mercoledì 30 aprile 2025

Card. Ruini: Preghiera per la Chiesa del prossimo futuro


 

Preghiera per la Chiesa del prossimo futuro

di Camillo Card. Ruini

 

L’eredità di Papa Francesco è una questione che interroga in profondità e scuote la Chiesa. In queste righe la affronterò in un’ottica fiduciosa, perché fondata sulla potenza misericordiosa di Dio che guida i nostri passi sulla via del bene.

 

Formulerò quattro auspici – che sono anche invocazioni – per la Chiesa di un futuro che spero molto prossimo. Confido in una Chiesa buona e caritatevole, dottrinalmente sicura, governata a norma del diritto, al suo interno profondamente unita. Queste sono le mie intenzioni di preghiera, che vorrei largamente condivise.

 

1. Anzitutto, dunque, una Chiesa buona e caritatevole. L’amore portato a efficacia di vita è infatti la legge suprema della testimonianza cristiana e quindi della Chiesa. Ed è ciò di cui la gente, anche oggi, ha maggior sete. Nel nostro stile di governo va quindi eliminata ogni inutile durezza, ogni piccineria e aridità di cuore.

 

2. Come ha scritto Benedetto XVI, oggi la fede è una fiamma che minaccia di estinguersi. Ravvivare questa fiamma è pertanto un’altra grande priorità della Chiesa. Serve per questo tanta preghiera, serve la capacità di rispondere in chiave cristiana alle sfide intellettuali di oggi, ma servono anche la certezza della verità e la sicurezza della dottrina. Da troppi anni stiamo sperimentando che, se queste si indeboliscono, tutti noi, pastori e fedeli siamo duramente penalizzati.

 

3. C’è poi la questione del governo. Il pontificato di Benedetto XVI è stato insidiato dalla sua scarsa attitudine a governare e questa è una preoccupazione che vale per ogni tempo, compreso il prossimo futuro. Guai inoltre a dimenticare che si tratta di governare quella specialissima realtà che è la Chiesa. Qui, come ho detto, la legge fondamentale è l’amore: lo stile di governo e il ricorso al diritto devono essere il più possibile conformi a tale legge, per chiunque assai impegnativa.

 

4. In questi anni abbiamo avvertito alcune minacce – che non vorrei esagerare – all’unità e alla comunione della Chiesa. Per superarle, e per far venire in piena luce quella che amo chiamare la “forma cattolica” della Chiesa, è decisiva, ancora una volta, la carità reciproca, ma è anche importante risvegliare la consapevolezza che la Chiesa, come ogni corpo sociale, ha le sue regole, che nessuno può impunemente ignorare.

 

All’età di 94 anni il silenzio si addice più delle parole. Spero tuttavia che queste mie righe siano un piccolo frutto del bene che voglio alla Chiesa.


sabato 26 aprile 2025

IL CUORE PULSANTE DI FRANCESCO SI E' DICHIARATO SOLO ALLA FINE

 


DOPO PAPA FRANCESCO/ Se il cuore pulsante del pontificato si è “dichiarato” solo alla fine

Ora che il pontificato di Papa Francesco si è concluso, sarebbe opportuno rileggerlo a partire dall'enciclica "Dilexit nos"

Danilo Zardin Pubblicato 26 Aprile 2025

 

Davanti alla circostanza gravida di mistero di una vita che si chiude sulla scena del mondo, come quella di papa Francesco, la gratitudine riconoscente dovrebbe precedere ogni altra reattività più o meno istintiva. Solo con enorme rispetto ed estrema sobrietà si può sostare pensosi, cercando di fissare nella memoria qualche tratto essenziale di un lascito che ci viene consegnato: perché l’esperienza del cammino forzatamente interrotto non scivoli via senza lasciare un frutto che rimanga, e dai passi compiuti possano così scaturire indicazioni affidabili per il futuro che ci attende.

 

La chiave di lettura forse più efficace da adottare è quella suggerita dal concentrarsi sul vertice più avanzato a cui ha condotto l’intensa testimonianza di fede di papa Francesco. Il punto di approdo finale restituisce il suo pieno significato all’intero percorso che lo ha preceduto: ne illumina alcuni dei più potenti significati nascosti e fa emergere più vividamente la linea di frontiera fino a cui si è spinta una coscienza alle prese con le sfide integrali della modernità. Ѐ proprio da lì che si può proseguire lungo le tracce che si trovano già abbozzate, con la pluralità fantasiosa degli stili che sono la segreta ricchezza della grande comunione di una Chiesa viva.

 

In questo senso, si rivela quanto mai opportuno mettere seriamente a profitto uno degli ultimi pronunciamenti autorevoli di papa Francesco: quello confluito nell’enciclica Dilexit nos, che porta la data del 24 ottobre 2024.

 

L’impianto che la sorregge appare subito al primo sguardo coraggiosamente sfidante, per chi accetti di misurarsi in modo leale con le provocazioni che vi sono racchiuse. Qui papa Francesco non interviene su questioni all’ordine del giorno nel dibattito pubblico. Si espone in modo libero e disarmato al rischio di far riecheggiare una voce decisamente fuori dal coro: è il suo punto di vista più radicale per non fermarsi alla superficie dei problemi sul tappeto, premuti dalle urgenze più impressionanti imposte dalla cronaca del presente.

