venerdì 17 ottobre 2025

India. Un premio al “seva” di Rose

 



India. Un premio al “seva” di Rose

La fondatrice del Meeting Point di Kampala, in Uganda, ha ricevuto, davanti a duemila persone, un riconoscimento durante il One World One Family World Cultural Festival 2025. «Rose, guidata dall’incontro con don Giussani, ha potuto scoprire la sua chiamata ad aiutare le persone»

 

16.10.2025

Anna Leonardi

Rose Busingye riceve il premio da Sadhguru del "One World One Family World Cultural Festival 2025"

Come un Festival in India, organizzato in occasione del centenario della nascita di Sathya Sai Baba, uno dei più noti maestri spirituali dell’India contemporanea, abbia scoperto e voluto premiare Rose Busingye, l’infermiera ugandese che da trent’anni lavora con le donne sieropositive e bambini orfani di Kampala, resta abbastanza un mistero. Eppure lo scorso 23 agosto Rose, insieme ad una delegazione del suo Paese, è arrivata a Muddenahalli, nel sud del Paese, ed è salita sul palco dell’enorme centro congressi Sathya Sai Grama, per ricevere il premio per il suo “seva”, una parola in hindi per indicare il servizio disinteressato come forma universale di amore.

«Quando mi hanno convocato non volevo crederci, pensavo a uno scherzo, ho buttato via la mail. Poi mi hanno riscritto e fatte le verifiche presso consolati e ambasciate, ho capito che avevano scelto proprio me. E che l’evento non era proprio una cosa da niente. Alla fine sono partita», racconta Rose.

Il One World One Family World Cultural Festival 2025 ha una durata complessiva di cento giorni - dal 16 agosto al 23 novembre - e vede la partecipazione di nazioni provenienti da tutto il mondo. Il festival è organizzato in collaborazione con il Ministero della Cultura del Governo dell’India e con l’Indira Gandhi National Centre for the Arts. Il programma comprende spettacoli culturali, celebrazioni spirituali oltre a promuovere iniziative sociali di forte impatto, come l’apertura presso il Sathya Sai Grama, di un ospedale gratuito da 600 posti letto concepito per offrire cure di alta qualità a tutti, senza distinzione di reddito o provenienza. In questa carrellata di eventi, ogni giorno vengono presentate e premiate persone impegnate in progetti di nutrizione, istruzione, sanità e di benessere per la comunità. Persone semplici e straordinarie che si sono distinte per un “amore in azione” – come stabilisce il Corporate Social Responsibility, il comitato, all’interno del festival, incaricato dell’assegnazione dei riconoscimenti.

Sulla targa del premio consegnato a Rose si legge: “Voce del valore infinito e della speranza”. Ed è questo che ha raccontato al momento della premiazione, quando, vestita con un sari di seta, si è trovata inaspettatamente davanti a una platea di duemila persone. «Essendo riuscita a partire all’ultimo e non avendo capito bene come si sarebbero svolte le cose, non mi ero preparata un vero discorso», spiega. «Quando ho visto tutte quelle persone mi sono sentita svenire. Ma ho pensato: “Gesù mi hai fatto arrivare fin qui, adesso tocca a te!”». Rose, dopo qualche tentennamento di commozione, inizia a parlare ripetendo ciò che ha sempre detto a chiunque abbia incontrato sulla sua strada: «Tu, in qualsiasi condizioni ti trovi ora, hai un valore. Sei prezioso. Povero, ricco, malato, moribondo non è la morte a definirti». Parole che lei per prima si sentì dire da don Giussani, quando in crisi e schiacciata dal peso delle opere che con lei erano nate, lui la guardava come a un tesoro inestimabile. Chi era don Giussani e come abbia sostenuto il suo lavoro è la presentatrice del festival a spiegarlo alla platea: «Rose, guidata dall’incontro formativo con don Giussani, il sacerdote italiano che ha fondato il movimento di Comunione e Liberazione, ha potuto scoprire la sua chiamata ad aiutare le persone».

 

Chiamata che si è concretizzata nel tempo in alcune opere come la Welcoming House, che raccoglie neonati abbandonati nelle pattumiere di Kampala, la Luigi Giussani Primary e High School e il Meeting Point International. Rose, continuando il suo discorso, ne descrive il cuore: «Distribuiamo farmaci, paghiamo le rette, facciamo counseling, ma le cose materiali sono solo degli strumenti perché ciascuno che arriva da noi si senta accolto, riconosca la dignità infinita che ha. A chiunque diciamo: “Guarda che sei di più di ciò che riesco a darti”».

La cerimonia si conclude con le parole di Sadhguru, uno dei più popolari guru indiani contemporanei e discepolo di Sai Baba, che dopo aver consegnato il premio a Rose, dice: «Ci sono persone a questo mondo mosse da un amore puro e questo è il motivo per cui in un mondo sempre più diviso c’è ancora la pace. Magari non si tratta di grandi organizzazioni, ma di persone semplici, che spaccano le pietre e fanno collane per raccogliere soldi da mandare a nazioni apparentemente più ricche di loro (si riferisce alle donne del Meeting Point, ndr) perché riconoscono che l’altro ci appartiene, e se ne fanno carico. È solo questo a tenere ancora il mondo insieme. Sono le donne e gli uomini che fanno la volontà di Dio qui sulla terra».

Quando Rose, prima di far ritorno a Kampala saluta Sadhguru, gli dice: «Non ho ancora capito come avete pescato proprio me in Uganda. Ma vi ringrazio perché lontano da casa mi sono sentita a casa. C’è qualcosa nel tuo volto che brilla. È la presenza del Mistero che fa me e te». Sadhguru le regala la stola e il monile d’oro che ha al collo e le sussurra: «Puoi chiedermi quello che vuoi. Ma una cosa te la chiedo io: l’anno prossimo voglio venire a trovarti. Voglio venire a vedere».   

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Sacro Cuore. Quarant’anni di mattoni

 



Sacro Cuore. Quarant’anni di mattoni

La Fondazione dell'Istituto alle porte di Milano festeggia il suo anniversario con una giornata dedicata a una costante della sua storia: la passione educativa ispirata da don Giussani. Sono intervenuti, tra gli altri, Davide Prosperi, Rose Busingye e Hans Broekman

 

15.10.2025

Maurizio Vitali

Il quarantennale della Fondazione Sacro Cuore

Una scuola festeggia il quarantesimo non con un’autocelebrazione, ma con un grazie al carisma da cui tutto è nato e fluisce: il carisma e il metodo educativo di don Luigi Giussani. È il “Sacro Cuore”. Nel salone del teatro dell’istituto di via Rombon, a Lambrate, periferia di Milano, non sono pochi quelli che ci hanno messo, nel 1985, il loro “mattone”, o i loro mattoni, cioè un contributo di cinquecentomila lire (o multipli, potendo) per l’acquisto dell’immobile da parte della Fraternità di Comunione e Liberazione. 

Lo ha ricordato Marco Bersanelli, astrofisico, presidente della Fondazione Sacro Cuore, in apertura del convegno intitolato “Certi di un bene più grande. Quarant’anni di passione educativa”, svoltosi l’11 ottobre. Sottolineando l’esplicita volontà di don Giussani di realizzare un esempio con cui tutti potessero confrontarsi, e sottolineando anche il valore indimenticabile dell’irruente e appassionata guida del primo rettore, don Giorgio Pontiggia. L’“esempio” è un complesso con un’offerta educativa che va dalla scuola materna ai licei (classico, scientifico e artistico) con 100 insegnanti e 1200 alunni.

Un grazie, si diceva, al carisma educativo di don Giussani. Ma anche un approfondimento di esso, «per dare continuità a quella storia nelle condizioni odierne e nel futuro», ha ricordato Bersanelli.

È toccato a Davide Prosperi, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione - e a suo tempo alunno del Sacro Cuore - il compito di tratteggiare “L’originalità della proposta educativa di don Giussani”. Il seguito del convegno è stato dedicato a testimonianze di alcuni “frutti significativi” del carisma e dell’opera: dalle scelte vocazionali e professionali di ex alunni (Daniele Gomarasca, rettore de La Zolla; Daniele Alberzoni, monaco del monastero benedettino della Cascinazza), alle realizzazioni nel mondo (Hans Broekman a Liverpool, Rose Busingye a Kampala).

Intervistato da Bersanelli, Prosperi condensa in tre capisaldi il metodo educativo giussaniano: 1) proporre adeguatamente il passato, cioè la tradizione, 2) come ipotesi di significato nel vissuto presente; 3) educazione alla critica, «cioè alla verifica, che chiama in causa», ha sottolineato Prosperi «la libertà del ragazzo e nel contempo il suo bisogno di essere accompagnato». Insomma «lo scopo ultimo è liberare i giovani! Liberarli, attraverso l’educazione, dall’alienazione che rende schiavi».

E come affrontare l’estrema fragilità, che oggi si manifesta, la dipendenza digitale o dalla droga, l’inedita frequenza dei disturbi dell’apprendimento? Con quali criteri?

«Tante volte il dramma dei giovani è di non sentirsi performanti, non all’altezza della performance cui si sentono disperatamente obbligati. La strada è, in un rapporto, fare emergere le vere esigenze del cuore e proporre una risposta positiva di cui l’adulto fa già esperienza, che è disponibile a condividere con i ragazzi che gli sono affidati». Non a caso don Pontiggia «considerava la scuola occasione di un cammino per tutti, per gli alunni, ma anche per gli insegnanti». Non è mancato uno sguardo sulla situazione italiana ed europea, per dichiarare, da parte del presidente della Fraternità di Cl, la necessità e la volontà di «riaprire un dibattito sulla libertà di educazione per il futuro del Paese».

 

Don Pontiggia riappare come protagonista di un episodio decisivo nella vita dell’allora quindicenne Daniele Gomarasca, oggi Rettore della Scuola La Zolla di Milano. Andò così: «Me ne stavo in fondo all’aula dove don Giorgio guidava un raduno religioso, preoccupato soprattutto di non farmi notare. Lui l’irruenza, io la timidezza. A un certo punto: “E tu, Gomarasca, che cosa ne pensi?”. Mi sentii un faro puntato addosso. Lui mi conosceva! Era attento a me. E la sua domanda era vera, non un artificio. Ecco: al vero ci si approssima cercando insieme in un cammino condiviso». Non solo da don Giorgio. Anche da certi insegnanti si riceve molto. Quelli che «non considerano l’alunno come cassa di risonanza delle loro sequenze già note». E la scelta di dedicarsi alla scuola? «Per il desiderio di restituire a tanti altri quello che insieme avevamo ricevuto».

Gli insegnanti possono lasciare un segno indelebile. Lo documenta anche Daniele, monaco benedettino. Di uno ricorda: «Ho scoperto in lui una stima per l’umano, per la mia umanità, più di quanto mi stimassi io. Per lui io ero una persona con cui coinvolgersi, non un problema da risolvere. Io sono stato abbracciato prima di ogni mia risposta». Di un altro prof, ricorda l’amore alla libertà e alle ragioni. Racconta l’episodio. Una ragazza: «Prof, possiamo iniziare la scuola con la preghiera?». «Perché?», fu la risposta. «No, finché non mi date una ragione». «Ecco, essere sfidati sulla ragioni», aggiunge il monaco, una grande lezione. «Nello stesso tempo ho fatto una grande esperienza di paternità con don Giorgio e con dei prof che hanno rischiato, se stessi con le mie domande. Fino a comunicarmi, specie don Pontiggia, il senso del Mistero: “Io sono tu che mi fai in questo momento”».

