sabato 5 aprile 2025

LETTURE/ Adrien Candiard, il bello di accettare la grazia e tornare alla semplicità della Salvezza

 


LETTURE/ Adrien Candiard, il bello di accettare la grazia e tornare alla semplicità della Salvezza

L'ultimo, agile ma denso lavoro del domenicano Adrien Candiard, "La grazia è un incontro", è un ritorno all'essenzialità della fede. E una proposta

Gianni Varani Pubblicato 5 Aprile 2025

 

Padre Adrien Candiard, domenicano francese di 43 anni, è già da qualche anno un’autorevole figura di riferimento in molti ambiti del mondo cattolico e anche fuori da esso. Lo è sia per i contenuti che per la testimonianza che offre. E che viva da una dozzina di anni al Cairo, nel cuore di una capitale dell’islam, accresce l’interesse per le riflessioni che condivide in molti campi, non solo teologici. C’è tuttavia un aspetto non secondario ed evidentemente voluto, delle sue intense e diffuse attività editoriali, che val la pena portare ad esempio.  Ed è l’efficace “sinteticità” di molti suoi libri.

La maggior parte delle sue non poche pubblicazioni oscillano tra le 70 e le 140 pagine. E lo stile che lo caratterizza è brillante, stimolante e non disdegna l’intelligente ironia. Il francese, sua lingua madre, riesce altrettanto bene nella traduzione italiana, lingua che Candiard maneggia con notevole padronanza, avendola studiata fin dalle medie. Una delle sue ultime fatiche, La grazia è un incontro (LEV, 2024; in francese il titolo è Sur la Montagne. L’aspérité et la grâce), arriva a ”sole” 109 pagine. Si leggono con assoluta scioltezza e accessibilità. Ciò non significa affatto che i contenuti siano “leggeri”.

È stato chiesto a Candiard – che ogni tanto partecipa a incontri molto affollati in Italia, Francia e in altri Paesi – perché di questa sua “cifra” comunicativa. Scherzando ha sostenuto che l’editore non ne sarebbe in realtà felicissimo, perché con così poche pagine non farebbe abbastanza profitto. Ma la risposta di merito è un’altra: i lettori e gli ascoltatori in genere faticano a trattenere e rammentare più di un argomento fondamentale. Occorre proporre un solo tema centrale, articolarlo e renderlo comprensibile e tale da poter essere meditato e ricordato. Candiard non lo dice, ma verrebbe da imporre questa filosofia comunicativa sintetica come standard per le omelie e i saggi di tanti pulpiti cattolici.

Il citato La grazia è un incontro è, da questo punto di vista, un esempio perfetto. Il filo conduttore del testo è già ben sintetizzato nel sottotitolo: Se Dio ci ama gratis, perché i comandamenti?. La domanda ha ulteriori sviluppi, in varie parabole ed episodi, così sintetizzabili: Cristo sembra di manica molta larga col perdono, basti pensare all’adultera, al pubblicano o al figliol prodigo, ma nel contempo sembra alzare enormemente l’asticella della “pretesa morale”, vedi la richiesta al giovane ricco di lasciare tutti i beni. Oppure l’invito a porgere l’altra guancia (tema che stimola diverse simpatiche riflessioni dell’autore), la richiesta di essere perfetti “come il Padre”, il rischio adulterio anche solo col pensiero.

A prima vista, è un’asticella morale fuori portata per noi umani. Come conciliare questi diversi messaggi, apparentemente antitetici, del Cristo? Ovvero una salvezza offerta gratis ma poi con un prezzo apparentemente smisurato da pagare?

La lettura di Candiard, ricca di aneddoti e spiegazioni insolite, è antimoralista, ma nel contempo non avvalla un’indolenza fatalista. La proposta cristiana non è una condizione morale apriori, “sine qua non”, ma una direzione ed una tensione alla quale tendere, grazie a un nuovo e straordinario compagno di viaggio. Si diventa figli, con Lui, grazie a Lui. Del resto lo stesso Candiard confessa, in un passaggio del libretto, che anziché padre, preferirebbe essere chiamato fratello o figlio. Tuttavia, essendo anche priore di una comunità monastica, alla fin fine ha dovuto ben accettare l’appellativo di padre che gli compete.