 

I drammi della contemporaneità, i disagi e le miserie delle nostre condizioni di esistenza non sono elusi, bensì attraversati dal desiderio di affrontarli muovendo da un ancoraggio che li trascende, e che proprio per questo contiene l’invincibile speranza di poter scardinare i criteri di giudizio alla moda, dominati dal groviglio degli interessi e dalle visioni ideologiche del momento.

 

Innestandosi nel tronco fecondo della tradizione secolare del sentire cristiano, l’invito rivolto a tutti è quello di risalire alla sorgente primaria della potenza di vita nuova contenuta nell’avvenimento del sacrificio di Cristo morto e risorto per la salvezza del mondo. Questo nucleo essenziale è identificato senza mezzi termini con il cuore, allo stesso tempo umano e divino, di Cristo.

 

Ѐ il “centro del suo essere”, il fulcro della sua identità che continua a rendersi presente nella storia e ci raggiunge nelle condizioni di vita che ci definiscono: è “il suo centro personale da cui sgorga – incessante – il suo amore per noi”. Le braccia spalancate di Cristo sulla croce, il suo costato ferito da cui fluisce come acqua e sangue il fiume di una grazia totalmente condivisa, le piaghe del cruento supplizio ribaltate in strumenti di gloria che redime sono i segni sensibili del pulsare continuo di una realtà in cui si rivela la sostanza di Dio che è carità.

 

Scoprire questo centro di irradiazione della suprema carità che accoglie e perdona, entrare nel circuito di un abbraccio che stringe una relazione di interscambio reciproco, è il fondamento di ogni fede viva: una fede “incendiata” dalla carità, chiamata a diventare a sua volta “fornace” della nostra stessa apertura personale a una volontà di immedesimazione che, passando attraverso di noi, si rovescia sul mondo per naturale osmosi.

 

Non si tratta di evasivo “romanticismo religioso” d’altri tempi, insiste il testo della Dilexit nos. Non siamo davanti al “guscio vuoto” del sentimentalismo, ma al principio vivente della legge di un amore su cui incardina l’essere creature nuove, portatori di una soggettività rigenerata dall’incontro con il Tu che cambia e riorienta l’esistenza. Fare spazio a questa logica della ricentratura sull’essenziale porta a piena chiarezza il richiamo alla “precedenza” dell’amore totalmente gratuito di Dio che prende per primo l’iniziativa e si piega sul bisogno del cuore mendicante dell’uomo.

 

Agendo così, reinserisce l’esigenza di una giustizia responsabile nell’orizzonte più globale e originario della misericordia senza confini. Il primato dell’abbraccio misericordioso nutrito dal cuore amante di Cristo è il ponte diretto di collegamento con quello che si era evidenziato come il grande pilastro di appoggio della visione di papa Bergoglio fin dai primi passi del suo pontificato: l’esito del più maturo sviluppo si ricongiunge con lo slancio trascinante degli inizi. Ѐ anche il filo esplicito di collegamento con i due grandi Giubilei che hanno incorniciato i dodici anni di governo papale: il Giubileo della misericordia del 2015-16 e quello tuttora in corso dedicato alla speranza.

 

Ma si deve sottolineare che la spinta vigorosa al recupero dell’innesto dell’io personale sul fondamento che sta alla radice di tutto non può essere vista come un movimento a senso unico. Risalire fino al centro che è anche il tessuto profondo dell’esperienza di vita nuova del soggetto cristiano è la premessa dell’essere poi ributtati dal centro verso la totalità dell’orizzonte.

 

Amare questo centro pulsante, identificarsi con il flusso di energia che se ne sprigiona, è ciò che rimodella la coscienza e gli abiti morali del soggetto vivente, facendone il germe di una vitalità che solo attingendo alla sua linfa profonda può veramente contagiare: si apre verso l’esterno e diventa capace di entrare in dialogo con la realtà globale dell’esistente portandovi la ricchezza della sua originalità, il proprio timbro inconfondibile, senza appiattirsi sugli schemi dell’attivismo puramente filantropico o, all’opposto, della fuga nell’estraneazione del miracolismo devozionale.

 

L’incitamento costante al movimento della Chiesa “in uscita”, che invece di trincerarsi nei bastioni rassicuranti dei recinti del sacro si dispone a lanciarsi con entusiasmo nell’offerta del suo patrimonio di umanità riconciliata con la verità, la carità e la giustizia, ultimamente con la luce della fede, ha costituito un’altra delle direttrici fondamentali del magistero di papa Francesco. Ma lo spalancamento missionario alla realtà totale del mondo, fino alle sue periferie più scomode e ostili, può crescere e prendere consistenza solo se si concepisce come il contraccolpo delle energie accumulate alimentandosi alle sorgenti della rivoluzione antropologica, cioè della conversione, cristiana. Il movimento “centrifugo” non è altro che la proiezione dilatata di un bene custodito non come un tesoro geloso da possedere, ma come un dono di vita nuova ricevuto per essere reso trasparente per tutti.

 

Il richiamo al dinamismo totalmente aperto ed espansivo di una fede da condividere come lievito per il mondo globale, tra l’Occidente della banalizzazione secolarizzante e i diversi Orienti alla rincorsa di nuovi bilanciamenti di potenza nel disordine conflittuale degli assetti planetari, rimane uno dei punti fermi più stimolanti lasciati in eredità da papa Bergoglio.