L’ultima parte del convegno, prima del saluto finale dell’attuale Rettore, don José Miguel García, si intitolava “Apertura al mondo”.

Hans Broekman, insegnante di lungo corso di Liverpool, venne folgorato da don Giussani per tramite della precedente folgorazione avuta da don Albacete, sacerdote, giornalista e intellettuale statunitense di grande fama, ciellino. La prima folgorazione da Albacete avviene nel settembre 2001, quando Broekman lo sente commentare in televisione la strage delle Torri Gemelle, in modo straordinario e diverso dagli altri. La seconda quando scoppiò la pandemia da Covid. «Chissà cosa direbbe Albacete se fosse vivo?». Su youtube trova un video in cui parla di don Giussani. Broekman legge tutto quello che trova di Albacete e di Giussani. Dopo la lettura de Il rischio educativo, gli scoppia dentro un pensiero: «Lo scriverei io, se fossi un genio». In compenso ha scritto un testo che espone le idee di don Giussani «in modo che gli inglesi potessero meglio capirle».

Da allora Broekman si è impegnato per cambiare il metodo della scuola. E a introdurre il principio della “coerenza”, intendendo che l’educazione non è riducibile all’istituzione, ma «tutto comincia dall’insegnante, dalla sua persona». Ora Broekman ha scelto di essere cappellano (laico) del Holy Family Trust, proprio per compiere il cambiamento di rotta.

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domenica 5 ottobre 2025

Pizzaballa. «Rimanere nell’amore»

 



Pizzaballa. «Rimanere nell’amore»

La lettera del cardinale a tutta la diocesi del Patriarcato Latino di Gerusalemme: «La fine delle ostilità a Gaza è solo il primo passo. La resa dei conti non ci appartiene, né come logica né come linguaggio. Come Chiesa siamo chiamati a testimoniare la fede nella passione e risurrezione di Gesù. Ci uniamo all’invito del Papa per una giornata di digiuno e preghiera»

 

A tutta la diocesi del Patriarcato Latino di Gerusalemme

Carissimi fratelli e sorelle,

il Signore vi dia pace!

Sono due anni che la guerra ha assorbito gran parte delle nostre attenzioni ed energie. È ormai a tutti tristemente noto quanto è accaduto a Gaza. Continui massacri di civili, fame, sfollamenti ripetuti, difficoltà di accesso agli ospedali e alle cure mediche, mancanza di igiene, senza dimenticare coloro che sono detenuti contro la loro volontà.

Per la prima volta, comunque, le notizie parlano finalmente di una possibile nuova pagina positiva, della liberazione degli ostaggi israeliani, di alcuni prigionieri palestinesi e della cessazione dei bombardamenti e dell’offensiva militare. È un primo passo importante e lungamente atteso. Nulla è ancora del tutto chiaro e definito, ci sono ancora molte domande che attendono risposta, molto resta da definire, e non dobbiamo farci illusioni. Ma siamo lieti che vi sia comunque qualcosa di nuovo e positivo all’orizzonte.

 (...)

Leggi la lettera del cardinale sul sito del Patriarcato Latino di Gerusalemme



giovedì 2 ottobre 2025

Paraguay. Il mendicante e la casa ritrovata

 



Paraguay. Il mendicante e la casa ritrovata

Padre Pato racconta della caritativa con i senzatetto alla stazione degli autobus ad Asunciòn e di come l’incontro con un uruguayano affamato e bisognoso abbia cambiato la vita della parrocchia di San Rafael

 

02.10.2025

Patrizio Hacin

Parroco nella chiesa di San Rafael ad Asunciòn (Paraguay)

Era arrivato a piedi dall’Uruguay. Aveva sentito dire che in Paraguay ci sarebbero state più opportunità per ricominciare ma si era ritrovato povero e senza nulla. Lo incontrammo un venerdì vicino alla stazione degli autobus di Asunción, dove andiamo a fare caritativa. Era in fila ad aspettare la cena ed era arrabbiato: secondo lui eravamo molto male organizzati, quando ricevette il cibo si adirò perché ne voleva di più. Mi avvicinai e lo abbracciai. Quindici giorni lo rivedemmo. Fu molto più gentile e decise di fermarsi con noi fino alla fine della giornata (oltre alla distribuzione del cibo, infatti, pensiamo sempre a un momento di canti insieme). Così, poco a poco, nacque tra noi una piccola amicizia.

Qualche giorno più tardi si presentò nella nostra parrocchia di San Rafael, che si trova in una zona periferica della città. Era un lunedì, giorno che noi sacerdoti della Fraternità San Carlo Borromeo riserviamo al riposo, alla preghiera e al dialogo tra noi. Chiese alla segretaria di me, con molta insistenza. «Sono un suo amico», le disse. La segretaria mi avvisò che mi stava aspettando. Uscii a vedere chi fosse, ed eccolo lì, il mio disordinato amico uruguayano. Ricordo ancora le sue parole: «Ciao, padre. Sono venuto a vedere se ha bisogno di qualcosa, magari posso aiutarvi in parrocchia. Io posso lavorare e voi in cambio mi date da mangiare». Mi sorprese questo suo slancio, così accettammo. Del resto abbiamo un grande giardino da tenere pulito e due braccia in più possono fare comodo.

Durante una pausa dal lavoro, mi raccontò parte della sua storia. Sicuramente non mi disse tutto, ma non importa. Negli ultimi tempi, spiegò, gli era toccato vivere e dormire nella sala d’attesa della stazione degli autobus. Pochi giorni dopo questo nostro dialogo, proprio la stazione divenne teatro di un’operazione di sgombero da parte delle forze dell’ordine perché era emerso un traffico di minori nell’area, da sempre segnata da spaccio, prostituzione e tratta di esseri umani. Tutti i senzatetto furono costretti ad allontanarsi, proprio in un momento in cui faceva insolitamente freddo per la nostra regione. Ancora una volta, l’amico uruguayano tornò a bussare alla nostra porta. Chiedeva un luogo dove poter dormire e poiché abbiamo una sala incontri con un divano, gli permettemmo di passare lì la notte. Gli altri lavoratori che ruotano intorno alla nostra chiesa si preoccuparono per lui: lo aiutarono a lavarsi, a cambiarsi e condivisero con lui il cibo.

Alcuni giorni dopo, qualcuno gli offrì un lavoro in un’altra città, a circa 200 km da Asunción. Con il piccolo compenso che aveva ricevuto da noi per il suo operato se ne andò, lasciando solo un biglietto diceva: «Grazie di tutto, padre. Vado a lavorare fuori città». Provai una strana tristezza, e anche i lavoratori rimasero delusi dalla sua decisione. Neanche 48 ore dopo, però, lo vedemmo tornare. Per noi fu una grande gioia, ma lui era molto abbattuto: l’avevano ingannato con la proposta di lavoro. A pranzo, emozionato, ci disse: «Non sarei mai dovuto andare via da qui. Devo imparare a fidarmi».

«La sua presenza ci ha smossi, ha fatto maturare l’amicizia tra noi sacerdoti e i lavoratori della parrocchia. Avere una casa, aprirla e far parte della sua costruzione è la cosa più bella che un uomo possa avere come orizzonte nella vita»

Quando in tavola arrivò l’asado, timidamente aggiunse: «Erano anni che non mangiavo così, a tavola con amici. Non credo di poter mangiare molto, perché devo mantenere lo stomaco piccolo per non soffrire la fame. Non so fino a quando tornerò a mangiare». Fu un momento duro e commovente. Il giardiniere della parrocchia, un uomo timido e di poche parole, ruppe il silenzio mentre gli serviva la carne: «Con noi mangerai sempre».

Quel giorno – era un venerdì – nel pomeriggio noi sacerdoti tornammo in stazione per la consueta caritativa e il nostro amico volle aiutare a preparare il cibo da distribuire. Non posso dimenticare il dialogo che accadde in auto. Ci disse: «Che grande miracolo. Due settimane fa aspettavo che voi arrivaste perché avevo fame, e oggi Dio mi fa sentire cosa significa essere aspettato». Quando arrivammo, alcune persone lo riconobbero. Era pulito e rasato per cui gli chiesero come fosse possibile quel cambiamento. Lui rispose, ancora una volta, di essere stato accolto nella nostra parrocchia.

Alcuni tossicodipendenti mi chiesero allora se potessero vivere anche loro con noi. Non potevo portarli tutti a vivere da noi, anche se avrei voluto, ma proposi di cercare insieme un lavoro. Il giorno dopo, tre di loro si affaccendavano a tener pulito intorno alla parrocchia. Non hanno smesso di venire. E non per chiedere solo denaro come in passato, ma per lavorare, per impiegare il proprio tempo in maniera utile.

Non sono mancati momenti difficili. Vicino alla parrocchia c’è un’officina meccanica il cui proprietario è uruguayano, così gli chiesi se potesse assumere il suo connazionale. All’inizio rifiutò perché è piuttosto rischioso assumere qualcuno preso dalla strada, senza documenti né casa. Dopo qualche tentennamento e qualche rassicurazione, accettò. I primi giorni andarono bene finché il nostro amico non si presentò al lavoro ubriaco,  causando quasi un incidente. Il meccanico mi chiamò spiegandomi di non potersi davvero più fidare e avvertendomi di non rischiare più ad aiutare quell’uomo. «So però che non mi darà ascolto. voi preti siete tutti matti».

Nel pomeriggio l’amico uruguayano venne da noi confessando l’accaduto e chiedendo perdono. Quando gli altri lavoratori della parrocchia seppero dell’accaduto invece di scandalizzarsi hanno insistito perché noi sacerdoti potessimo offrirgli una piccola stanza con bagno nell’attesa che lui trovasse un lavoro. Pensai al rischio, alle parole del proprietario dell’officina, ma sulla mia paura prevalse lo sguardo di carità di quegli uomini.

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/padre-pato-hacin-san-rafael-paraguay-caritativa#:~:text=CHIESA-,Paraguay.%20Il%20mendicante%20e%20la%20casa%20ritrovata,ultime%20settimane%2C%20il%20mendicante%20sia%20diventato%20il%20vero%20protagonista%20della%20Storia.,-CHIESA


domenica 21 settembre 2025

Padre Ielpo. «La fraternità è una necessità»


 

Padre Ielpo. «La fraternità è una necessità»

Il Custode di Terra Santa sul senso della sua nuova missione. «A volte basta un incontro imprevisto, anche dentro un’agenda piena di impegni, per accorgermi che Cristo non mi lascia mai solo»

 

18.09.2025

Maria Acqua Simi

Ci incontriamo a Milano, nella sede dell’associazione Pro Terra Sancta, l’ong che da anni sostiene l’opera della Custodia. Padre Francesco Ielpo, eletto da pochi mesi Custode di Terra Santa, è in Italia per pochi giorni prima di rientrare a Gerusalemme. La sua casa adesso è là, nel convento di San Salvatore insieme ad altri 78 frati minori, ma la sua missione abbraccia anche Siria, Giordania, Libano, Cipro e Rodi e alcuni conventi in Egitto, Italia, Stati Uniti d’America e Argentina.