La “porta stretta” dell’esempio evangelico, attraverso la quale siamo invitati a passare, non è il segno di una particolare “rigorosa selettività del portinaio”, ma è una porta su misura per ciascuno. Ad ognuno la sua porta stretta, sembra dirci l’autore. Il suo significato è portarci a liberarci di ciò che è superfluo, inutile, dannoso o ingombrante verso la nostra realizzazione. Ovvero la salvezza, per usare il linguaggio evangelico.

Tra i molti esempi usati da Candiard, uno probabilmente ha colpito molti ascoltatori e lettori, perché verosimilmente ignorato dai più. Ed è quello del pranzo di nozze, dove il padrone – deluso dal rifiuto degli invitati prescelti – va a raccattare per strada pezzenti, barboni, passanti casuali. Perché dunque ne caccia via con assoluta severità uno che non risulta adeguatamente vestito per le nozze? Non era un poveraccio come tutti gli invitati dell’ultima ora?

La tradizione del tempo, ha spiegato, è che l’abito festivo per le nozze era offerto da chi invitava. Non c’era bisogno di presentarsi con alcun particolare “smoking” per l’occasione. Quindi l’ospite intruso poi cacciato – questo il senso della vicenda così rispiegata – non aveva accolto e accettato il dono, cioè la veste, la grazia della quale sono oggetto i credenti, gli invitati a una festa esistenziale straordinaria. La salvezza è accogliere, accettare la grazia, un tema teologico – spiega Candiard – oggi un po’ dimenticato, pur avendo goduto nei secoli una vasta fortuna. La santità, come via per la felicità, inizia dunque con una sorta di passività.

 

Questa narrazione essenziale sembra derivare anche da altre considerazioni di vasta portata su un cristianesimo vissuto in un contesto del tutto post-cristiano. Tema oggetto non di questo ma di altri testi di Candiard, che deve quindi essersi da tempo convinto della profonda necessità di tornare ad una narrazione basilare, essenziale, sui fondamenti della fede cristiana e sulla sua dinamica di incontro con un annuncio umanamente straordinario. Del resto, la sua stessa personale vocazione da adulto è maturata in un contesto post-cattolico, in una società altamente secolarizzata, oramai diffusamente ignara anche dei contenuti cristiani più elementari.

(…) https://www.ilsussidiario.net/news/letture-adrien-candiard-il-bello-di-accettare-la-grazia-e-tornare-alla-semplicita-della-salvezza/2819671/#:~:text=CHIESA-,LETTURE/%20Adrien%20Candiard%2C%20il%20bello%20di%20accettare%20la%20grazia%20e%20tornare,altamente%20secolarizzata%2C%20oramai%20diffusamente%20ignara%20anche%20dei%20contenuti%20cristiani%20pi%C3%B9%20elementari.,-Ci%C3%B2%20non%20porta


Road to Meeting aprile 2025 | Adrien Candiard

venerdì 4 aprile 2025

L’occasione che viene dal disagio (Cesare Maria Cornaggia)

 


L’occasione che viene dal disagio

La scorsa settimana a Seveso c'è stato un interessante dibattito sui temi del della crisi dell'io nella nostra società

Cesare Maria Cornaggia Pubblicato 4 Aprile 2025

 

Le opere sociali e i professionisti che cercano di rispondere ai disagi e alle malattie delle persone per essere efficaci non possono semplicemente muoversi in nome di una capacità pratica e di un volontarismo generico. Occorre un’adeguata concezione dell’uomo, La discussione avvenuta a Seveso nel fine settimana va in questa direzione.

Nel corso dell’ultimo fine settimana si sono riuniti a Seveso, presso il Centro Pastorale Ambrosiano, studiosi e professionisti provenienti da estrazioni culturali differenti (filosofi, teologi, psicologi, psichiatri, educatori della scuola e del sociale) per riflettere assieme sui temi del della crisi dell’io nella nostra società e del conseguente disagio psichico, sociale, individuale, educativo, psicologico che ne deriva. Quali domande e quali suggerimenti operativi provoca questa situazione in generale e in un’ottica multidisciplinare?

La prima constatazione è stata che il cuore della questione non è il disagio psicologico, o educativo e neppure sociale. In altre parole il disagio psichico è stato considerato non soltanto nell’ottica di un problema immediatamente da risolvere, ma come fornitore di domanda e occasione di approfondire la stessa dimensione ontologica dell’uomo. Infatti, ciò che sottostà e origina questi problemi e produce patologie è il fatto che oggi la cosa che è più negata, ancor più della realtà, è la verità, come afferma Byung-chul Hanma.