 

Nella cura di un tale genere di responsabilità sono state sollecitate a coinvolgersi tutte le forze sane della Chiesa dei nostri giorni, i suoi apparati e le sue strutture istituzionali da rivitalizzare dal profondo, i suoi molteplici carismi fioriti specialmente sul terreno delle organizzazioni e dei movimenti laicali. Ognuno di questi soggetti ha oggi più che mai di fronte a sé il compito di non rinchiudersi nell’autoreferenzialità che isterilisce, ma di ripensarsi come espressione della grande sinfonia al plurale della Chiesa universale. Sono cambiati molti paradigmi e gli incerti equilibri del passato. La transizione che si è messa in moto può essere la fonte di un positivo rilancio della solidarietà organica del tutto, di cui ogni singola realtà è solo una cellula vitale: se si perde il senso del legame, anche la cellula più fiorente deperisce e alla fine implode.

 

Per produrre tutti i suoi frutti, la rinnovata tensione missionaria di una testimonianza della novità cristiana dall’interno della Babele contemporanea – ha insegnato papa Francesco fino agli ultimi istanti della sua azione – dovrà però muoversi all’insegna del precetto paolino del “non conformarsi a questo mondo”. La novità da proporre è tutt’altro che sempre in sintonia con la logica delle convenienze. Innesca anche alternative e attriti. Espone a incomprensioni e a rischi di rifiuti che possono arrivare a essere aggressivi, come attesta in modo eloquente la militanza rimasta finora infruttuosa del vicario di Cristo a favore del ripristino della pace nei diversi teatri di guerra.

(….) https://www.ilsussidiario.net/news/dopo-papa-francesco-se-il-cuore-pulsante-del-pontificato-si-e-dichiarato-solo-alla-fine/2827202/#:~:text=PAPA-,DOPO%20PAPA%20FRANCESCO/%20Se%20il%20cuore%20pulsante%20del%20pontificato%20si%20%C3%A8,e%20ha%20ricucito%20in%20alleanza%20sponsale%20la%20terra%20con%20il%20cielo.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94


mercoledì 23 aprile 2025

SCENARIO CONCLAVE: chi verrà dopo papa Francesco dovrà affrontare sfide inedite

 



SCENARIO CONCLAVE/ Da Wojtyła a Pio XII, quando la “geopolitica” parla (anche) alla fede

Francesco è stato papa "anti-geopolitico" per eccellenza, ma chi lo sostituirà dovrà affrontare sfide senza precedenti

Nicola Berti Pubblicato 22 Aprile 2025

 

“A geopolitical Pope”: andò a colpo sicuro Time nell’ottobre del 1978 con il neoeletto Giovanni Paolo II. Karol Wojtyła non era un diplomatico, non aveva vissuto un solo giorno in Curia romana, ma secondo il settimanale statunitense – abituato a scegliere l’Uomo dell’Anno – sembrava essere stato chiaramente “scelto” da una situazione geopolitica in evoluzione.

 

Come in effetti fu con la caduta dell’URSS, di cui il Pontefice risultò protagonista, il conclave stesso rispecchiò nella Chiesa uno scacchiere che aveva visto l’Europa emergere con una dimensione nuova e forte, al punto da rompere la tradizione di un Pontefice italiano. La Polonia nel 1978 era ancora al di là del Muro e non faceva parte di una CEEA, come molti dei Paesi europei i cui cardinali puntarono su Wojtyła. Tutti erano invece entrati nella UE quando Giovanni Paolo II morì.

 

Settantacinque anni prima – nel primo conclave del ventesimo secolo – la geopolitica europea aveva giocato un ruolo altrettanto forte ma opposto. Nel 1903 l’Impero asburgico pose il veto sull’elezione del segretario di stato filofrancese, Mariano Rampolla, e impose un suo suddito, il patriarca di Venezia Angelo Sarto. Ma già alla morte di Pio X, nel 1914, la Chiesa mostrò di essere entrata nel nuovo secolo senza inerzie ottocentesche.

 

La Prima guerra mondiale era iniziata da poche settimane e il Sacro Collegio chiamò al Soglio l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Dalla Chiesa: che teneva già “in pectore” il famoso appello del 1917 contro l'”inutile strage”, divenuta nel frattempo spaventosa come mai nella storia. Si ricorda tuttora poco che dietro il grido di dolore pastorale di Benedetto XV non mancava un serie di proposte utili a far cessare il fuoco: non così distanti dai “Quattordici Punti” con cui il presidente statunitense Woodrow Wilson dettò due anni dopo i trattati di pace a un’Europa devastata.

 

La geopolitica ha dettato il profilo di un Papa anche nel 1939, quando i tamburi della Seconda guerra mondiale già rullavano. Nessuno, in un conclave lampo, mostrò dubbi sul segretario di Stato Eugenio Pacelli: un vero “cittadino vaticano”, ma soprattutto un diplomatico conosciuto in tutte le cancellerie e perfetto conoscitore della trama complessa delle relazioni internazionali. Ed era talmente convinto, il cardinale Pacelli, della nuova dimensione globale della Chiesa, da ritardare l’inizio del conclave per attendere i cardinali che arrivavano per mare dal continente americano.