Ci abbiamo messo un po’ per ottenere questa intervista, non perché il personaggio sia refrattario a parlare con la stampa ma perché incarna esattamente l’abito che porta: essenziale. «Parlo solo se ho qualcosa da dire», dice sommessamente, quasi a schermirsi. Questa volta di cose però ce ne sono state, da raccontare.

 

Padre Francesco, lei si è ritrovato in un ruolo difficile e di grande responsabilità in uno dei momenti forse più delicati per la Terra Santa e il Medio Oriente. Come lo sta affrontando?

Fin da subito ho avvertito una sproporzione tra quello che sono e l’incarico che ricopro. Se dimentico che sono al servizio dell’ordine dei frati minori e dei cristiani di Terra Santa, provo una vertigine perché le forze sembrano non bastare mai. E certamente la responsabilità potrebbe spaventare, anche perché la situazione è delicata. Mi sono tornate spesso alla mente le parole del cardinale Giovanni Montini, poi Paolo VI, contenute nei suoi diari. Vado a memoria, sono passati più di quindici anni da quando le ho lette, ma diceva che più crescono le responsabilità all’interno della Chiesa, più si rischia di assomigliare sempre di più alle statue sulle guglie del Duomo di Milano: tutti ti vedono, ma sei solo. È un’immagine vera, perché non hai più qualcuno con cui condividere tutto, resti tu con la tua coscienza davanti a Dio e con le tue scelte da prendere. Quello che sperimento, però, è una solitudine abitata. Perché, accanto a me, ci sono sempre volti di amici nuovi, donati, che magari non avrei scelto e che sono diversi dagli amici di una vita, ma che il Signore mi mette accanto per ricordarmi chi fa davvero tutte le cose. Così, a differenza di quelle statue sul Duomo, in questa nuova missione non mi sta mancando una compagnia. A volte basta un incontro imprevisto, anche dentro un’agenda piena di impegni, per accorgermi che Cristo non mi lascia mai solo.

Lei del resto ha ripetuto più volte che la sua è una missione da vivere nella fraternità. Ci sta riuscendo?

Per grazia di Dio sì. Non si può vivere senza compagnia, senza la manifestazione concreta della prossimità di Cristo. Spesso si palesa in maniera impensabile. Una sera mi trovavo a Roma con alcuni provinciali dei frati minori, prima di tornare a Gerusalemme. Salutando uno di loro, che non conosco benissimo ma che stimo, chiesi se avesse una parola da dirmi prima di partire. Mi rispose solo: «Cercati un amico». È stato il consiglio più bello. Non si può vivere una vita senza amici. Credo che si possa vivere senza moglie o marito, come la vita consacrata o sacerdotale dimostrano, ma nessuno può vivere senza amici. Anche Gesù non ha potuto farne a meno.

Lei vive nel convento di San Salvatore, quindi in una quotidiana esperienza di comunità…

Sì, siamo 78 frati, ci sono anche gli studenti di teologia e i frati più anziani. Siamo in tanti ed è prezioso riaccorgersi che anche la vita comunitaria ha bisogno di una regola. Perché la regola aiuta a mettere i paletti che custodiscono il cuore di ciascuno. Essere fedeli agli appuntamenti, ai gesti comuni, alla preghiera è un grossissimo aiuto a non disperdersi e a non isolarsi. La fraternità è una necessità.

Difficoltà incontrate in questi primi mesi da Custode?

Una è sicuramente quella del linguaggio. Non conoscere l’arabo, dover parlare sempre tramite interprete, ridurre concetti a me cari a parole semplificate… Dentro al lessico passa tutta la tua cultura, tutta la tua tradizione e la tua storia in fondo. Mi crucciavo molto di questo ma ho scoperto che esiste un linguaggio universale, più diretto: la persona stessa, il modo in cui ti poni. A volte quello che resta non è un discorso, ma un sorriso, una pacca sulla spalla, un abbraccio. Francesco d’Assisi e il sultano, quando si incontrarono ottocento anni fa, non parlavano la stessa lingua, ma avevano forse la stessa posizione del cuore. È lì che nasce la possibilità di incontro. Ecco, sto imparando che il Signore non vuole da noi abilità particolari, ma ci chiede la disponibilità affinché sia Lui a operare attraverso di noi. Per questo dico che il compito del custode è – ne sono sempre più convinto – custodire la posizione del cuore.

Da dove nasce questa intuizione?

Un’amica una volta mi ha detto: «Ricordati che la prima opera sei tu». Alla fine, la questione è questa: custodire il proprio cuore, cioè la posizione di apertura al Mistero. Custodire la propria vocazione, perché se la prima opera sono io, il primo lavoro da fare è su me stesso. Se non lo facessi, diventerei un funzionario, un diplomatico, uno che gestisce tante cose ma perde la verità di sé. Questa missione è impegnativa, spesso faccio esperienza dell’impotenza: ci sono cose che non si possono cambiare come la guerra o le piccole mancanze che ognuno di noi può avere. Sembra una banalità, ma ogni tanto bisogna ricordarsi che certe cose brutte resteranno tali per quanti sforzi, idee, intelligenza mettiamo in campo. Questo non significa non adoperarsi perché le circostanze migliorino, ci mancherebbe. Ma sto imparando quanto sia decisivo guardarle in tutta la loro drammaticità portandole come le avrebbe portate Cristo. Non disperati, ma con uno sguardo che non perde la speranza.

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/padre-francesco-ielpo-custode-terra-santa#:~:text=CHIESA-,Padre%20Ielpo.%20%C2%ABLa%20fraternit%C3%A0%20%C3%A8%20una%20necessit%C3%A0%C2%BB,Non%20perderti%20il%20meglio,-Uno%20sguardo%20curioso

Un tema molto dibattuto è quello della presenza cristiana in Medio Oriente. Cosa significa restare mentre tutto intorno crolla?

Il nostro primo compito è esserci. È la lezione di otto secoli di Custodia: la Chiesa non chiede dei supereroi, ma una presenza che resta. A Gaza i religiosi avrebbero potuto andarsene dopo il 7 ottobre, molti di loro hanno passaporto internazionale, e invece sono rimasti accanto alla gente. Non risolveranno il conflitto, ma testimoniano che Dio non abbandona nessuno. Anche in Siria, negli anni dell’occupazione jihadista, i nostri frati sono rimasti nei villaggi cristiani dell’Oronte subendo rapimenti e minacce. In quel momento per noi sembrava tutto difficile e buio. Nel tempo, però, anche i jihadisti hanno dovuto fare i conti con la presenza cristiana, che è diversa da tutte le altre. Lo hanno riconosciuto. E ora che sono al governo in Siria hanno un’idea di cosa sia il cristianesimo proprio grazie a quegli anni. Non cambiamo il mondo con la forza, ma con la fedeltà di una presenza.

Molti cristiani, però, scelgono di lasciare la Terra Santa. Come vive questo fenomeno?

È doloroso, certo. Ma non spetta a noi dire a una famiglia “devi restare” o “devi partire”. La Custodia accompagna chi resta, senza giudicare chi parte. Però ho capito una cosa: non basta garantire scuole, sanità o lavoro perché le persone restino. Certo noi frati – anche attraverso la nostra ong Pro Terra Sancta – ci adoperiamo per un sostegno concreto, soprattutto in Cisgiordania dove da due anni l’80 per cento della popolazione è senza lavoro, non esiste welfare e le famiglie faticano a pagare le rette scolastiche e ad arrivare alla fine del mese. Per rimanere però serve una ragione più profonda. Come custode sento l’urgenza di aiutare la gente a trovare le ragioni per cui in ogni circostanza della vita, in qualunque condizione, è possibile vivere ed essere uomini liberi.

 

martedì 16 settembre 2025

PALESTINA/ La pietà e la memoria: Anna Foa e la tragedia di Gaza


 

PALESTINA/ La pietà e la memoria: Anna Foa e la tragedia di Gaza

Massimo Borghesi Pubblicato 14 Settembre 2025

 

Di fronte al genocidio perpetrato dal governo di Israele, Anna Foa su "La Stampa" propone di dare, ove possibile, un nome ai palestinesi

Anna Foa è una storica di professione ed è ebrea. Il suo ultimo libro, vincitore del premio Strega, ha un titolo significativo: Il suicidio di Israele (Laterza, 2024). Sabato 13 settembre ha pubblicato su La Stampa un articolo, Dall’Egitto a Gaza, il dolore dell’esodo, che non può passare sotto silenzio. È un testo breve di grande bellezza. In esso scrive:

 

“Nelle raffigurazioni delle Haggadoth medioevali, il libro letto a Pasqua dagli ebrei, l’esodo dall’Egitto è rappresentato in vesti medioevali: gli ebrei sono raffigurati come nelle espulsioni che nel Tre-Quattrocento ne resero difficile la vita in Europa. Se ne andavano con i loro averi trasportati sui carri, uscendo dalle porte delle città, dopo che i decreti cittadini li avevano scacciati. Con le loro vesti medioevali, i loro cappelli segno di infamia, le loro donne e i loro bambini. Se oggi dovessimo fare altrettanto, la nostra immagine dell’Esodo sarebbe quella che vediamo nei video trasmessi dalla televisione, della lunga fila di macchine, furgoni, carretti che portano i palestinesi di Gaza City verso Sud, sgombrando la città per distruggerla dalle fondamenta. I carri medioevali hanno ora il motore, ma la lunga fila è la stessa, il dolore dell’esilio lo stesso”.

Ciò che è diverso, osserva la storica, è il rischio della morte. Gli ebrei esiliati potevano, nel Medio Evo, trovare rifugio altrove, rifarsi una vita. A Gaza questo è impossibile, i profughi, stretti in un lembo di terra divenuto una prigione, non sanno dove andare. Ogni posto, i campi profughi, le case, le tende in riva al mare, sono potenziali luoghi di morte. Questa consapevolezza muove Anna Foa a porsi una domanda che oggi nessuno pone, una domanda che va al cuore della tragedia, oltre la guerra che divide due popoli.

 

“Chi sono coloro che si muovono in queste lunghe interminabili file? Di alcuni di loro abbiamo notizie, perché ne conosciamo il nome, hanno insegnato nelle università, lavorato negli ospedali, dato come giornalisti notizie che solo i giornalisti di Gaza erano autorizzati a trasmettere. Di altri, vecchi, donne, bambini, nulla sappiamo se non il dolore che leggiamo sui loro volti senza sorriso. Ma l’ordine di evacuazione varato dal governo di Israele azzera le vite di tutti. Non ci sono più privilegiati, se non coloro che hanno abbastanza denaro per farsi aiutare nella fuga, ma per andare dove? Amici, amici di amici, scrivono chiedendo di essere aiutati a uscire da quella prigione a cielo aperto. Ma come?”