Ne è testimonianza il dibattito sul nichilismo attuale: non basta analizzare come sia fonte di perdita e di buio della persona e delle istituzioni, ma occorre chiedersi in che misura possa essere occasione di presa di coscienza e quindi occasione per una ripresa.

Non a caso sin dall’inizio è stato messo in luce come la crisi possa fare grande l’uomo, perché essa in sé può servire soltanto a farlo crescere, non a farlo morire, e proprio per questo la crisi attuale va vista con uno sguardo di occasione e di speranza. Questo perché vi è la tentazione che il momento di crisi, come scritto da Victor Frankl riprendendo la sua esperienza nei lager, venga vista come la fine, non come il fine, cioè un punto di limite che può essere luogo di incontro.

Un tale approccio genera una sintonia profonda tra i “pensatori” e chi opera in realtà sociali attive nelle dipendenze, nella lotta al disagio psichico e di comunità educative o sociali, come a confermare questa possibilità e necessità di dialogo. Dialogo che è stato colto con lo stupore di tutti, soprattutto dai giovani presenti, evidentemente perché desiderosi di un sapere che andasse oltre le accademie.

Non a caso, in una serata dedicata al mettere in scena proprio tutto questo, i giovani della redazione del Teatro del Lunedì, rassegna del Teatro Oscar di Milano, hanno mostrato tutto il loro entusiasmo, traducendo in opera teatrale i diversi discorsi e mostrando come tanti giovani oggi sono portatori di una grande speranza e di una grande capacità di attenzione e di intrapresa. In conclusione si è convenuto che la crisi dell’io, e la mancanza, il malessere, il disagio che tante volte vediamo attorno a noi devono essere primariamente intesi come espressione di un’ontologia più che di una patologia.

Ne deriva che, nelle diverse discipline e in generale, la risposta necessaria alla crisi deve fondare la propria radice non su possibili tecniche e strategie, ma sulla ripresa di un significato profondo di quel che si fa. Ognuno deve mettere in gioco la propria posizione umana dinanzi al disagio e innervarne le professionalità e le tecniche attraverso le quali articola le risposte.

(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/4/4/loccasione-che-viene-dal-disagio/2819508/#:~:text=Nel%20corso%20dell%E2%80%99ultimo,in%20un%E2%80%99ottica%20multidisciplinare%3F


giovedì 3 aprile 2025

“600 giorni nel campo KZ Mittelbau-Dora” di Lucia Araldi racconta la storia degli internati militari italiani (Imi) nei campi nazisti


 

STORIA/ Gli Internati militari italiani in Germania 1943-45, i patrioti della sofferenza e del perdono

“600 giorni nel campo KZ Mittelbau-Dora” di Lucia Araldi racconta la storia degli internati militari italiani (Imi) nei campi nazisti

Antonio Besana Pubblicato 3 Aprile 2025

Civili tedeschi di Nordhausen seppelliscono in una fossa comune i prigionieri trovati morti nel campo. Aprile 1945 (foto da Wikipedia, credit USHMM)

 

L’8 settembre 1943 l’Italia firma l’armistizio con gli Alleati. I militari appartenenti al Regio Esercito, alla Regia Marina e alla Regia Aeronautica sono lasciati senza precise direttive. Lo stesso giorno inizia la Resistenza: il primo caduto italiano è il generale Ferrante Gonzaga del Vodice (medaglia d’oro al valor militare), ucciso dai tedeschi nei pressi di Salerno.

Il giorno successivo, il 9 settembre 1943, i tedeschi disarmano e catturano circa un milione di militari italiani. Di questi, quasi 200mila riescono a fuggire e ad evitare la cattura. Molti di loro andranno ad unirsi alle forze dei partigiani. Gli altri, prigionieri dei tedeschi, sono trasferiti con viaggi interminabili in vagoni bestiame piombati nei campi per prigionieri di guerra della Wehrmacht.

I soldati vengono separati dagli ufficiali, e divisi nei lager sparsi in 21 distretti militari in Germania e nei territori ancora occupati. Dopo poco più di un mese, i nazisti offrono agli internati la libertà in cambio dell’arruolamento nelle SS o nelle forze di Salò. L’offerta, ripetuta più volte nei mesi successivi, è allettante, soprattutto tra i più giovani.