 

Papa Pacelli dovrà probabilmente attendere ancora per essere canonizzato: ma pochi – anche fra chi continua ad accusarlo di responsabilità nella Shoah – dubitano che con un Papa meno geopolitico la Chiesa sarebbe sopravvissuta con molte più difficoltà ai sei anni di conflitto planetario.

 

Non molti invece sono pronti a rammentare che anche il successore – Giovanni XXIII, “Papa buono” per antonomasia – era un diplomatico di professione, formatosi su fronti aspri: i Balcani fra le due guerre, Istanbul “città aperta” e non da ultimo la difficile Francia del 1945, avvelenata da cinque anni di occupazione nazista. E il giovane Angelo Roncalli era stato segretario di Propaganda Fide, la “diplomazia missionaria” della Santa Sede.

 

I detrattori del Papa del Concilio – massimo evento ecclesiale del secolo scorso – hanno spesso lamentato che, quando fu eletto, non avesse alle spalle un curriculum di studioso: ma non era necessario essere un teologo per intervenire in tempo reale nella crisi di Cuba del 1962. Semmai tutti citano ancora, sessant’anni dopo, l’enciclica Pacem in Terris o la costituzione conciliare che ha affidato alla Chiesa la missione di essere Lumen Gentium.

 

Quest’ultima fu sottoscritta da Paolo VI, che venne eletto durante il Concilio e nel primo anno di pontificato si recò a Gerusalemme, mentre nel secondo volò all’ONU. Dal Palazzo Apostolico, monsignor Montini aveva partecipato in prima battuta al drammatico day-to-day della guerra mondiale e a un dopoguerra forse più complesso ancora sul piano geopolitico.

 

In una fase massimamente geopolitica appare difficile che il prossimo conclave si estranei dalle sfide che il nuovo Papa e la Chiesa devono, vogliono affrontare. Papa Francesco – pontefice “anti-geopolitico” per eccellenza – lascia tuttavia una Chiesa rilevante su tutte le linee calde, anche nella sua freddezza verso l’Europa.

(…)

https://www.ilsussidiario.net/news/scenario-conclave-da-wojtyla-a-pio-xii-quando-la-geopolitica-parla-anche-alla-fede/2825919/#:~:text=CRONACA-,SCENARIO%20CONCLAVE/%20Da%20Wojty%C5%82a%20a%20Pio%20XII%2C%20quando%20la%20%E2%80%9Cgeopolitica%E2%80%9D%20parla,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94,-Abbiamo%20bisogno%20del


venerdì 18 aprile 2025

Alla fine di un mondo. Dialogo con il Cardinale Pizzaballa

 


https://www.ilfoglio.it/chiesa/2025/04/14/news/alla-fine-di-un-mondo-dialogo-con-il-card-pizzaballa-tra-amaro-realismo-e-speranza-cristiana-7615950/#:~:text=%E2%80%9C%C3%88%20finita%20un%E2%80%99epoca,MAURIZIO%20CRIPPA

Il mistero del Sabato Santo: Joseph Ratzinger

 


"Solo attraverso il fallimento del Venerdì santo, solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà"

La meditazione qui pubblicata risale al 1967 ed è raccolta nel volume “Il Sabato della storia” di Joseph Ratzinger e William Congdon, edito da Jaca Book

 

Con sempre maggior insistenza si sente parlare nel nostro tempo della morte di Dio. Per la prima volta, in Jean Paul, si tratta solo di un sogno da incubo: Gesù morto annuncia ai morti, dal tetto del mondo, che nel suo viaggio nell’aldilà non ha trovato nulla, né cielo, né Dio misericordioso, ma solo il nulla infinito, il silenzio del vuoto spalancato. Si tratta ancora di un sogno orribile che viene messo da parte, gemendo nel risveglio, come un sogno appunto, anche se non si riuscirà mai a cancellare l’angoscia subita, che stava sempre in agguato, cupa, nel fondo dell’anima. Un secolo dopo, in Nietzsche, è una serietà mortale che si esprime in un grido stridulo di terrore: “Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso!”.

 

Cinquant’anni dopo, se ne parla con distacco accademico e ci si prepara a una “teologia dopo la morte di Dio”, ci si guarda intorno per vedere come poter continuare e si incoraggiano gli uomini a prepararsi a prendere il posto di Dio. Il mistero terribile del Sabato santo, il suo abisso di silenzio, ha acquistato quindi nel nostro tempo una realtà schiacciante. Giacché questo è il Sabato santo: giorno del nascondimento di Dio, giorno di quel paradosso inaudito che noi esprimiamo nel Credo con le parole “disceso agli inferi”, disceso dentro il mistero della morte. Il Venerdì santo potevamo ancora guardare il trafitto. Il Sabato santo è vuoto, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre il defunto, tutto è passato, la fede sembra essere definitivamente smascherata come fanatismo. Nessun Dio ha salvato questo Gesù che si atteggiava a Figlio suo.

 

Si può essere tranquilli: i prudenti che prima avevano un po’ titubato nel loro intimo se forse potesse essere diverso, hanno avuto invece ragione.Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo a essere un grande Sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano pieni di vergogna e angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro?