“Le difficoltà burocratiche, quelle politiche e militari dell’esercito e del governo israeliano, quelle stesse della inenarrabile confusione di questo esodo lo rendono difficilissimo, forse impossibile. L’ossessione israeliana per i muri, i checkpoint, le proibizioni di muoversi trova qui la sua mortale apoteosi. Quanti di questi individui in fila per salvarsi sopravviveranno? E potremo mai ricordare i nomi di chi non ci riuscirà, leggerli un giorno come il cardinal Zuppi ha letto giorni fa quelli dei bambini morti in questi mesi a Gaza?”

 

La Foa applica qui, ai palestinesi, la legge della pietà, quella della memoria, la stessa che gli ebrei sopravvissuti alla Shoah hanno adottato verso coloro che sono diventati cenere nei forni crematori. Si tratta, da parte di un’autrice ebrea, di una posizione coraggiosa, rischiosa, che comprende come anche il nemico, il popolo che ti odia, possa essere una vittima. Vittima da parte di uno Stato fondato dalle vittime dell’Olocausto che, in esso, ha trovato la sua legittimità che oggi sta perdendo per una reazione spropositata, crudele, disumana al vile attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

Un attacco che ha allargato a dismisura il fossato tra ebrei e palestinesi offrendo a Netanyahu l’occasione per portare a termine il “lavoro sporco”, secondo la definizione del primo ministro tedesco Friedrich Merz. Nel lavoro sporco non può esservi pietà per l’avversario, anche se esso nulla ha a che fare con i crimini di Hamas.

Impedire la pietà, da parte di Israele, da parte del mondo, implica il venir meno dell’informazione, togliere voce e volto alle vittime. Per questo più di 200 giornalisti sono stati uccisi a Gaza. Nel circuito mediatico mondiale, attivo 24 ore su 24, Gaza è un buco nero. Lo è la Cisgiordania nella quale la quotidiana violenza dei coloni israeliani verso i palestinesi è oggetto di narrazione ma non di immagini. Lo Stato non lo consente. È in questo buco nero che si colloca la proposta di Anna Foa.

 

“E allora, cominciamo a ricostruire, attraverso gli scarsi frammenti che ne abbiamo, i nomi, i volti, le età, le professioni di alcuni di loro. È possibile. Vediamo di non cogliere in quelle lunghe file di esiliati solo numeri, ma vite. Vite troncate, forse distrutte, ma vite da ricordare, da ricostruire nella nostra mente. Lo facciamo, lo abbiamo fatto, per la Shoah, ridando nomi e storie ai sommersi. Allora, lo abbiamo fatto dopo, dopo che erano stati distrutti. E se ora provassimo a farlo quando coloro che sono destinati alla morte sono ancora in vita, quando temono per le vite dei loro figli? Una memoria immediata, di ciò che sta accadendo ora. Forse getterebbe un po’ di luce su quel milione di esseri umani in movimento, forse, chissà, ne salverebbe alcuni. È difficile ma possiamo almeno provarci. Di fronte alla negazione che questa tragica storia comporta della loro umanità, è una delle vie per ricordare che sono esseri umani uguali a noi”.

“Lo abbiamo fatto per la Shoah, ridando nomi e storie ai sommersi”. Il grande cuore di Anna Foa non si ferma all’ideologia, incancrenita dall’odio, non indugia al mito dell’eccezionalità di Israele.

 

Al contrario vuole estendere anche agli altri, ai palestinesi, la dimensione vittimaria. Fare quello che gli ebrei hanno fatto per la Shoah significa oggi dare un nome ai profughi di Gaza. Salvarli significa farli uscire dall’anonimato, quello che facilita le uccisioni indiscriminate di uomini, donne, bambini.

èUn palazzo bombardato, una tendopoli, un ospedale, una scuola: così, a caso, la morte arriva dal cielo. Cade su uomini senza volto che nemmeno le immagini strazianti che filtrano dalla Striscia riescono a restituire. La pietà non è destata dalle masse di poveracci che vagano, senza sosta e senza meta, non dalle donne straziate che urlano di dolore. I volti impietriti dei prigionieri ad Auschwitz, con le teste rasate e gli indumenti logori, non destavano alcuna compassione negli aguzzini del campo.

Pietà e compassione sorgono non di fronte alla folla dei miserabili, che scorre ogni giorno nei nostri telegiornali, ma di fronte ad un volto nella folla. In articolo di alcuni anni fa, dal titolo Spielberg, Manzoni e i colori della pietà, Adriano Sofri scriveva:

 

“Le fosse comuni, le cataste degli sterminati, riempiono di orrore e fanno distogliere lo sguardo, mentre la pietà è singolare. L’occhio della misericordia ha bisogno di scegliere, o essere scelto, da una figura e su quella fissare angoscia, simpatia, smania di soccorso. Questo fanno le immagini, e prima di loro i racconti. Sollevano dal bassorilievo di fondo dove giacciono i caduti o languono i malati o si trascinano i deportati, una figura a tutto tondo, un bambino di Varsavia con le mani alzate e la stella sul cappotto, un miliziano che stramazza, una bambinetta vietnamita che corre singhiozzando, una madre algerina impietrita dal dolore, una piccola Leyla sarajevese con l’orbita vuotata da un cecchino. Soprattutto lo spettatore del genocidio ha bisogno di aggrapparsi ad un corpo, ad un viso, un nome, per non essere schiacciato e soffocato dal mucchio smisurato di morti, da quel forsennato delirio di quantità che ne ispirò e ubriacò gli autori. I milioni di morti sono troppi per non togliere il fiato e le forze. Fermando lo sguardo su un punto noi compiamo una specie di adozione, che ci lascia di nuovo respirare e piangere, e ridiventare capaci di figurarci anche il grande numero”.

 

L’universale, il dramma collettivo, può essere abbracciato e condiviso solo partendo dal particolare, dallo “sguardo su un punto”.

(…)

https://www.ilsussidiario.net/news/palestina-la-pieta-e-la-memoria-anna-foa-e-la-tragedia-di-gaza/2881124/#:~:text=CULTURA-,PALESTINA/%20La%20piet%C3%A0%20e%20la%20memoria%3A%20Anna%20Foa%20e%20la%20tragedia,governo%2C%20del%20presidente%20che%20ha%20rinnegato%20la%20memoria%20della%20Shoah.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

 

Questo è quanto Anna Foa ha pienamente compreso. Siamo tutti spettatori della tragedia di Gaza, della follia criminale del governo di Netanyahu che sta infangando il nome di Israele nel mondo. Eppure quella tragedia arriva a noi, a noi che la contempliamo in diretta, anestetizzata. Ci mancano i nomi, i volti, le storie, per sentirla nostra. Come nostra ci è apparsa, da subito, la vicenda di padre Gabriel Romanelli e della comunità della Sacra Famiglia a Gaza quando la chiesa è stata bombardata.

Il colpo sparato dal tank ha sollevato, per reazione, un moto di sdegno e di solidarietà mondiale al punto che Netanyahu ha dovuto scusarsi con il Papa. Padre Romanelli è il parroco della piccola comunità palestinese di Gaza. A lui papa Francesco telefonava ogni giorno prima della sua morte.

Dovremmo e vorremmo conoscere altri volti oltre a quelli del sacerdote, volti non di Hamas che tiene prigioniero il suo popolo ed è causa della sua tragedia, ma del popolo palestinese. Così il moto di compassione potrebbe divenire universale e la condanna verso l’oppressore divenire oceanica. Una condanna non degli ebrei ma del loro governo, del presidente che ha rinnegato la memoria della Shoah.


giovedì 11 settembre 2025

LETTURE/ “Fidei Communio”, così la teologia rinasce dall’esperienza


 

LETTURE/ “Fidei Communio”, così la teologia rinasce dall’esperienza

Elia Carrai Pubblicato 11 Settembre 2025

 

Una nuova rivista di teologia, in continuità con la "Communio" fondata da von Balthasar, de Lubac e Ratzinger, ma consapevole dei tempi nuovi

 

‘Fidei Communio’ nasce come ponte fra la grande stagione conciliare e le sfide del presente. A cinquant’anni dall’avventura di Communio – la rivista fondata da von Balthasar, de Lubac e Ratzinger per custodire l’insegnamento del Concilio – un gruppo di studiosi italiani e spagnoli rilancia oggi quell’intuizione dal di dentro di un mutato contesto storico.

Alla parola communio troviamo così affiancata la parola fides. Da un lato il termine communio lega idealmente il tentativo editoriale presente al progetto originario, dall’altro manifesta la rinnovata necessità di cogliere adeguatamente la portata di una parola la cui pregnanza teologica e ontologica chiede di essere ricompresa alla luce dei nuovi paradigmi relazionali sviluppatesi nello scenario socio-culturale.

L’aggiunta della parola fides sottolinea, come ulteriore necessaria specificazione per questo tempo presente, quella fondamentale “personale esperienza all’interno della quale si gioca la dinamica comunionale, offrendo in tal modo una particolare capacità di sguardo sulla realtà alla luce del vangelo […] Da una vera experientia fidei scaturisce, infatti, una rinnovata intelligentia fidei, che va nuovamente a illuminare e risemantizzare l’esperienza di fede del singolo. In questa dinamica personale, ogni io scopre la propria identità più profonda sempre e comunque in relazione al noi della Chiesa a cui appartiene” (Editoriale del primo numero).

Solo in un simile orizzonte – in cui la comunione sorge realmente dall’esperienza della fede – allora diviene possibile dare voce a un pensiero che non sorge come “interpretazione di maggioranza” della Chiesa e del mondo, in una disponibilità piuttosto a “cogliere la realtà – come leggiamo nell’editoriale – per come essa realmente è, e così andare incontro alle domande che albergano nel cuore di ogni uomo e donna; in secondo luogo, per generare un nuovo spazio libero, dove le diverse visioni della realtà, molto spesso anche contrapposte, possano entrare in dialogo tra loro”.

In un tempo in cui spesso “l’interessante diventa più importante del vero”, la rivista Fidei Communio invita così i lettori a riscoprire, con “la gioia del rischio e il coraggio della fede”, la serietà intellettuale di una ricerca che non teme di confrontarsi con le istanze culturali del nostro tempo.

Fidei Communio è interamente leggibile online e scaricabile in formato pdf open access, volendo essere uno strumento accessibile e condivisibile tanto nell’ambito della comunità accademica quanto per un più vasto pubblico: “la rivista non è legata ad alcuna particolare istituzione accademica, ma è il frutto di un lavoro sinergico diretto da diversi docenti, che vede il coinvolgimento di pensatori provenienti da ogni parte del mondo.

In secondo luogo, l’‘interdisciplinarità’: la rivista intende infatti farsi spazio all’interno del quale far entrare in dialogo tra loro diversi ambiti del sapere: dalla teologia alla filosofia, dalla storia alla sociologia, dalla politologia alla letteratura, ecc.

(…..)

