KRISTEVA
Il perdono? Si rivela nell’arte
Idee
È il tema che attraversa tutta l’opera di Dostoevskij. E può aiutarci a
comprendere il male e le paure che assediano la vita nelle nostre
società e si riflettono nelle immagini e nella letteratura, da Bacon a
Céline
Dire che l’opera d’arte è
un perdono suppone già l’uscita dal perdono psicologico (ma senza
misconoscerlo) verso un atto singolare, quello della «messa in
forma», attraverso la nominazione e la composizione, nel linguaggio o
in un altro «segno » (suono, colore, gesto, impronta, materia…). La
pratica dello scrittore opera con la parola: una costruzione simbolica,
fatta di termini, assorbe e sostituisce il perdono quale movimento
emozionale, misericordia, compassione antropomorfica.
Allo stesso modo, si riuscirebbe a comprendere in che cosa l’arte sia
un perdono solo aprendo tutti i registri specifici di questa tecnica in
cui il perdono opera e si esaurisce. Per il romanzo si inizierà
dall’identificazione psicologica, soggettiva, con la sofferenza e la
tenerezza degli altri, dei “personaggi” e di se stessi, desunti in
Dostoevskij dalla fede ortodossa. Il lettore apprenderà pure le opzioni
filosofiche dell’autore, più o meno discrete. Infine, si osserverà
l’oscillazione di questo perdono – al di là della polifonia dell’opera
e dell’urto dei giudizi – nella sola performance estetica, nel
godimento della passione come bellezza. Vale a dire, nella bellezza al
di là, attraverso o addirittura malgrado il giudizio? Potenzialmente
immorale, quest’ultimo tempo del perdono-riassorbito nella prestazione
ritorna al punto di partenza del movimento circolare: alla sofferenza e
alla tenerezza per l’altro, per lo straniero, addirittura per il
criminale... ormai in me, perché è in me che la bellezza li ha
impiantati. Pensiamo alle donne diaboliche di Willem De Kooning, alla
macelleria di Francis Bacon, alla Pantomima per un’altra volta di
Louis-Ferdinand Céline... io li accompagno.
L’idea del perdono abita totalmente l’opera di Dostoevskij. Umiliati e offesi
(1861) ci fa incontrare, fin dalle prime pagine, un cadavere ambulante.
Il perdono è quasi una follia nell’Idiota (1868- 1869). I demoni
(1873) della rivoluzione e del nichilismo si estinguono nella
confessione di Stavrogin. Ma è l’artificio del perdono e della
risurrezione, tuttavia imperativi per lo scrittore, che risplende in Delitto e castigo (1866). Ascoltando le sorgenti della crimina-lità, Dostoevskij scopre la logica crudele della depressione: la hainamoration
fra l’io e l’altro, il ribaltamento contro l’altro del deprezzamento
dell’io. Il crimine gli appare come una reazione di difesa contro la
depres- sione: l’assassinio dell’altro
protegge dal suicidio. La “teoria” e l’atto criminale di Raskolnikov
dimostrano perfettamente questa logica. L’atto omicida fa uscire il
depresso dalla passività e dall’abbattimento, confrontandolo con il
solo oggetto desiderabile che per lui è l’interdetto incarnato dalla
legge e dal padrone: nella sua mania, Raskolnikov vuole fare come Napoleone.
Lo scrittore mette così genialmente in evidenza l’identificazione del
depresso con l’oggetto odiato: «Sono io che ho assassinato, io e non
lei, io stesso».
«Infine
non sono che feccia irrevocabilmente. […] perché io sono forse più
vile, più ignobile della feccia che ho assassinato ». La sua amica Sonia
esprime la stessa constatazione: «Ah! Che avete fatto, che avete fatto
di voi stesso?». Il perdono che lo scrittore assume dalla teologia
ortodossa, e che trasforma a suo modo, appare come la sola via d’uscita,
la terza via fra l’abbattimento e l’assassinio. Avviene nel succedersi
dei chiarimenti erotici e appare non come un movimento
d’idealizzazione che reprime la passione sessuale ma come la sua
traversata.
L’angelo di
questo paradiso, dopo l’apocalisse, si chiama Sonia, prostituta
certamente per compassione e per la preoccupazione di aiutare la sua
miserabile famiglia, ma comunque prostituta. Quando segue Raskolnikov
al bagno in uno slancio di umiltà e di abnegazione, i bagnanti la
chiamano «nostra madre dolce e soccorrevole». La riconciliazione con una
madre affettuosa ma infedele, cioè prostituta, al di là e malgrado i
suoi “errori”, appare allora come una condizione della riconciliazione
con se stessi.
Essere
“se stessi” si dimostra infine accettabile perché ormai collocato fuori
dalla giurisdizione tirannica del maestro. La madre perdonata e
perdonante diventa una sorella ideale e... rimpiazza Napoleone. L’eroe
umiliato e bellicoso può infine tranquillizzarsi. Eccoci nella scena
bucolica della fine: una giornata chiara e dolce, una terra inondata
di sole, il tempo si è arrestato: «Sembrava che il tempo si fosse
arrestato all’epoca di Abramo e delle sue greggi».
L’immaginario è questo luogo straniero in cui il soggetto rischia la
sua identità perdendosi fino alla soglia del male, del crimine o
dell’asimbolico, per attraversarlo e testimoniarlo... da un altrove.
Spazio duplicato, cui spetta solo di essere solidamente agganciato
all’ideale che autorizza la violenza distruttrice, che si dice invece
di farsi. È la sublimazione e ha bisogno del per-dono. Scriviamolo con un trattino: per-dono.
Per far apparire che al cuore di questa appropriazione-trasmutazione
della teologia in estetica risiede la donazione del senso:
l’interpretazione senza fine dell’ineffabile. La bellezza della frase e
del racconto consacra e supera la traversata della passione.
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