Sono circa 100mila quelli che accettano di continuare a combattere al fianco dei tedeschi, arruolandosi nelle fila della Repubblica Sociale Italiana o nei reparti SS. I restanti 700mila finiscono nei lager tedeschi in Germania e Polonia, dove per ordine di Hitler perdono il loro status di prigionieri di guerra e diventano IMI, “Internati militari italiani”, privi di ogni diritto e tutela, in balia dei tedeschi che li considerano soltanto traditori.

 

Lucia Araldi, insegnante e dirigente scolastica, nel suo libro 600 giorni nel campo KZ Mittelbau-Dora. L’esperienza vissuta da Gianni Araldi internato militare e uomo di pace (Edizioni Archivio Storia, Mattioli 1885, 2024) narra la storia del padre Gianni, internato militare italiano in Germania. Contrariamente a tanti altri IMI, che al ritorno a casa dopo la prigionia hanno spesso evitato di raccontare la loro storia, Gianni ha sempre accettato gli inviti della figlia per raccontare ai ragazzi delle scuole la sua terribile esperienza.

 

L’8 settembre 1943 Gianni è rientrato dalla Jugoslavia e si trova alla Compagnia deposito dell’11esimo Reggimento Genio, caserma Spaccamela, a Udine. Il 9 settembre i tedeschi entrano nella caserma e disarmano gli italiani. Il 14 settembre l’intero reparto è caricato su carri bestiame e trasferito in Germania.

Con l’avanzata degli Alleati la Germania è costretta a intensificare lo sforzo bellico e a decentrare gli impianti di produzione in località isolate. I militari di truppa italiani prigionieri vengono quindi inseriti nell’apparato produttivo del Reich, sfruttati nelle fattorie, nelle fabbriche, in miniera e in altri tipi di attività produttive come operai, braccianti, manovali. Sono impiegati nello scavo delle trincee, nella rimozione delle macerie, nella ricostruzione dei nodi ferroviari bombardati. Trattati come schiavi, sono sottoposti turni di lavoro massacranti, malnutriti, falcidiati dalle malattie, violenza, minaccia delle armi e al lavoro forzato. Oltre 40mila IMI internati nei diversi campi di lavoro perdono la vita a causa delle dure condizioni di prigionia a cui sono sottoposti.

Anche Gianni, avendo rifiutato di combattere con la Repubblica Sociale, viene inviato al campo di prigionia KZ Mittlebau-Dora in Turingia, a circa cinque chilometri da Nordhausen. Si tratta di un sottocampo di Buchenwald, aperto il 28 agosto 1943 alle pendici del monte Kohnstain. Questo campo ha una caratteristica peculiare: nei tunnel sotterranei, i prigionieri sono impiegati nella costruzione delle nuove armi segrete tedesche, i missili V1 e V2.

Sono gli stessi prigionieri a dover effettuare i lavori di ampliamento dei tunnel sotterranei. Per parecchi mesi gli internati prigionieri restano segregati nelle gallerie sotterranee, dormendo in letti a castello a cinque piani, in condizioni ambientali terribili. Solo nella primavera del 1944 viene costruito un campo di baracche all’esterno. Oltre 5mila moriranno di fame a causa di condizioni di lavoro micidiali, per i maltrattamenti, il freddo, la fame, la sete.

Nel campo non ci sono solo gli italiani: il 90 per cento degli internati è costituito da prigionieri provenienti dai Paesi occupati dai nazisti, principalmente russi, polacchi e francesi. Quando i prigionieri a causa degli stenti non sono più in grado di lavorare vengono semplicemente eliminati. Chi si rifiuta di lavorare, o si lamenta del trattamento inumano, viene accusato di sabotaggio o resistenza e fucilato. Le sue tracce cancellate per sempre nel forno crematorio del campo. Tra l’agosto 1943 e l’aprile 1945 le SS deportano a Mittelbau-Dora oltre 60mila prigionieri, di cui oltre un terzo non è sopravvissuto.

L’odissea di Gianni e dei suoi compagni si protrae per due anni, fino al termine della Seconda guerra mondiale. Dalla quarta di copertina del volume: “Gianni visse il lavoro forzato, la fame, la tortura, vide la morte di tanti compagni, ma sperimentò anche la solidarietà fra commilitoni, l’amicizia fino al sacrificio personale per il bene dell’altro, la speranza comune di uscirne vivi”.