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-fidei-communio-cosi-la-teologia-rinasce-dallesperienza/2879841/#:~:text=CHIESA-,LETTURE/%20%E2%80%9CFidei%20Communio%E2%80%9D%2C%20cos%C3%AC%20la%20teologia%20rinasce%20dall%E2%80%99esperienza,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94,-Abbiamo%20bisogno%20del

Elia Carrai (segreteria@fideicommunio.org)

 


domenica 7 settembre 2025

Il Papa: Acutis e Frassati invitano a non sciupare la vita ma a orientarla verso l'alto

 



Il Papa: Acutis e Frassati invitano a non sciupare la vita ma a orientarla verso l'alto

Leone XIV presiede il rito che rende santi i due giovani laici. Nell’omelia richiama il loro “essere innamorati di Gesù” e la loro incessante volontà di “donare tutto per Lui”. Un amore coltivato attraverso “mezzi semplici, alla portata di tutti”, per vivere autenticamente la “santità della porta accanto”

Edoardo Giribaldi – Città del Vaticano

 

Un “bivio della vita” si apre davanti a ogni giovane: il rischio più grande è lasciarsi sfuggire il tempo. Ma c’è “un’avventura” che chiama, invitando a gettarsi “senza esitazioni”, a spogliarsi di sé, delle “cose”, delle “idee” che ci tengono prigionieri. Basta alzare lo sguardo verso il cielo, assaporare ogni respiro della propria esistenza e camminare “incontro al Signore, nella festa eterna del Cielo".

Così Papa Leone XIV dipinge le figure di Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati, canonizzati oggi, 7 settembre, durante la celebrazione eucaristica presieduta dal Pontefice sul sagrato della Basilica di San Pietro. La domenica soleggiata, gli 80mila fedeli festanti, fanno da sfondo alla Messa concelebrata, tra gli altri, dal cardinale Roberto Repole, arcivescovo di Torino, città originaria di Frassati, e da monsignor Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi - Nocera Umbra - Gualdo Tadino e Foligno, che ha accompagnato fina dalla prima ora il cammino di Acutis verso il riconoscimento ufficiale della santità. Tra i presenti, anche presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella.

"Oggi è una festa bellissima"

Mancano pochi minuti all’inizio della celebrazione e la piazza già trabocca di volti, canti e attese. Tra la folla sventolano striscioni che custodiscono le parole ardenti dei due giovani laici: "Vivere, non vivacchiare", "Tutti nasciamo come originali". All’improvviso, lo sguardo della piazza si accende: Papa Leone XIV compare sul sagrato e il suo saluto a braccio si leva come un abbraccio universale. "Oggi è una festa bellissima per tutta l’Italia, per tutta la Chiesa, per tutto il mondo!". La liturgia, "molto solenne", non spegne – assicura – la gioia che riempie questa giornata.

E volevo salutare, soprattutto, tanti giovani, ragazzi, che sono venuti per questa Santa Messa! È veramente una benedizione del Signore trovarci insieme, voi che siete arrivati da diversi Paesi. È un dono di fede che desideriamo condividere

 

Il Papa chiede "un po’ di pazienza" a quanti non si trovano nelle prime file della piazza, promettendo loro un saluto in papamobile al termine della celebrazione. Rivolge poi un pensiero particolare ai familiari di Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati, invitando tutti a custodire nel cuore ciò che loro hanno testimoniato: l’amore per Cristo, "soprattutto nell’Eucaristia ma anche nei poveri, nei fratelli e nelle sorelle".

Tutti voi, tutti noi, siamo chiamati a essere santi. Dio vi benedica! Buona celebrazione! Grazie per essere qui!

"Cosa devo fare perché nulla vada perduto?"

Nell’omelia, il Papa evoca una domanda della Prima Lettura, tratta dal Libro della Sapienza e proclamata da Michele Acutis, fratello di Carlo. Una domanda attribuita “proprio a un giovane”, come i due nuovi santi: il re Salomone.

Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?

 

Alla morte di Davide, suo padre, Salomone possiede apparentemente tutto: potere, ricchezza, salute, giovinezza, bellezza. Un regno da governare. Ma proprio l’abbondanza gli suscita un interrogativo:

Cosa devo fare perché nulla vada perduto?

La risposta è la richiesta di un dono più grande: la Sapienza di Dio, per conoscere e aderire ai suoi progetti.

Si era reso conto, infatti, che solo così ogni cosa avrebbe trovato il suo posto nel grande disegno del Signore. Sì, perché il rischio più grande della vita è quello di sprecarla al di fuori del progetto di Dio

Chiamati a "buttarci"

Leone XIV si sofferma poi sul Vangelo, dove viene delineato un altro progetto radicale, “a cui aderire fino in fondo”. Quello indicato da Gesù:

Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo

E ancora:

Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo

Una chiamata a “buttarci”. A seguire Cristo senza vacillare, con “l’intelligenza e la forza” – doni dello Spirito – da accogliere spogliandosi delle proprie convinzioni, “per metterci in ascolto della sua Parola”.

"Signore, che vuoi che io faccia?"

Non solo Salomone, ma anche san Francesco d’Assisi si trova davanti allo stesso bivio. Giovane, ricco e "assetato di gloria", sogna di diventare cavaliere. Ma l’incontro con Cristo lo spinge a domandarsi:

Signore, che vuoi che io faccia?

Il resto è una “storia diversa”, quella “meravigliosa” e conosciuta universalmente, di una spogliazione che all’oro e all’argento, oltre che alle stoffe preziose del padre, preferisce “l’amore per i fratelli, specialmente i più deboli e i più piccoli”.

"Una nuova logica"

L’elenco potrebbe proseguire. D’altro canto, nota il Papa, spesso la santità nasce da un “sì” pronunciato in gioventù. “Voglio te”, era la voce che sant’Agostino ascoltava “nel nodo tortuoso e aggrovigliato" della sua vita.

E così Dio gli ha dato una nuova direzione, una nuova strada, una nuova logica, in cui nulla della sua esistenza è andato perduto

 

"Frassati Impresa Trasporti"

In questa cornice, Leone XIV ripercorre le vite di Frassati e Acutis. Del primo sottolinea l’impegno nella scuola, nei gruppi ecclesiali – Azione Cattolica, Conferenze di San Vincenzo, FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana) e Terz’Ordine domenicano. La sua fede si esprime nella preghiera, nell’amicizia e nella carità. “Frassati Impresa Trasporti” è il soprannome affettuoso con cui gli amici lo chiamano, vedendolo portare aiuti ai poveri per le strade di Torino. La sua testimonianza è “una luce per la spiritualità laicale”

 

Per lui la fede non è stata una devozione privata: spinto dalla forza del Vangelo e dall’appartenenza alle associazioni ecclesiali, si è impegnato generosamente nella società, ha dato il suo contributo alla vita politica, si è speso con ardore al servizio dei poveri

 

Frassati, un “vero fratello” che Leone XIV proclama santo

06/09/2025

Frassati, un “vero fratello” che Leone XIV proclama santoLe testimonianze dei giovani di Azione Cattolica, attore nella causa di canonizzazione, rivelano l'attualità di Pier Giorgio Frassati, che chiamava la vita “allegria attraverso i ...

Preghiera, sport, studio e carità

Di Carlo, il Papa ricorda l’incontro con Gesù attraverso la famiglia – menziona Michele, Francesca, la sorella, e i genitori, Andrea e Antonia, tutti presenti in basilica – e la scuola, ma “soprattutto nei Sacramenti celebrati nella comunità parrocchiale.

È cresciuto, così, integrando naturalmente nelle sue giornate di bambino e di ragazzo preghiera, sport, studio e carità

"Basta un semplice movimento degli occhi"

Ciò che unisce Carlo e Pier Giorgio è la scelta di vivere l’amore di Dio e dei fratelli con "mezzi semplici, accessibili a tutti": la Messa quotidiana, la preghiera, in particolare l’adorazione eucaristica. “Davanti al sole ci si abbronza. Davanti all’Eucaristia si diventa santi”, diceva Carlo. E ancora:

La tristezza è lo sguardo rivolto verso sé stessi, la felicità è lo sguardo rivolto verso Dio. La conversione non è altro che spostare lo sguardo dal basso verso l’Alto, basta un semplice movimento degli occhi

"Una luce che noi non abbiamo"

Entrambi sono attenti al Sacramento della Riconciliazione. Carlo ammoniva: “L’unica cosa che dobbiamo temere veramente è il peccato”, meravigliandosi di come “gli uomini si preoccupano tanto della bellezza del proprio corpo e non si preoccupano della bellezza della propria anima”. Altro tratto comune, la devozione per i santi e la Vergine Maria, oltre alla pratica della carità. Pier Giorgio, ricorda ancora Leone XIV, scriveva: “Intorno ai poveri e agli ammalati io vedo una luce che noi non abbiamo”.

Come Carlo, la esercitava soprattutto attraverso piccoli gesti concreti, spesso nascosti, vivendo quella che Papa Francesco ha chiamato la santità della porta accanto

 

"Il Cielo ci aspetta da sempre"

Un amore, un’offerta a Dio, che neppure la malattia sa scalfire. “Il giorno della morte sarà il più bel giorno della mia vita”, un’altra frase di Frassati ricordata dal Papa, che menziona anche la sua ultima foto, che lo ritrae intento a scalare una montagna. “Col volto rivolto alla meta, aveva scritto: ‘Verso l’alto’”.

Del resto, ancora più giovane, Carlo amava dire che il Cielo ci aspetta da sempre, e che amare il domani è dare oggi il meglio del nostro frutto

 

"Non sciupare la vita"

I nuovi santi diventano così un “invito”, rivolto specialmente ai giovani, “a non sciupare la vita, ma a orientarla verso l’alto e a farne un capolavoro”. Diceva Carlo:

Non io, ma Dio

E Pier Giorgio:

Se avrai Dio per centro di ogni tua azione, allora arriverai fino alla fine

Formula tanto semplice, quanto “vincente”, della santità. Ma anche testimonianza da seguire, per “gustare la vita fino in fondo e andare incontro al Signore nella festa del Cielo”.

 

I riti di canonizzazione

La celebrazione con il rito della canonizzazione vive momenti particolari, come quello iniziale della Petitio, in cui il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, accompagnato dai postulatori – Nicola Gori per Acutis e Silvia Correale per Frassati – pone al Papa la domanda per procedere alla canonizzazione.

(…)

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2025-09/papa-leone-xiv-messa-canonizzazione-acutis-frassati.html#:~:text=PAPA%20LEONE%20XIV-,Il%20Papa%3A%20Acutis%20e%20Frassati%20invitano%20a%20non%20sciupare%20la%20vita,Chi,-siamo


venerdì 29 agosto 2025

LETTURE/ Guzmán Carriquiry, 50 anni nelle stanze vaticane: un laico per 5 papi


 

LETTURE/ Guzmán Carriquiry, 50 anni nelle stanze vaticane: un laico per 5 papi

Massimo Borghesi Pubblicato 29 Agosto 2025

 

Le memorie vaticane di Guzmán Carriquiry appena pubblicate sono un indispensabile documento storico per vedere da vicino 4 pontificati

“Mezzo secolo al servizio dei papi. Nessun laico nella Curia romana ha avuto come lui accesso agli ultimi pontefici: è stato loro commensale, loro consigliere, in alcuni casi amico. Fino al 2018 il laico con i ’gradi’ più alti in Vaticano. Per questo le memorie dell’ormai ultraottantenne Guzmán Carriquiry sono una testimonianza preziosa, e non solo per gli storici della Chiesa o per i vaticanisti”.