 

Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso: ci siamo propriamente accorti che questa frase è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana e che noi spesso nelle nostre viae crucis abbiamo ripetuto qualcosa di simile senza accorgerci della gravità tremenda di quanto dicevamo? Noi lo abbiamo ucciso, rinchiudendolo nel guscio stantio dei pensieri abitudinari, esiliandolo in una forma di pietà senza contenuto di realtà e perduta nel giro di frasi fatte o di preziosità archeologiche; noi lo abbiamo ucciso attraverso l’ambiguità della nostra vita che ha steso un velo di oscurità anche su di lui: infatti che cosa avrebbe potuto rendere più problematico in questo  mondo Dio se non la problematicità della fede e dell’amore dei suoi credenti? L’oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che diventa in misura sempre maggiore un Sabato santo, parla alla nostra coscienza.

 

Anche noi abbiamo a che fare con essa. Ma nonostante tutto essa ha in sé qualcosa di consolante. 
La morte di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo espressione della sua radicale solidarietà con noi. Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non ha confini. E ancora una cosa: solo attraverso il fallimento del Venerdì santo, solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà. Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi. L’immagine che si erano formata di Dio, nella quale avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta perché essi attraverso le macerie della casa diroccata potessero vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre l’infinitamente più grande. Noi abbiamo bisogno del silenzio di Dio per sperimentare nuovamente l’abisso della sua grandezza e l’abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui.

 

C’è una scena nel Vangelo che anticipa in maniera straordinaria il silenzio del Sabato santo e appare quindi ancora una volta come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare. Il profeta Elia aveva una volta irriso i preti di Baal, che inutilmente invocavano a gran voce il loro dio perché volesse far discendere il fuoco sul sacrificio, esortandoli a gridare più forte, caso mai il loro dio stesse a dormire. Ma Dio non dorme realmente? Lo scherno del profeta non tocca alla fin fine anche i credenti del Dio di Israele che viaggiano con lui in una barca che sta per affondare? Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per affondare, non è questa l’esperienza della nostra vita? La Chiesa, la fede, non assomigliano a una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente? I discepoli gridano nella disperazione estrema e scuotono il Signore per svegliarlo, ma egli si mostra meravigliato e rimprovera la loro poca fede. 

 

Ma è diversamente per noi? Quando la tempesta sarà passata, ci accorgeremo di quanto la nostra poca fede fosse carica di stoltezza. E tuttavia, o Signore, non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio che stai in silenzio e dormi, e gridarti: svegliati, non vedi che affondiamo? Destati, non lasciar durare in eterno l’oscurità del Sabato santo, lascia cadere un raggio di Pasqua anche sui nostri giorni, accompàgnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza. 

(.....) https://www.ilfoglio.it/chiesa/2024/03/30/news/il-mistero-del-sabato-santo-la-meditazione-del-prof-ratzinger-6388765/

Giovanni Bellini, Compianto su Cristo morto, Particolare


 

sabato 5 aprile 2025

LETTURE/ Adrien Candiard, il bello di accettare la grazia e tornare alla semplicità della Salvezza

 


LETTURE/ Adrien Candiard, il bello di accettare la grazia e tornare alla semplicità della Salvezza

L'ultimo, agile ma denso lavoro del domenicano Adrien Candiard, "La grazia è un incontro", è un ritorno all'essenzialità della fede. E una proposta

Gianni Varani Pubblicato 5 Aprile 2025

 

Padre Adrien Candiard, domenicano francese di 43 anni, è già da qualche anno un’autorevole figura di riferimento in molti ambiti del mondo cattolico e anche fuori da esso. Lo è sia per i contenuti che per la testimonianza che offre. E che viva da una dozzina di anni al Cairo, nel cuore di una capitale dell’islam, accresce l’interesse per le riflessioni che condivide in molti campi, non solo teologici. C’è tuttavia un aspetto non secondario ed evidentemente voluto, delle sue intense e diffuse attività editoriali, che val la pena portare ad esempio.  Ed è l’efficace “sinteticità” di molti suoi libri.

La maggior parte delle sue non poche pubblicazioni oscillano tra le 70 e le 140 pagine. E lo stile che lo caratterizza è brillante, stimolante e non disdegna l’intelligente ironia. Il francese, sua lingua madre, riesce altrettanto bene nella traduzione italiana, lingua che Candiard maneggia con notevole padronanza, avendola studiata fin dalle medie. Una delle sue ultime fatiche, La grazia è un incontro (LEV, 2024; in francese il titolo è Sur la Montagne. L’aspérité et la grâce), arriva a ”sole” 109 pagine. Si leggono con assoluta scioltezza e accessibilità. Ciò non significa affatto che i contenuti siano “leggeri”.

È stato chiesto a Candiard – che ogni tanto partecipa a incontri molto affollati in Italia, Francia e in altri Paesi – perché di questa sua “cifra” comunicativa. Scherzando ha sostenuto che l’editore non ne sarebbe in realtà felicissimo, perché con così poche pagine non farebbe abbastanza profitto. Ma la risposta di merito è un’altra: i lettori e gli ascoltatori in genere faticano a trattenere e rammentare più di un argomento fondamentale. Occorre proporre un solo tema centrale, articolarlo e renderlo comprensibile e tale da poter essere meditato e ricordato. Candiard non lo dice, ma verrebbe da imporre questa filosofia comunicativa sintetica come standard per le omelie e i saggi di tanti pulpiti cattolici.