Per molto tempo questi uomini non sono neanche stati considerati dalla storiografia, attribuendo ai soli partigiani la “patente” di partecipazione alla Resistenza. Il loro ruolo, insieme a quello dei militari italiani che hanno combattuto nel Corpo Italiano di Liberazione nel 1944-45, verrà rivalutato soltanto negli anni 80 del XX secolo, quando la storiografia riconoscerà che anche loro, gli internati militari, rifiutando qualsiasi forma di collaborazione con la Repubblica Sociale Italiana e con il Terzo Reich, pur senza l’uso delle armi, avevano scelto per una forma di resistenza.

…..https://www.ilsussidiario.net/news/storia-gli-internati-militari-italiani-in-germania-1943-45-i-patrioti-della-sofferenza-e-del-perdono/2819164/#:~:text=e%20del%20perdono-,STORIA,importante%20della%20nostra%20storia%2C%20troppo%20spesso%20volutamente%20dimenticato%20per%20motivi%20ideologici.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

 


sabato 29 marzo 2025

Come l’idolatria dello Stato tedesco portò alla rottura tra Pio XI e Hitler


 

STORIA/ Come l’idolatria dello Stato tedesco portò alla rottura tra Pio XI e Hitler

L'enciclica di PioXI "Mit brennender Sorge" sancì la rottura definitiva tra Chiesa Cattolica e regime nazista. Lo Stato si era fatto idolo persecutore

Silvana Rapposelli Pubblicato 29 Marzo 2025

 

La vicenda di Franz Jägerstätter, “il mite eroe contadino che disse no a Hitler” – la definizione è di Claudio Magris – condannato a morte nel 1943, su cui queste pagine sono tornate più volte, diviene ancor più comprensibile alla luce dei rapporti tra il Terzo Reich e la Chiesa cattolica.

Le idee cui Hitler si ispirerà una volta al potere sono delineate già nel Mein Kampf, che egli scrive durante la prigionia seguita al fallimento del putsch di Monaco del 1923. Come ben documenta Francesco Agnoli nel suo libro Novecento: il secolo senza croce (Sugarco, 2011), notevole è stata l’influenza esercitata sul futuro dittatore dal nazionalismo pangermanista, diffuso nel mondo tedesco ma anche in quello austriaco. La teoria della superiorità della razza ariana con le sue nefaste conseguenze (antisemitismo, eutanasia, ecc.) rappresenta – come è ben noto – il concetto base di quella miscela esplosiva che è l’ideologia hitleriana.

Vi è poi una forte avversione alla religione cattolica, accusata di intolleranza, di opposizione alla scienza e alla ragione, in quanto si nutrirebbe di superstizioni, e quindi destinata a morire presto di morte naturale, un destino che comunque vale la pena accelerare.

Nella nuova Germania unificata, centralizzata (fin dai primi mesi ogni autonomia territoriale viene eliminata) e arianizzata, in breve si assiste alla nazificazione della cultura, al rigido controllo della stampa, della radio e del cinema, inediti strumenti di propaganda per l’edificazione di uno Stato totalitario. Particolare cura il Reich dedica a modellare le nuove generazioni secondo i suoi dettami, attraverso un’educazione controllata fin nei minimi particolari.

Le scuole, dalle elementari fino all’università, vengono rapidamente nazificate: i libri di testo riscritti, i programmi di studio cambiati. La storia subisce una falsificazione ridicola, così come le scienze naturali che diventano “scienze razziali”. Il fatto è che per Hitler hanno importanza non tanto le scuole, da lui stesso poco frequentate, quanto le organizzazioni della Gioventù hitleriana.

I cristiani della più numerosa confessione cristiana presente in Germania, quella protestante, che raccoglieva i due terzi della popolazione, presto avrebbero sperimentato di persona il pugno di ferro di Hitler, sebbene la maggior parte dei pastori protestanti appoggiassero i nazionalisti e perfino i nazisti. Alla fine del 1935 vengono tratti in arresto settecento pastori della Chiesa confessionale, altri 807 pastori e personalità della stessa Chiesa nel 1937 e diverse centinaia nei due anni successivi. Nel 1938 il vescovo di Hannover, August Marahrens, ordina a tutti i pastori della sua diocesi di prestare giuramento di fedeltà al Fuhrer, cosa che sarà fatta dalla maggior parte di loro.