Così scrive Lucio Brunelli nella sua bella recensione al volume di Guzmán Carriquiry, Il Testimone. Mezzo secolo nelle stanze vaticane (Cantagalli 2025), uscita su L’Osservatore Romano. Attivo nella realtà cattolica giovanile dell’Uruguay, collaboratore della rivista Vispera di Alberto Methol Ferré, il suo maestro di pensiero, Carriquiry è invitato a lavorare in Vaticano nel 1971.

Nel 1977 Paolo VI lo chiama a far parte del Pontificio Consiglio per i laici divenendo, per volere di Giovanni Paolo II nel 1991, sottosegretario. Il 14 maggio 2011 Benedetto XVI lo nomina segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina (CAL). È il primo laico ad occupare una posizione di questa importanza nella Curia romana. Dal 2021 al 2025 è stato ambasciatore dell’Uruguay presso la Santa Sede.

Grazie ai posti occupati e alla grande esperienza accumulata nel tempo il punto di vista dell’autore si dimostra oltremodo prezioso per uno sguardo complessivo sulla vita della Chiesa, dagli anni 70 in avanti.

Una buona parte di questa prospettiva è ora consegnata al suo volume di memorie appena arrivato in libreria. Ricco di aneddoti e di ricordi, il libro costituisce una miniera che, pur nella prudenza richiesta dai ruoli rivestiti, permette di aprire spiragli sui papi, il Vaticano, la curia, il mondo cattolico. Il tutto dentro una passione, mai venuta meno, per l’America Latina.

“Nei miei lunghi anni romani e vaticani, ho sempre custodito nel cuore una passione per la vita e il destino dei popoli dell’America Latina, così come ho coltivato contatti e letture latinoamericane. Nella mia identificazione come latinoamericano non c’è un mero sentimento, ma l’intelligenza percettiva di un vincolo di appartenenza, di un cerchio singolare di fraternità, di una prossimità di carità e solidarietà, più forte di tutto ciò che ci distingue e ci separa nella regione: più forte delle distanze geografiche, delle frontiere statali, delle barriere etniche, della diversità di sub-culture.

L’Uruguay è la mia patria nativa; l’America Latina è la mia ‘Patria Grande’. Ci riconosciamo come latinoamericani perché, come scrivevano i nostri vescovi a Puebla, ‘il Vangelo incarnato nei nostri popoli costituisce un’originalità storico-culturale che chiamiamo America Latina’, e che ha come simbolo luminoso il volto meticcio di Nostra Signora di Guadalupe. Il barocco è l’espressione culturale che ricapitola in forme complesse e opposte tutta la diversità dei nostri componenti” (p. 261).

Fedele a queste radici, Carriquiry si sofferma a lungo sull’America Latina e sull’evoluzione della sua Chiesa dal Convegno di Puebla a quello di Aparecida guidato, quest’ultimo, dal cardinale Jorge Mario Bergoglio. Con Bergoglio il rapporto è amicale. Lo è anche, in forma differente ma non meno partecipe, con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI. Lo dimostra la “correzione” del discorso programmato di papa Benedetto per Aparecida. Così la ricorda Carriquiry:

“Avevo ricevuto sotto embargo il testo del discorso inaugurale che Benedetto XVI avrebbe pronunciato alla Conferenza dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida. Lo lessi e rilessi e non mi piaceva per niente: era insipido, incolore, burocratico. Non era affatto di Ratzinger! Così iniziai a chiedere con insistenza un breve incontro con il Papa. Era prevedibile che avrei ricevuto ripetuti rifiuti, ma alla fine lo fermai in un’udienza collettiva, confidando nella nostra conoscenza, e gli chiesi: ‘Sa quanto è importante la Conferenza di Aparecida? Sa quanto è importante il suo discorso inaugurale?’. Erano domande ridondanti e pleonastiche, piuttosto impertinenti. E quando ovviamente mi rispose con stupore ‘Sì’, mi permisi di dirgli, con una certa vivacità: ‘Allora, per favore, la prego di lasciare da parte il testo che le hanno preparato, di chiudersi nei prossimi tre giorni e di preparare personalmente il suo discorso’. E così fu, anche se mancavano pochissimi giorni all’inizio della Conferenza” (p. 126).

(…)

È la stessa nota che riscontriamo nelle sue note su papa Francesco. Al papa argentino, ben conosciuto prima della sua elezione, Carriquiry è legato, lui e la sua consorte Lídice, da grande affetto, stima, gratitudine. Il ché non gli impedisce di sollevare anche dei rilievi. Ne ricordiamo alcuni che richiedono, in qualche modo, soluzioni da parte di Leone XIV.

Il primo è il rapporto tra il papato e il vecchio continente. Francesco, lo sappiamo, ha dato priorità alle “frontiere”, ai Paesi fuori dall’Occidente, alle “periferie” del mondo. Con ciò, però, si è evitata ma non risolta la sfida tra la fede e il mondo secolarizzato, quello che vede la desertificazione delle chiese.

“Papa Francesco non ha visitato né la Francia né la Germania – Francia e Germania che costituivano l’asse aggregante dell’Unione Europea – e ciò nonostante avesse avuto ottime relazioni personali con Macron e la Merkel (…); non ha nemmeno visitato la Spagna, l’Inghilterra, l’Austria, l’Olanda… Ha pronunciato qualche discorso rilevante sull’Europa, specialmente quando ha ricevuto il premio Carlo Magno, e ha lanciato messaggi importanti in alcuni viaggi brevi in Svezia, Benelux, Ungheria e altri. […] Durante l’incendio della cattedrale di Notre Dame, lo chiamai al telefono – l’unica volta per mia iniziativa – per raccomandargli vivamente di prendere un aereo, andare a recitare un Rosario in piazza della cattedrale e tornare indietro… Mi chiese se sapevo che lo stesso presidente Macron lo aveva chiamato al telefono per suggerirgli la stessa cosa, ma mi ha risposto che era impossibile. Peccato! Certamente avrà avuto buoni motivi per non poterlo fare. Rispose con un deciso ‘no’ alla domanda se sarebbe andato all’inaugurazione della cattedrale restaurata (per non sopportare il protagonismo del signor presidente e la ‘passerella’ dei potenti del mondo)” (pp. 230-231).

Si potrebbe osservare che la preoccupazione di papa Francesco di non essere strumentalizzato era legittima. Il ché non impediva di pensare ad altre opportunità. Comunque sia, il quadro non è migliore nemmeno in America Latina la cui Chiesa, secondo Carriquiry, avrebbe perso una grande occasione non valorizzando adeguatamente il programma del Papa affidato a Evangelii gaudium.

Per l’autore “Nemmeno la Chiesa in America Latina si è dimostrata in grado di colmare quel vuoto nella centralità romana provocato dal declino europeo. Il pontificato del primo latinoamericano non l’ha vista compiere quel salto cattolico di qualità, troppo impegnativo e difficile, nonostante abbia apportato contributi arricchenti per la vita di tutta la Chiesa. Il continente americano conta il 50% dei battezzati di tutta la Chiesa cattolica, ma diminuisce a causa dell’espansione degli ‘evangelici’ e degli influssi capillari di una cultura dominante sempre più lontana e ostile alla tradizione cristiana” (p. 231).

Questa debolezza della Chiesa latinoamericana nell’intendere la portata storica dell’elezione di un Papa argentino – una debolezza che investe anche il CELAM, la Conferenza episcopale latinoamericana – porta Carriquiry ad una sorta di grido di dolore:

“Credevamo che toccasse all’America Latina, la più grande area cristiana del Sud del mondo, la più cattolica e la più capace di dialogo con la modernità, assumersi una enorme responsabilità, non solo nei confronti del proprio popolo ma di tutto il mondo. Avere consapevolezza di ciò non si è tradotto nell’essere all’altezza di tale responsabilità. Forse siamo stati capaci di trarre tutte le implicazioni e le conseguenze dal fatto inedito, di grande portata, del primo pontificato di un latinoamericano?

Siamo stati capaci di comprendere le enormi esigenze e responsabilità che dovevamo assumere le nostre Chiese, i nostri popoli e nazioni? Siamo forse stati capaci di dare un salto qualitativo nella coscienza e nel cammino della cattolicità? Ha seminato molto il pontificato di Papa Francesco nella buona terra dei popoli latinoamericani. Era ben voluto dalla nostra gente, in modo speciale dai poveri e dagli umili di cuore. Non ci mancano arricchenti esperienze di carità, di rinnovamento pastorale, di iniziative sinodali disperse in tutta la regione. Ma aspettavamo un di più!” (p. 273).

Quello che è mancato, tra le altre cose, è “un pensiero teologico, culturale e politico all’altezza del nostro tempo” (p. 232). È questo un punto su cui Carriquiry, discepolo ideale del grande Alberto Methol Ferré, maestro anche di Bergoglio, sente particolarmente: la mancanza di un pensiero “cattolico”, fecondo, capace di conferire universalità alla Chiesa di oggi fortemente condizionata dalle polarizzazioni della storia.

“Posso affermare – scrive in un passo del volume dove con somma cortesia cita anche il mio nome –, senza essere particolarmente competente, che siamo in un periodo di pensiero un po’ ‘liquido’ nella Chiesa, che l’ultima grande generazione di teologi che è stata fondamentale per gli insegnamenti del Concilio Vaticano II è terminata con la morte di Joseph Ratzinger, che mancano grandi scuole di teologia e filosofia, che bisognerebbe ripensare a fondo la formazione di seminaristi e novizi innamorati, sì, di Cristo e del suo compito pastorale ma cresciuti e guidati da un’intelligenza cristiana capace di dialogare a 360 gradi con le grandi questioni poste dalla cultura attuale e di accompagnare i cristiani nella loro educazione della fede?

Ci sono importanti pensatori cattolici che segnalano questa carenza, come Pierangelo Sequeri e Massimo Borghesi. ‘Ciò che manca’, scrive l’amico Borghesi, ‘è un pensiero cattolico all’altezza del nostro tempo storico, capace di coniugare la ricchezza della tradizione con le sfide del presente’ (p. 255).

Francesco, al contrario di quanto hanno spesso ritenuto i suoi critici, aveva questo pensiero “cattolico” nutrito degli apporti di Fessard, Guardini, de Lubac, von Balthasar. Esso filtra attraverso tutti i suoi documenti importanti. Carriquiry cita in proposito, oltre ai suoi studi in materia, la mia biografia intellettuale di Bergoglio, i lavori di Austen Ivereigh, Andrea Monda, Gianni Valente, Lucio Brunelli, Carlos Galli, Rocco Buttiglione… Questo lo porta a chiedersi “perché il Santo Padre non abbia sentito la necessità, o almeno l’opportunità, di chiedere maggiore aiuto ad alcuni di questi amici e si sia circondato di alcune persone che, a volte, non hanno meritato la sua fiducia e hanno lasciato molto a desiderare” (p. 165).

Questa ritrosia da parte del Papa ha a che fare anche con la sua “solitudine”, che Carriquiry documenta per averla sperimentata da vicino.

