STORIA/ Gli Internati militari italiani in Germania 1943-45,
i patrioti della sofferenza e del perdono
“600 giorni nel campo KZ Mittelbau-Dora” di Lucia Araldi racconta
la storia degli internati militari italiani (Imi) nei campi nazisti
Antonio Besana Pubblicato 3 Aprile 2025
Civili tedeschi di Nordhausen seppelliscono in una fossa
comune i prigionieri trovati morti nel campo. Aprile 1945 (foto da Wikipedia,
credit USHMM)
L’8 settembre 1943 l’Italia firma l’armistizio con gli
Alleati. I militari appartenenti al Regio Esercito, alla Regia Marina e alla
Regia Aeronautica sono lasciati senza precise direttive. Lo stesso giorno
inizia la Resistenza: il primo caduto italiano è il generale Ferrante Gonzaga
del Vodice (medaglia d’oro al valor militare), ucciso dai tedeschi nei pressi
di Salerno.
Il giorno successivo, il 9 settembre 1943, i tedeschi
disarmano e catturano circa un milione di militari italiani. Di questi, quasi
200mila riescono a fuggire e ad evitare la cattura. Molti di loro andranno ad
unirsi alle forze dei partigiani. Gli altri, prigionieri dei tedeschi, sono
trasferiti con viaggi interminabili in vagoni bestiame piombati nei campi per
prigionieri di guerra della Wehrmacht.
I soldati vengono separati dagli ufficiali, e divisi nei
lager sparsi in 21 distretti militari in Germania e nei territori ancora
occupati. Dopo poco più di un mese, i nazisti offrono agli internati la libertà
in cambio dell’arruolamento nelle SS o nelle forze di Salò. L’offerta, ripetuta
più volte nei mesi successivi, è allettante, soprattutto tra i più giovani.
Sono circa 100mila quelli che accettano di continuare a
combattere al fianco dei tedeschi, arruolandosi nelle fila della Repubblica
Sociale Italiana o nei reparti SS. I restanti 700mila finiscono nei lager
tedeschi in Germania e Polonia, dove per ordine di Hitler perdono il loro
status di prigionieri di guerra e diventano IMI, “Internati militari italiani”,
privi di ogni diritto e tutela, in balia dei tedeschi che li considerano
soltanto traditori.
Lucia Araldi, insegnante e dirigente scolastica, nel suo
libro 600 giorni nel campo KZ Mittelbau-Dora. L’esperienza vissuta da Gianni
Araldi internato militare e uomo di pace (Edizioni Archivio Storia, Mattioli
1885, 2024) narra la storia del padre Gianni, internato militare italiano in
Germania. Contrariamente a tanti altri IMI, che al ritorno a casa dopo la
prigionia hanno spesso evitato di raccontare la loro storia, Gianni ha sempre
accettato gli inviti della figlia per raccontare ai ragazzi delle scuole la sua
terribile esperienza.
L’8 settembre 1943 Gianni è rientrato dalla Jugoslavia e si
trova alla Compagnia deposito dell’11esimo Reggimento Genio, caserma
Spaccamela, a Udine. Il 9 settembre i tedeschi entrano nella caserma e
disarmano gli italiani. Il 14 settembre l’intero reparto è caricato su carri
bestiame e trasferito in Germania.
Con l’avanzata degli Alleati la Germania è costretta a
intensificare lo sforzo bellico e a decentrare gli impianti di produzione in
località isolate. I militari di truppa italiani prigionieri vengono quindi
inseriti nell’apparato produttivo del Reich, sfruttati nelle fattorie, nelle
fabbriche, in miniera e in altri tipi di attività produttive come operai,
braccianti, manovali. Sono impiegati nello scavo delle trincee, nella rimozione
delle macerie, nella ricostruzione dei nodi ferroviari bombardati. Trattati
come schiavi, sono sottoposti turni di lavoro massacranti, malnutriti,
falcidiati dalle malattie, violenza, minaccia delle armi e al lavoro forzato.
Oltre 40mila IMI internati nei diversi campi di lavoro perdono la vita a causa
delle dure condizioni di prigionia a cui sono sottoposti.
Anche Gianni, avendo rifiutato di combattere con la
Repubblica Sociale, viene inviato al campo di prigionia KZ Mittlebau-Dora in
Turingia, a circa cinque chilometri da Nordhausen. Si tratta di un sottocampo
di Buchenwald, aperto il 28 agosto 1943 alle pendici del monte Kohnstain.
Questo campo ha una caratteristica peculiare: nei tunnel sotterranei, i
prigionieri sono impiegati nella costruzione delle nuove armi segrete tedesche,
i missili V1 e V2.
Sono gli stessi prigionieri a dover effettuare i lavori di
ampliamento dei tunnel sotterranei. Per parecchi mesi gli internati prigionieri
restano segregati nelle gallerie sotterranee, dormendo in letti a castello a
cinque piani, in condizioni ambientali terribili. Solo nella primavera del 1944
viene costruito un campo di baracche all’esterno. Oltre 5mila moriranno di fame
a causa di condizioni di lavoro micidiali, per i maltrattamenti, il freddo, la
fame, la sete.
Nel campo non ci sono solo gli italiani: il 90 per cento
degli internati è costituito da prigionieri provenienti dai Paesi occupati dai
nazisti, principalmente russi, polacchi e francesi. Quando i prigionieri a
causa degli stenti non sono più in grado di lavorare vengono semplicemente
eliminati. Chi si rifiuta di lavorare, o si lamenta del trattamento inumano,
viene accusato di sabotaggio o resistenza e fucilato. Le sue tracce cancellate
per sempre nel forno crematorio del campo. Tra l’agosto 1943 e l’aprile 1945 le
SS deportano a Mittelbau-Dora oltre 60mila prigionieri, di cui oltre un terzo
non è sopravvissuto.
L’odissea di Gianni e dei suoi compagni si protrae per due
anni, fino al termine della Seconda guerra mondiale. Dalla quarta di copertina
del volume: “Gianni visse il lavoro forzato, la fame, la tortura, vide la morte
di tanti compagni, ma sperimentò anche la solidarietà fra commilitoni,
l’amicizia fino al sacrificio personale per il bene dell’altro, la speranza
comune di uscirne vivi”.
Per molto tempo questi uomini non sono neanche stati
considerati dalla storiografia, attribuendo ai soli partigiani la “patente” di
partecipazione alla Resistenza. Il loro ruolo, insieme a quello dei militari
italiani che hanno combattuto nel Corpo Italiano di Liberazione nel 1944-45,
verrà rivalutato soltanto negli anni 80 del XX secolo, quando la storiografia
riconoscerà che anche loro, gli internati militari, rifiutando qualsiasi forma
di collaborazione con la Repubblica Sociale Italiana e con il Terzo Reich, pur
senza l’uso delle armi, avevano scelto per una forma di resistenza.
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