pubblicato alcuni intervento sul tema.
È per questa pertinenza cristiana dell’umorismo e dell’ironia che nell’esortazione apostolica Gaudete
et exsultate
sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 marzo 2018)
Francesco ha ricordato che «il malumore non è un segno di santità» e
che «a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo stare
talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni
di Dio» (n. 126). Lì come modello il Papa ha scelto san Tommaso Moro,
il quale diceva di sé: «Mi si rimprovera di mescolare battute, facezie e
parole scherzose con i temi più seri. Credo che si possa dire la
verità ridendo. Di certo si addice meglio al laico, quale io sono,
trasmettere il proprio pensiero in modo allegro e brioso, piuttosto che
in modo serio e solenne, come fanno i predicatori ». Di Tommaso Moro,
Louis Bouyer scrisse che «pochi uomini, in tutta la storia inglese, sono
al pari di Thomas More, tipici rappresentanti di quella forma di
finezza, incomprensibile per il latino o il tedesco, che si è soliti
chiamare humour» (in
Erasmo tra Umanesimo e Riforma,
Brescia 1962, 94). Se volessimo, allora, concludere con una preghiera
il nostro incontro, potremmo recitare questa di Tommaso Moro, che il
Papa ha inserito nella sua esortazione e che ci mostra bene il senso
della virtù della temperanza: «Dammi, Signore, una buona digestione, e
anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buon
umore necessario per mantenerla. Dammi, Signore, un’anima santa che
sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti
al peccato, ma piuttosto trovi il modo di rimettere le cose a posto.
Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i
lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella
cosa tanto ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso
dell’umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia
nella vita un po’ di gioia e possa comunicarla agli altri. Così sia».
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«È per la pertinenza cristiana dell’umorismo e dell’ironia che nella
“Gaudete et exsultate” sulla chiamata alla santità nel mondo
contemporaneo Francesco ha ricordato che “il malumore non è un segno di
santità” e che “a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo
stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di
riconoscere i doni di Dio”»

UFFIZI. Piero del Pollaiolo, “La temperanza” (1470)