“La storia di Bergoglio lo ha portato a governare la Chiesa – diciamo a servire come un pastore il popolo di Dio – con la forza, ma anche con il limite, della sua solitudine. Non è fuori luogo notare che la sinodalità non è stata molto evidente nel suo governo della Curia romana. Ha governato con l’impronta di un tradizionale superiore gesuita, un governo molto personale e carismatico di ‘intenzione determinata’ più che affidato alle mediazioni istituzionali, forse anche sotto l’influenza della storia politica che caratterizza l’Argentina (il caudillo e il suo popolo!).

Ha persino curato quella solitudine. Nulla di peggio che essere con lui indiscreti o invadenti. Molte volte mi ha ringraziato per la mia discrezione. Raramente mi sono permesso di chiamarlo per telefono negli anni del suo pontificato, ma ho atteso, a volte ansiosamente, che mi telefonasse. Non mi sono mai autoinvitato a pranzo con lui. Sapevo che c’era una ‘distanza’ che non potevo superare.

Niente di simile a un Giovanni Paolo II che dopo cena si riuniva spesso con alcuni dei suoi collaboratori più amici per bere un bicchiere e parlare di ciò che veniva. E questa solitudine non significa che non abbia incontrato quotidianamente e ascoltato molte più persone rispetto ai pontefici precedenti” (p. 236).

Gli ultimi due rilievi che riguardano aspetti del papato francescano riguardano la conduzione dei processi sinodali, spesso avviati senza una cornice adeguata (p. 217), e il rapporto di Francesco con i movimenti. Sotto Giovanni Paolo II, Carriquiry è stato un protagonista, nella Curia, nei processi di riconoscimento canonico dei movimenti ecclesiali. Ha avuto rapporti personali profondi con i fondatori di Cl, Sant’Egidio, Focolarini, Neocatecumenali, ecc.

Un rapporto speciale lo ha legato al fondatore di Cl, don Luigi Giussani, senza che questo implicasse una sua adesione formale al movimento. “È stato molto importante nella mia vita cristiana e nel mio servizio al Papa. Mi sono sempre chiesto perché Papa Wojtyła non lo abbia creato cardinale… Ma essere santo è certamente più importante che essere cardinale”.

La sua stima per l’esperienza dei movimenti lo porta a criticare la loro assenza nella seconda assemblea sinodale. “Mi è mancata la presenza di Andrea Riccardi e Marco Impagliazzo (Sant’Egidio), di Davide Prosperi, mons. Massimo Camisasca e don Julián Carrón (CL), di Chiara Almirante (Nuovi Orizzonti), di Kiko Argüello e padre Mario Pezzi (Cammino Neocatecumenale), di Moyses Azevedo e Maria Emmir Oquendo (Salom), di Giovanni Paolo Ramonda e Matteo Fadda (Giovanni XXIII), di padre Cesar di FASTA, di padre Alexander Awi di Schoenstatt, dei direttivi della comunità Emmanuel, delle Équipes de Notre Dame, dei Cursillos de Cristiandad, di CHARIS (rinnovamento carismatico), di Vivere In, della Società San Vincenzo de’ Paoli, di ADSIS e altri” (p. 250).

La sua conoscenza diretta di questi protagonisti della Chiesa lo porta a delle osservazioni relative alle difficoltà che hanno caratterizzato la relazione del Papa con i movimenti.

“È sembrato che Papa Francesco non volesse continuare a dar loro il sostegno che avevano avuto dai precedenti pontificati, preferendo condividere osservazioni più o meno critiche da una certa distanza “esterna” ad essi, senza una speciale empatia con la loro realtà.

Forse ha voluto evitare un’eccessiva auto-esaltazione dei movimenti, forse ha voluto essere più sobrio nei giudizi su di essi, forse ha voluto essere più esigente desiderando una rinascita della ricchezza e della bellezza che i carismi portavano con sé, andando oltre le ripetizioni, gli schemi e persino il rischio di fossilizzazioni.

Forse si aspettava che si rinnovasse la sorprendente fase di effervescenza carismatica, di profondo senso di appartenenza, di energia perseverante ed educativa, di aperta missione ad gentes verso ogni realtà, di fantasia della carità, che ha caratterizzato il loro impulso originario, al di là di certe sedimentazioni e stabilizzazioni.

Forse chiedeva loro una maggiore inculturazione nella vita dei popoli e nel servizio al popolo di Dio. Forse hanno pesato gli abusi provocati da alcuni fondatori e dirigenti suscitando una generalizzazione indebita di timori e pregiudizi. Forse ha pensato ai movimenti traslando l’esperienza delle comunità religiose, soprattutto quella gesuita. Forse il dicastero competente avrebbe potuto riconoscere di più ed incoraggiare tutto il bene dei movimenti” (p. 247).

 

“Forse il dicastero competente…”. Con la parresia che non gli manca, Carriquiry scrive che:

“Mi è rimasta l’impressione che la ‘coessenzialità dei doni sacramentali e carismatici’ nella costituzione e rinnovamento della Chiesa, così come fu chiaramente posta da San Giovanni Paolo II, sulla scia della Lumen gentium, non si percepisce in modo sufficiente nella Curia romana nei nostri giorni. Si apprezzano i carismi degli istituti di vita consacrata, ma molto meno quelli che sono alla base della vita dei movimenti e delle nuove comunità.

Papa Francesco ha criticato spesso e con ragione il clericalismo, ma non è andato fino in fondo. Il clericalismo si manifesta nel governo della Curia romana quando la necessaria e fondamentale dimensione gerarchica tende a oscurare la dimensione carismatica. Molte volte, i carismi fondativi e animatori dei movimenti e delle nuove comunità, malgrado siano già avvenuti il discernimento e il riconoscimento canonico, partecipi di quella “coessenzialità”, sembrano essere appena tollerati, generalmente sottoposti a una vigilanza e a un controllo eccessivi e, a volte, persino – lo scrisse un cardinale come Marc Ouellet – ad abusi di potere clericale.

Potrei elencare alcuni di questi abusi. Non è buono né per niente sano – salvo in situazioni di gravità molto speciale – che gli istituti e i movimenti riconosciuti dalla Santa Sede rimangano per lungo tempo sotto la tutela diretta di organismi della Santa Sede o dei loro ‘visitatori’ o ‘delegati’.

C’è un piglio autoritario che dovrebbe essere almeno moderato da più ascolto e dialogo, da fattivo riconoscimento di tutto il bene che lo Spirito Santo opera nella vita dei movimenti più che concentrarsi sui rischi e i problemi posti, da uno punto di vista meramente spirituale e pastorale più che da un approccio puramente canonistico. E nei pochissimi casi di estrema gravità, che si operi radicalmente per purificare tutto ciò che sia necessario, ma sempre cercando di salvare il salvabile” (pp. 247-248).

Scendendo nel dettaglio, Carriquiry afferma:

“E, a proposito, mi sembra smisurata l’accusa pubblica sugli ‘errori dottrinali’ di Comunione e Liberazione, accusa che, tra l’altro, non proveniva dal Dicastero competente sulla dottrina. Nel suo discorso del 15 ottobre 2022 al movimento, Papa Francesco ignorò tale accusa e, poco dopo, in una lettera al nuovo prefetto del Dicastero vaticano per la Dottrina della Fede, raccomandava di non cadere in questo tipo di accuse e di essere sempre disposto all’ascolto, al dialogo e alla correzione fraterna, se necessaria.

Si correggano tutti gli errori nella gestione del movimento, per eccesso di concentrazione nella persona del presidente, per un venir meno di una maggiore corresponsabilità, per trascuratezza delle sue mediazioni istituzionali, per un venir meno di non poche comunità universitarie. In questo senso, ben vengano le osservazioni critiche dell’autorità ecclesiastica accolte con la maggiore serietà e responsabilità.

Un’altra cosa è la lunga tutela imposta a Comunione e Liberazione, esorbitante perché totalmente sproporzionata di fronte alla ricchezza di fede, cultura e carità che fioriscono ovunque nelle sue esperienze di vita personale e comunitaria” (p. 249).

Si tratta di osservazioni, riguardanti tanto il pontificato quanto la curia, che nascono da un uomo che ha fatto della sua vita un esempio di obbedienza ai papi, con un amore sconfinato alla Chiesa. Con Francesco il legame era anche affettivo, figli di una stessa terra, di una stessa cultura e sentimento della vita. Nel libro più di un episodio traccia questo legame. Ne ricordiamo uno.

“Questa relazione molto personale si è espressa anche nella visita a sorpresa del Papa nel mio ufficio presso la Pontificia Commissione per l’America Latina, che ha sede all’inizio di via della Conciliazione. Ho potuto ricostruire quanto accaduto. Papa Francesco era andato alla clinica medica vaticana per farsi curare dal dentista e, all’uscita, ha detto al suo assistente: ‘Andiamo a salutare il dott. Carriquiry’.

(…)

Essere chiamati per nome dal Papa è sentire sulla propria pelle la carezza della Chiesa, la carezza di Gesù. Il Testimone. Mezzo secolo nelle stanze vaticane, il volume di Guzmán Carriquiry da poco in libreria, è una miniera d’informazione e, insieme, il documento di affetto ai papi che l’autore ha servito con profonda fedeltà.

 

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-guzman-carriquiry-50-anni-nelle-stanze-vaticane-un-laico-per-5-papi/2875277/#:~:text=Un%20rapporto%20cos%C3%AC,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

sabato 23 agosto 2025

Messaggio di Papa Leone al Meeting di Rimini 2025



 Messaggio del Santo Padre Dal Vaticano, 11 agosto 2025

 A Sua Eccellenza Reverendissima Mons. Nicolò Anselmi Vescovo di Rimini Il tema del 46°Meeting per l’amicizia fra i popoli, che si svolgerà a Rimini nei prossimi giorni, è un invito alla speranza: «Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi».