Il citato La grazia è un incontro è, da questo punto di vista, un esempio perfetto. Il filo conduttore del testo è già ben sintetizzato nel sottotitolo: Se Dio ci ama gratis, perché i comandamenti?. La domanda ha ulteriori sviluppi, in varie parabole ed episodi, così sintetizzabili: Cristo sembra di manica molta larga col perdono, basti pensare all’adultera, al pubblicano o al figliol prodigo, ma nel contempo sembra alzare enormemente l’asticella della “pretesa morale”, vedi la richiesta al giovane ricco di lasciare tutti i beni. Oppure l’invito a porgere l’altra guancia (tema che stimola diverse simpatiche riflessioni dell’autore), la richiesta di essere perfetti “come il Padre”, il rischio adulterio anche solo col pensiero.

A prima vista, è un’asticella morale fuori portata per noi umani. Come conciliare questi diversi messaggi, apparentemente antitetici, del Cristo? Ovvero una salvezza offerta gratis ma poi con un prezzo apparentemente smisurato da pagare?

La lettura di Candiard, ricca di aneddoti e spiegazioni insolite, è antimoralista, ma nel contempo non avvalla un’indolenza fatalista. La proposta cristiana non è una condizione morale apriori, “sine qua non”, ma una direzione ed una tensione alla quale tendere, grazie a un nuovo e straordinario compagno di viaggio. Si diventa figli, con Lui, grazie a Lui. Del resto lo stesso Candiard confessa, in un passaggio del libretto, che anziché padre, preferirebbe essere chiamato fratello o figlio. Tuttavia, essendo anche priore di una comunità monastica, alla fin fine ha dovuto ben accettare l’appellativo di padre che gli compete.

La “porta stretta” dell’esempio evangelico, attraverso la quale siamo invitati a passare, non è il segno di una particolare “rigorosa selettività del portinaio”, ma è una porta su misura per ciascuno. Ad ognuno la sua porta stretta, sembra dirci l’autore. Il suo significato è portarci a liberarci di ciò che è superfluo, inutile, dannoso o ingombrante verso la nostra realizzazione. Ovvero la salvezza, per usare il linguaggio evangelico.

Tra i molti esempi usati da Candiard, uno probabilmente ha colpito molti ascoltatori e lettori, perché verosimilmente ignorato dai più. Ed è quello del pranzo di nozze, dove il padrone – deluso dal rifiuto degli invitati prescelti – va a raccattare per strada pezzenti, barboni, passanti casuali. Perché dunque ne caccia via con assoluta severità uno che non risulta adeguatamente vestito per le nozze? Non era un poveraccio come tutti gli invitati dell’ultima ora?

La tradizione del tempo, ha spiegato, è che l’abito festivo per le nozze era offerto da chi invitava. Non c’era bisogno di presentarsi con alcun particolare “smoking” per l’occasione. Quindi l’ospite intruso poi cacciato – questo il senso della vicenda così rispiegata – non aveva accolto e accettato il dono, cioè la veste, la grazia della quale sono oggetto i credenti, gli invitati a una festa esistenziale straordinaria. La salvezza è accogliere, accettare la grazia, un tema teologico – spiega Candiard – oggi un po’ dimenticato, pur avendo goduto nei secoli una vasta fortuna. La santità, come via per la felicità, inizia dunque con una sorta di passività.

 

Questa narrazione essenziale sembra derivare anche da altre considerazioni di vasta portata su un cristianesimo vissuto in un contesto del tutto post-cristiano. Tema oggetto non di questo ma di altri testi di Candiard, che deve quindi essersi da tempo convinto della profonda necessità di tornare ad una narrazione basilare, essenziale, sui fondamenti della fede cristiana e sulla sua dinamica di incontro con un annuncio umanamente straordinario. Del resto, la sua stessa personale vocazione da adulto è maturata in un contesto post-cattolico, in una società altamente secolarizzata, oramai diffusamente ignara anche dei contenuti cristiani più elementari.

(…) https://www.ilsussidiario.net/news/letture-adrien-candiard-il-bello-di-accettare-la-grazia-e-tornare-alla-semplicita-della-salvezza/2819671/#:~:text=CHIESA-,LETTURE/%20Adrien%20Candiard%2C%20il%20bello%20di%20accettare%20la%20grazia%20e%20tornare,altamente%20secolarizzata%2C%20oramai%20diffusamente%20ignara%20anche%20dei%20contenuti%20cristiani%20pi%C3%B9%20elementari.,-Ci%C3%B2%20non%20porta


Road to Meeting aprile 2025 | Adrien Candiard

venerdì 4 aprile 2025

L’occasione che viene dal disagio (Cesare Maria Cornaggia)

 


L’occasione che viene dal disagio

La scorsa settimana a Seveso c'è stato un interessante dibattito sui temi del della crisi dell'io nella nostra società

Cesare Maria Cornaggia Pubblicato 4 Aprile 2025

 

Le opere sociali e i professionisti che cercano di rispondere ai disagi e alle malattie delle persone per essere efficaci non possono semplicemente muoversi in nome di una capacità pratica e di un volontarismo generico. Occorre un’adeguata concezione dell’uomo, La discussione avvenuta a Seveso nel fine settimana va in questa direzione.