Per quanto riguarda i cattolici, il Concordato firmato con la Santa Sede nel luglio 1933, ossia nei primi mesi di avvio della macchina nazista, non era stato che una mossa politica per avere il favore della Chiesa. In realtà, eliminato il partito dei cattolici, il Centro, soppressi i conventi e imprigionati sacerdoti, suore e laici con le accuse più diverse o anche senza, ben presto si apre per la Chiesa cattolica un periodo di gravi difficoltà, di vera e propria persecuzione. Continuamente sorvegliati sono la predicazione e l’insegnamento religioso, come pure i pochi giornali cattolici non soppressi, costretti a pubblicare articoli tendenziosi.

Nonostante la rassicurazione contenuta nel Concordato circa la continuazione indisturbata dell’associazione della gioventù cattolica, pochi giorni dopo la sua ratifica si compiono i primi atti per sciogliere la Lega dei giovani cattolici. Nel 1936 poi Hitler dichiara fuori legge tutte le organizzazioni giovanili non naziste.

Dai sei ai diciotto anni, età della coscrizione al lavoro obbligatorio o nell’esercito, i giovani sono organizzati nella Gioventù hitleriana. In essa viene data una formazione sistematica basata sullo sport, sulla vita all’aria aperta, nello spirito dell’ideologia nazista e per i maschi come preparazione all’arte militare. A dieci anni, superato uno speciale esame di atletica, campeggio e storia, i bambini devono prestare un giuramento “al salvatore del nostro Paese, Adolf Hitler” che si concludeva con la formula “Sono disposto e pronto a dare la mia vita per lui” (citato in William Shirer, Hitler e il Terzo Reich, Vol. I, pag. 396).

L’addestramento delle ragazze è molto simile. A 18 anni molte vanno a lavorare per un anno nelle aziende agricole e le ragazze di campagna si spostano in città, sempre con l’obiettivo di facilitare il loro coinvolgimento e il loro contributo alla vita del Paese. Vivendo in promiscuità, senza controlli, si verificano molti casi di gravidanze non previste, cosa che allarma i genitori ma che non costituisce un problema per i più convinti nazisti, in quanto il compito primario delle donne è dare figli al Reich.

Pio XI (Achille Ratti, nato a Desio nel 1857 e papa dal 1922 al 1939) negli ultimi anni della sua vita manifesta un acuto e crescente rifiuto dei totalitarismi. Si radicalizza la sua condanna per gli aspetti anticristiani e disumani del nazismo e del fascismo: le discriminazioni su base razziale, l’esasperazione dei nazionalismi, la persecuzione degli ebrei, diventano per l’anziano e malato pontefice assolutamente inaccettabili.

Si arriva così alla stesura e alla pubblicazione dell’enciclica Mit brennender Sorge (Con bruciante preoccupazione) il 14 marzo 1937, pubblicata in tedesco per abbreviare i tempi della sua diffusione in terra germanica. L’enciclica sancisce la rottura tra il Papa e Hitler. Il nocciolo della lettera è volto a contrastare il carattere “religioso”, idolatrico del nazismo.

La reazione tedesca sarà durissima, Hitler è furioso. Si verificano diversi episodi di ritorsioni non solo nei confronti di singoli: le tipografie che hanno stampato il documento vengono chiuse, sono perquisiti gli archivi diocesani per scovare episodi di immoralità di cui accusare religiosi e preti.

L’enciclica si articola in undici punti in cui si documenta l’ansia e l’afflizione del pontefice perché “molti abbandonano il cammino della verità”. Innanzitutto egli lamenta il fatto che il Concordato, voluto a suo tempo dal governo del Reich, non abbia impedito che l’avversione profonda contro Cristo e la Chiesa si esprimesse in lotta aperta contro le scuole confessionali e l’educazione cattolica.

Sempre riferendosi alle Sacre Scritture (le cui citazioni sono ben 37), il Papa raccomanda ai vescovi di vigilare che la fede in Dio rimanga pura e integra, contro quella indeterminatezza panteistica che identifica Dio con l’universo secondo la concezione precristiana dell’antico germanesimo. Si tratta in realtà di neopaganesimo, fatto di perniciosi errori e numerose bestemmie. Non è lecito porre accanto a Cristo, o – peggio ancora – sopra di Lui o contro di Lui un semplice mortale, fosse egli anche il più grande di tutti i tempi. In modo altrettanto stringente è necessaria la fede nella Chiesa, colonna e fondamento della verità. Parlare di una “chiesa tedesca nazionale” è rinnegare l’unica Chiesa.