 Il Santo Padre Leone XIV desidera far giungere il suo saluto agli organizzatori, ai volontari e a tutti i partecipanti, con l’augurio di riconoscere nella gioia che la pietra scartata dai costruttori è stata posta come «pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso» (cfr1Pt2,6). La speranza, infatti, non delude (cfrRm5,5). I deserti sono in genere luoghi scartati e ritenuti inadatti alla vita. Eppure, là dove sembra che nulla possa nascere, la Sacra Scrittura continuamente ritorna a narrare i passaggi di Dio. Nel deserto, anzitutto, nasce il suo popolo. È infatti soltanto in cammino fra le sue asperità che matura la scelta della libertà. Il Dio biblico – che osserva, ascolta, conosce le sofferenze dei suoi figli e scende a liberarli (cfrEs3,7-8) – trasforma il deserto in un luogo di amore e di decisioni, lo fa fiorire come un giardino di speranza. I profeti lo ricordano come scenario di un fidanzamento, al quale ritornare ogni volta che il cuore si intiepidisce, per ricominciare dalla fedeltà di Dio (cfrOs2,16). Monache e monaci, da millenni, abitano il deserto a nome di tutti noi, in rappresentanza dell’intera umanità, presso il Signore del silenzio e della vita. Il Santo Padre ha apprezzato che una delle mostre caratterizzanti ilMeetingdi quest’anno sia dedicata alla testimonianza dei martiri di Algeria. In essi risplende la vocazione della Chiesa ad abitare il deserto in profonda comunione con l’intera umanità, superando i muri di diffidenza che contrappongono le religioni e le culture, nell’imitazione integrale del movimento di incarnazione e di donazione del Figlio di Dio. È questa via di presenza e di semplicità, di conoscenza e di “dialogo della vita” la vera strada della missione. Non un’auto-esibizione, nella contrapposizione delle identità, ma il dono di sé fino al martirio di chi adora giorno e notte, nella gioia e fra le tribolazioni, Gesù solo come Signore. Non mancheranno, come è consuetudine, dialoghi tra cattolici di diverse sensibilità e con credenti di altre confessioni e non credenti. Sono importanti esercizi di ascolto, che preparano i “mattoni nuovi” con cui costruire quel futuro che già Dio ha in serbo per tutti, ma si dischiude solo accogliendoci l’un altro. Non possiamo più permetterci di resistere al Regno di Dio, che è un Regno di pace. E là dove i responsabili delle Istituzioni statali e internazionali sembrano non riuscire a far prevalere il diritto, la mediazione e il dialogo, le comunità religiose e la società civile devono osare la profezia. Significa lasciarsi sospingere nel deserto e vedere fin d’ora ciò che può nascere dalle macerie e da tanto, troppo dolore innocente. Papa Leone XIV ha raccomandato ai Vescovi italiani di «promuovere percorsi di educazione alla nonviolenza, iniziative di mediazione nei conflitti locali, progetti di accoglienza che trasformino la paura dell’altro in opportunità di incontro». E ancora ci chiede: «Ogni comunità diventi una “casa della pace”, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono. La pace non è un’utopia spirituale: è una via umile, fatta di gesti quotidiani, che intreccia pazienza e coraggio, ascolto e azione. E che chiede oggi, più che mai, la nostra presenza vigile e generativa» (Discorso ai Vescovi della Conferenza Episcopale Italiana, 17 giugno 2025). Il Santo Padre, dunque, incoraggia a dare nome e forma al nuovo, perché fede, speranza e carità si traducano in una grande conversione culturale. L’amato Papa Francesco ci ha insegnato che «l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica» (Evangelii gaudium, 198). Dio, infatti, ha scelto gli umili, i piccoli, i senza potere e, dal grembo della Vergine Maria, si è fatto uno di loro, per scrivere nella nostra storia la sua storia. Autentico realismo è, allora, quello che include chi «ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti» (Fratelli tutti, 215). Senza le vittime della storia, senza gli affamati e gli assetati di giustizia, senza gli operatori di pace, senza le vedove e gli orfani, senza i giovani e gli anziani, senza i migranti e i rifugiati, senza il grido di tutta la creazione non avremo mattoni nuovi. Continueremo a inseguire il sogno delirante di Babele, illudendoci che toccare il cielo e farsi un nome sia il solo modo umano di abitare la terra (cfrGen11,1-9). Dal principio, invece, negare le voci altrui e rinunciare a comprendersi sono esperienze fallimentari e disumanizzanti. Ad esse va opposta la pazienza dell’incontro con un Mistero sempre altro, di cui è segno la differenza di ciascuno. Disarmata e disarmante, la presenza di cristiani nelle società contemporanee deve tradurre con competenza e immaginazione il Vangelo del Regno in forme di sviluppo alternative alle vie di crescita senza equità e sostenibilità. Per servire il Dio vivente va abbandonata l’idolatria del profitto che ha pesantemente compromesso la giustizia, la libertà di incontro e di scambio, la partecipazione di tutti al bene comune e infine la pace. Una fede che si estranei dalla desertificazione del mondo o che, indirettamente, contribuisca a tollerarla, non sarebbe più sequela di Gesù Cristo. La rivoluzione digitale in corso rischia di accentuare discriminazioni e conflitti: va dunque abitata con la creatività di chi, obbedendo allo Spirito Santo, non è più schiavo, ma figlio. Allora il deserto diventa un giardino e la “città di Dio”, preannunciata dai santi, trasfigura i nostri luoghi desolati. Papa Leone invoca l’intercessione della Beata Vergine Maria, Stella del mattino, affinché sostenga l’impegno di Bollettino N. 0580 - 21.08.2025 2 ciascuno in comunione con i Pastori e le comunità ecclesiali in cui è inserito: «In sinergia con tutte le altre membra del Corpo di Cristo agiremo, allora, in armoniosa sintonia. Le sfide che l’umanità ha di fronte saranno meno spaventose, il futuro sarà meno buio, il discernimento meno difficile. Se insieme obbediremo allo Spirito Santo!» (Omelia nella Veglia di Pentecoste con i Movimenti, le Associazioni e le Nuove Comunità, 7 giugno 2025).

Mentre di cuore unisco a quelli del Santo Padre anche i miei personali auguri, mi valgo della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio di Vostra Eccellenza Reverendissima 

UOMINI DI DIO/ Al Meeting di Rimini il film sui monaci di Tibhirine, martiri per amore


 

UOMINI DI DIO/ Al Meeting di Rimini il film sui monaci di Tibhirine, martiri per amore

Vincenzo Sansonetti Pubblicato 23 Agosto 2025

 

Oggi al Meeting di Rimini (alle 21:00 in Sala Neri) verrà proiettato il film "Uomini di Dio" che racconta una storia vera, accaduta nel 1996

Ha vinto nel 2010 il Grand Prix Speciale della Giuria del 63esimo Festival di Cannes, e a suo tempo riscosso un successo inaspettato in Francia, il film Uomini di Dio, di Xavier Beauvois, che ha confezionato un’opera di profonda religiosità, affascinante e commovente, anche se lui si dichiara non credente.

Viene proposto al Meeting di Rimini di quest’anno, dal titolo Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi, in un contesto in cui si sottolinea l’urgenza di una testimonianza coraggiosa, in un mondo svuotato di senso e di amore.

In effetti, la storia vera dei monaci di Thiberine mostra che sono stati chiamati due volte: la prima quando hanno rinunciato a tutto, la propria famiglia, il proprio Paese, la donna e i figli che avrebbero potuto avere, per vivere in un monastero nell’Atlante algerino; la seconda quando hanno deciso di restare insieme con la popolazione musulmana, che hanno sempre amato e aiutato, non abbandonandola nei momenti tragici delle incursioni terroristiche del Gruppo islamico armato. A costo di morire decapitati, come accadde nel maggio del 1996 a sette di loro.

Il titolo italiano della pellicola, Uomini di Dio, non rende ragione pienamente del vero intento del regista francese: “In una società egoista come la nostra è raro trovare persone che si interessano agli altri… Persone che costruiscono una chiesa cristiana tra i musulmani e si occupano di loro”.  (…)

Proprio in questa prospettiva si comprendono le prime immagini che introducono i protagonisti nella loro quotidianità di vita. Ritmata dal suono delle campane, è fatta di preghiera, di studio (sulla scrivania del priore Christian si trovano sia i Fioretti di san Francesco che una copia del Corano), di lavoro nell’orto o nella produzione di miele, di servizi necessari in cucina o in lavanderia e di tanta sollecitudine nei confronti della gente del villaggio.

Qui spicca la bellissima figura di frère Luc, anziano medico che cura le ferite del corpo e dell’anima delle persone più semplici, donne e bambini, che a lui si rivolgono ogni giorno. Una ragazza gli chiede persino consiglio per capire come ci si accorge di essere innamorati, proprio lei che proviene da un contesto familiare in cui sono i padri a decidere chi devono sposare le loro figlie. E lui con serena tranquillità e senza alcun imbarazzo racconta alla giovane di essersi innamorato varie volte nella sua vita, ma di aver però trovato un amore ancor più grande, a cui ha deciso di rispondere.

(…)

Dopo che una ragazza è stata pugnalata su un pullman perché non indossava il velo e vengono uccisi perfino degli imam, la stessa popolazione del villaggio è in allarme, soprattutto quando addirittura vengono barbaramente assassinati degli operai croati che lavoravano in un cantiere. Anche i monaci a questo punto si sentono in pericolo e forse vorrebbero accettare la protezione militare offerta dal prefetto. Ma il priore, senza neppure consultarli, rifiuta con decisione una proposta che snaturerebbe la scelta di pace e di amore che hanno compiuto.

Emerge qui tutta la fragilità umana dei religiosi e le loro comprensibili paure. Quasi contestano il priore che non li ha interpellati. Quando ci sarà un’irruzione dei terroristi nel monastero, la notte di Natale, per chiedere medicine e l’aiuto del medico, ammireranno però la risposta ferma di Padre Christian. Non ammette la presenza delle armi nella casa di Dio e riesce a fermare la violenza dei guerriglieri, recitando anche parole del Corano che invitano alla tolleranza e alla pace. “Niente esiste salvo l’amore… salvo l’amore che si manifesta”, canteranno poi tutti insieme nella celebrazione del Natale che avviene proprio quella notte.

La coscienza del pericolo incombente sul monastero trasforma lentamente il cuore dei confratelli, che continuano nelle loro attività quotidiane. Dapprima incerti sull’opportunità di restare, scelgono di attendere e di pregare intensamente, prima di prendere una decisione. Addirittura il prefetto, vista la gravità della situazione, chiede con durezza al priore di riportare i suoi monaci in Francia. Ma la gente del luogo considera il monastero la sua protezione, malgrado la titubanza di qualche religioso: “Siamo come gli uccelli su un ramo, non sappiamo se dobbiamo andarcene”. Il capo del villaggio però ribatte: “Gli uccelli siamo noi, il ramo siete voi. Se ve ne andate, dove ci poseremo?”.

(…)

C’è una commovente ultima cena con il vino portato da Luc, da condividere con gioia, ma anche con la consapevolezza e il tremore che traspare dai volti segnati dal dramma che stanno vivendo e dallo sguardo intenso di chi attende il proprio destino con fede incrollabile. La notte in cui i terroristi irrompono nel monastero per portare via sette degli otto monaci, i confratelli non oppongono resistenza.

Mentre scompaiono nella nebbia, camminando faticosamente sulla neve, si ascoltano le parole vertiginose del priore Christian, il suo testamento spirituale. Il suo desiderio finale è immergere lo sguardo in quello del Padre, per contemplare con Lui i suoi figli dell’Islam così come tutti i fratelli. Perché siamo tutti figli dello stesso Padre, nella diversità delle religioni e degli uomini, come ci ricorda il titolo originale del film.

(…)

Ai martiri d’Algeria (i sette monaci più altri 12 religiosi uccisi dai terroristi islamici tra il 1994 e il 1996) sono dedicati l’incontro Vite donate. L’eredità viva dei martiri d’Algeria (sabato 23 agosto alle 12, Auditorium Isybank D3) e la mostra Chiamati due volte. I martiri d’Algeria (Piazza A7).

 

https://www.ilsussidiario.net/news/uomini-di-dio-al-meeting-di-rimini-il-film-sui-monaci-di-tibhirine-martiri-per-amore/2872868/#:~:text=CINEMA%20E%20TV-,UOMINI%20DI%20DIO/%20Al%20Meeting%20di%20Rimini%20il%20film%20sui%20monaci,SLIMELLA%20FIT,-La%20prostatite%20guarir%C3%A0