Nel corso dell’ultimo fine settimana si sono riuniti a Seveso, presso il Centro Pastorale Ambrosiano, studiosi e professionisti provenienti da estrazioni culturali differenti (filosofi, teologi, psicologi, psichiatri, educatori della scuola e del sociale) per riflettere assieme sui temi del della crisi dell’io nella nostra società e del conseguente disagio psichico, sociale, individuale, educativo, psicologico che ne deriva. Quali domande e quali suggerimenti operativi provoca questa situazione in generale e in un’ottica multidisciplinare?

La prima constatazione è stata che il cuore della questione non è il disagio psicologico, o educativo e neppure sociale. In altre parole il disagio psichico è stato considerato non soltanto nell’ottica di un problema immediatamente da risolvere, ma come fornitore di domanda e occasione di approfondire la stessa dimensione ontologica dell’uomo. Infatti, ciò che sottostà e origina questi problemi e produce patologie è il fatto che oggi la cosa che è più negata, ancor più della realtà, è la verità, come afferma Byung-chul Hanma.

Ne è testimonianza il dibattito sul nichilismo attuale: non basta analizzare come sia fonte di perdita e di buio della persona e delle istituzioni, ma occorre chiedersi in che misura possa essere occasione di presa di coscienza e quindi occasione per una ripresa.

Non a caso sin dall’inizio è stato messo in luce come la crisi possa fare grande l’uomo, perché essa in sé può servire soltanto a farlo crescere, non a farlo morire, e proprio per questo la crisi attuale va vista con uno sguardo di occasione e di speranza. Questo perché vi è la tentazione che il momento di crisi, come scritto da Victor Frankl riprendendo la sua esperienza nei lager, venga vista come la fine, non come il fine, cioè un punto di limite che può essere luogo di incontro.

Un tale approccio genera una sintonia profonda tra i “pensatori” e chi opera in realtà sociali attive nelle dipendenze, nella lotta al disagio psichico e di comunità educative o sociali, come a confermare questa possibilità e necessità di dialogo. Dialogo che è stato colto con lo stupore di tutti, soprattutto dai giovani presenti, evidentemente perché desiderosi di un sapere che andasse oltre le accademie.

Non a caso, in una serata dedicata al mettere in scena proprio tutto questo, i giovani della redazione del Teatro del Lunedì, rassegna del Teatro Oscar di Milano, hanno mostrato tutto il loro entusiasmo, traducendo in opera teatrale i diversi discorsi e mostrando come tanti giovani oggi sono portatori di una grande speranza e di una grande capacità di attenzione e di intrapresa. In conclusione si è convenuto che la crisi dell’io, e la mancanza, il malessere, il disagio che tante volte vediamo attorno a noi devono essere primariamente intesi come espressione di un’ontologia più che di una patologia.

Ne deriva che, nelle diverse discipline e in generale, la risposta necessaria alla crisi deve fondare la propria radice non su possibili tecniche e strategie, ma sulla ripresa di un significato profondo di quel che si fa. Ognuno deve mettere in gioco la propria posizione umana dinanzi al disagio e innervarne le professionalità e le tecniche attraverso le quali articola le risposte.

(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/4/4/loccasione-che-viene-dal-disagio/2819508/#:~:text=Nel%20corso%20dell%E2%80%99ultimo,in%20un%E2%80%99ottica%20multidisciplinare%3F


giovedì 3 aprile 2025

“600 giorni nel campo KZ Mittelbau-Dora” di Lucia Araldi racconta la storia degli internati militari italiani (Imi) nei campi nazisti


 

STORIA/ Gli Internati militari italiani in Germania 1943-45, i patrioti della sofferenza e del perdono

“600 giorni nel campo KZ Mittelbau-Dora” di Lucia Araldi racconta la storia degli internati militari italiani (Imi) nei campi nazisti

Antonio Besana Pubblicato 3 Aprile 2025

Civili tedeschi di Nordhausen seppelliscono in una fossa comune i prigionieri trovati morti nel campo. Aprile 1945 (foto da Wikipedia, credit USHMM)

 

L’8 settembre 1943 l’Italia firma l’armistizio con gli Alleati. I militari appartenenti al Regio Esercito, alla Regia Marina e alla Regia Aeronautica sono lasciati senza precise direttive. Lo stesso giorno inizia la Resistenza: il primo caduto italiano è il generale Ferrante Gonzaga del Vodice (medaglia d’oro al valor militare), ucciso dai tedeschi nei pressi di Salerno.

Il giorno successivo, il 9 settembre 1943, i tedeschi disarmano e catturano circa un milione di militari italiani. Di questi, quasi 200mila riescono a fuggire e ad evitare la cattura. Molti di loro andranno ad unirsi alle forze dei partigiani. Gli altri, prigionieri dei tedeschi, sono trasferiti con viaggi interminabili in vagoni bestiame piombati nei campi per prigionieri di guerra della Wehrmacht.

I soldati vengono separati dagli ufficiali, e divisi nei lager sparsi in 21 distretti militari in Germania e nei territori ancora occupati. Dopo poco più di un mese, i nazisti offrono agli internati la libertà in cambio dell’arruolamento nelle SS o nelle forze di Salò. L’offerta, ripetuta più volte nei mesi successivi, è allettante, soprattutto tra i più giovani.