Non basta però essere annoverati nella Chiesa, bisogna esserne membri vivi, dice il testo, e costituire così “esempio e guida al mondo profondamente infermo, che cerca sostegno e direzione”. Al credente non resta che la via dell’eroismo, anche a costo di gravi sacrifici. Coloro che pensano si possa impunemente separare la morale dalla religione spalancano le porte alle forze dissolvitrici, compiendo in realtà contro l’avvenire del popolo un attentato i cui tristi frutti peseranno sulle generazioni future.

Ulteriore caratteristica nefasta del tempo presente è il voler distaccare le fondamenta del diritto dalla vera fede in Dio. Al contrario, è imprescindibile il riconoscimento del diritto naturale che lo stesso Creatore ha impresso nel cuore umano: alla luce di questo devono essere valutate le leggi positive. Tra i diritti dati all’uomo da Dio per lo sviluppo del bene comune vi è il diritto essenziale dei genitori all’educazione dei figli. Leggi emanate nel recente passato che non ne tengono conto sono in contraddizione col diritto naturale, quindi immorali e non valide per la Chiesa.

La lettera si rivolge poi a quei giovani, che in un contesto inondato di contenuti avversi al cristianesimo e alla Chiesa, hanno sopportato vituperio, disprezzo e accuse a causa della loro fede. Ai giovani ricorda che la vera libertà è la libertà dei figli di Dio e che c’è un eroismo anche nella lotta morale; raccomanda di non dimenticare le grandi gesta e i molti santi che la Chiesa ha sempre prodotto. In concreto, per esempio, non è da trascurare il comandamento di santificare la domenica che lo Stato vuole dedicata a infiniti esercizi ginnici e sportivi.

Ai sacerdoti e ai religiosi viene inviato un particolare riconoscimento, specie a quelli che hanno sofferto il carcere e i campi di concentramento. Tutti loro sono esortati a “mostrare i retti sentieri” con la dottrina e con l’esempio, con la dedizione e con la pazienza. Il loro compito è servire la verità e confutare l’errore in tutte le sue forme.

(…)

https://www.ilsussidiario.net/news/storia-come-lidolatria-dello-stato-tedesco-porto-alla-rottura-tra-pio-xi-e-hitler/2817650/#:~:text=CHIESA-,STORIA/%20Come%20l%E2%80%99idolatria%20dello%20Stato%20tedesco%20port%C3%B2%20alla%20rottura%20tra%20Pio,il%20clero%20tedeschi%20che%20vi%20trovano%20autorevolmente%20indicate%20strada%20e%20direzione.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20

Pasqua 2025 - Comunione e Liberazione

mercoledì 26 marzo 2025

martedì 25 marzo 2025

GRATI A CRISTO: 50 ANNI DI SACERDOZIO DI DON CARRON

 



«Grati a Cristo»

Una messa al santuario della Madonna di Caravaggio nella Bergamasca per celebrare i cinquant'anni di sacerdozio di don Julián Carrón e il suo 75° compleanno

 

25.03.2025

Matteo Rigamonti

«Vi ringrazio tutti per essere venuti fin qua a ringraziare insieme l’Unico per cui vale la pena vivere; non abbiamo altro di più interessante da fare che testimoniarci a vicenda che cosa significa Cristo per la nostra vita». Con queste parole, prima di recitare l’Angelus, don Julián Carrón – dal 2005 al 2021 alla guida del movimento di Comunione e Liberazione come Presidente della Fraternità – ha salutato le persone che si sono riunite al Santuario di Santa Maria del Fonte a Caravaggio, nel pomeriggio di sabato 22 marzo, per la Messa celebrata in occasione del cinquantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale, ed è stato ricordato anche il recente compleanno (75 anni festeggiati il 25 febbraio).