Sono circa 100mila quelli che accettano di continuare a combattere al fianco dei tedeschi, arruolandosi nelle fila della Repubblica Sociale Italiana o nei reparti SS. I restanti 700mila finiscono nei lager tedeschi in Germania e Polonia, dove per ordine di Hitler perdono il loro status di prigionieri di guerra e diventano IMI, “Internati militari italiani”, privi di ogni diritto e tutela, in balia dei tedeschi che li considerano soltanto traditori.

 

Lucia Araldi, insegnante e dirigente scolastica, nel suo libro 600 giorni nel campo KZ Mittelbau-Dora. L’esperienza vissuta da Gianni Araldi internato militare e uomo di pace (Edizioni Archivio Storia, Mattioli 1885, 2024) narra la storia del padre Gianni, internato militare italiano in Germania. Contrariamente a tanti altri IMI, che al ritorno a casa dopo la prigionia hanno spesso evitato di raccontare la loro storia, Gianni ha sempre accettato gli inviti della figlia per raccontare ai ragazzi delle scuole la sua terribile esperienza.

 

L’8 settembre 1943 Gianni è rientrato dalla Jugoslavia e si trova alla Compagnia deposito dell’11esimo Reggimento Genio, caserma Spaccamela, a Udine. Il 9 settembre i tedeschi entrano nella caserma e disarmano gli italiani. Il 14 settembre l’intero reparto è caricato su carri bestiame e trasferito in Germania.

Con l’avanzata degli Alleati la Germania è costretta a intensificare lo sforzo bellico e a decentrare gli impianti di produzione in località isolate. I militari di truppa italiani prigionieri vengono quindi inseriti nell’apparato produttivo del Reich, sfruttati nelle fattorie, nelle fabbriche, in miniera e in altri tipi di attività produttive come operai, braccianti, manovali. Sono impiegati nello scavo delle trincee, nella rimozione delle macerie, nella ricostruzione dei nodi ferroviari bombardati. Trattati come schiavi, sono sottoposti turni di lavoro massacranti, malnutriti, falcidiati dalle malattie, violenza, minaccia delle armi e al lavoro forzato. Oltre 40mila IMI internati nei diversi campi di lavoro perdono la vita a causa delle dure condizioni di prigionia a cui sono sottoposti.

Anche Gianni, avendo rifiutato di combattere con la Repubblica Sociale, viene inviato al campo di prigionia KZ Mittlebau-Dora in Turingia, a circa cinque chilometri da Nordhausen. Si tratta di un sottocampo di Buchenwald, aperto il 28 agosto 1943 alle pendici del monte Kohnstain. Questo campo ha una caratteristica peculiare: nei tunnel sotterranei, i prigionieri sono impiegati nella costruzione delle nuove armi segrete tedesche, i missili V1 e V2.

Sono gli stessi prigionieri a dover effettuare i lavori di ampliamento dei tunnel sotterranei. Per parecchi mesi gli internati prigionieri restano segregati nelle gallerie sotterranee, dormendo in letti a castello a cinque piani, in condizioni ambientali terribili. Solo nella primavera del 1944 viene costruito un campo di baracche all’esterno. Oltre 5mila moriranno di fame a causa di condizioni di lavoro micidiali, per i maltrattamenti, il freddo, la fame, la sete.

Nel campo non ci sono solo gli italiani: il 90 per cento degli internati è costituito da prigionieri provenienti dai Paesi occupati dai nazisti, principalmente russi, polacchi e francesi. Quando i prigionieri a causa degli stenti non sono più in grado di lavorare vengono semplicemente eliminati. Chi si rifiuta di lavorare, o si lamenta del trattamento inumano, viene accusato di sabotaggio o resistenza e fucilato. Le sue tracce cancellate per sempre nel forno crematorio del campo. Tra l’agosto 1943 e l’aprile 1945 le SS deportano a Mittelbau-Dora oltre 60mila prigionieri, di cui oltre un terzo non è sopravvissuto.

L’odissea di Gianni e dei suoi compagni si protrae per due anni, fino al termine della Seconda guerra mondiale. Dalla quarta di copertina del volume: “Gianni visse il lavoro forzato, la fame, la tortura, vide la morte di tanti compagni, ma sperimentò anche la solidarietà fra commilitoni, l’amicizia fino al sacrificio personale per il bene dell’altro, la speranza comune di uscirne vivi”.

Per molto tempo questi uomini non sono neanche stati considerati dalla storiografia, attribuendo ai soli partigiani la “patente” di partecipazione alla Resistenza. Il loro ruolo, insieme a quello dei militari italiani che hanno combattuto nel Corpo Italiano di Liberazione nel 1944-45, verrà rivalutato soltanto negli anni 80 del XX secolo, quando la storiografia riconoscerà che anche loro, gli internati militari, rifiutando qualsiasi forma di collaborazione con la Repubblica Sociale Italiana e con il Terzo Reich, pur senza l’uso delle armi, avevano scelto per una forma di resistenza.

…..https://www.ilsussidiario.net/news/storia-gli-internati-militari-italiani-in-germania-1943-45-i-patrioti-della-sofferenza-e-del-perdono/2819164/#:~:text=e%20del%20perdono-,STORIA,importante%20della%20nostra%20storia%2C%20troppo%20spesso%20volutamente%20dimenticato%20per%20motivi%20ideologici.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94