 

La messa per i 50 anni di sacerdozio di don Julián Carrón a Caravaggio il 22 marzo 2025

 

Un migliaio le persone presenti, giunte principalmente dalla Lombardia e raccolte nel piazzale antistante la chiesa, per salutare il sacerdote spagnolo. «Grazia» è la parola con cui Carrón ha aperto l’omelia («spero che questo anniversario sia un’ulteriore occasione per renderci conto della grazia che noi tutti abbiamo ricevuto») e con cui l’ha conclusa: «La grazia immeritata che abbiamo ricevuto non ci è data soltanto per noi, ma per tutti», in un momento in cui «tante persone sono alla ricerca di un significato, di una speranza per la propria vita». L’unico che risponde, ha proseguito Carrón, è Gesù, che dice: «Io non sono venuto per i sani, ma per gli ammalati, per i bisognosi», per quelli che hanno «fame e sete». «Più Lo vediamo accadere», ha concluso Carrón, «più cresce la gratitudine, quella che oggi esprimiamo a Cristo».

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/carron-50-anniversario-

martedì 18 marzo 2025

DIFESA COMUNE, VIA MAESTRA PER COSTRUIRE UN'EUROPA POLITICA

 


LETTERA/ “Difesa comune, la via maestra per costruire l’Europa politica”

La difesa europea è una tappa obbligata per realizzare l'Europa dei fondatori. L’autore è stato presidente dell’assemblea parlamentare della Nato

Paolo Alli Pubblicato 18 Marzo 2025

 

Caro direttore,

non riesco proprio a iscrivermi al club di chi dice che “l’Europa deve svegliarsi”. Non ci riesco perché l’Europa siamo noi, non altri sui quali riversare – quando fa comodo – responsabilità e colpe.

Il club ora dice che non si può fare la difesa europea se non c’è una politica estera comune, ma che questa non può esserci perché non c’è unità politica. Questa Europa sarebbe uno strano animale a più teste, dalle braccia rattrappite, animato da spiriti individualisti e laicisti, che non può pensare di difendere confini comuni se prima non si dà una identità. Allora chiudiamola questa Europa, se è così è inutile.

Io penso, invece, che l’Europa siamo noi. Lo penso anche perché negli ultimi anni ho avuto la fortuna e la grazia di incontrare la figura di Alcide De Gasperi e poterne approfondire il pensiero e la testimonianza. De Gasperi credette incondizionatamente nell’Europa quando ancora ne esisteva solo un barlume. La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio era un progetto debolissimo, frutto della paura della guerra. De Gasperi, che con Schuman e Adenauer aveva una visione lungimirante e profetica, non si arrestò di fronte a questo.

Ai molti che mi chiedono cosa penserebbe se fosse vivo, rispondo che certamente sarebbe dispiaciuto che il suo progetto non si sia ancora completato, ma non potrebbe non apprezzare i molti passi avanti fatti. De Gasperi continuerebbe a credere nell’Europa, oggi come allora.

A partire dal tema della difesa comune: De Gasperi non diceva che per fare la CED sarebbero servite prima una unità politica o una visione comune di politica estera, anzi sosteneva che la difesa comune fosse la via maestra per costruire l’Europa politica. Infatti, se i popoli decidono di difendere i medesimi confini, significa che considerano quello che c’è all’interno come una cosa sola: la polis comune. Questo vale oggi come allora.

Il club al quale non mi iscrivo sostiene che in Europa non esiste per nulla una visione politica comune: il mio personale punto di vista è molto diverso, e si basa su almeno quattro esempi.

Il primo risale ormai a 23 anni fa. Ciò che ha sempre limitato il progetto europeo è stato il timore della “cessione di sovranità”. Ma come osserva acutamente Antonio Polito nel suo libro Il costruttore, De Gasperi non pensava a una cessione di sovranità, ma “… aveva capito che l’interesse nazionale si protegge meglio in un consesso di nazioni in cui la sovranità è condivisa, e per questo moltiplicata”.

L’euro è un esempio chiaro: i Paesi che vi hanno aderito hanno ceduto la propria sovranità monetaria, ma ne hanno ricevuto in cambio una sovranità molto rafforzata. Senza l’euro, soltanto il marco avrebbe forse potuto essere annoverato tra le valute di riserva, certamente non la lira, la dracma o la peseta.

Negli ultimi anni abbiamo, poi, avuto tre “sveglie”, quelle che gli americani chiamano wake-up calls: la pandemia, l’aggressione russa all’Ucraina e ora l’avvento al potere negli Stati Uniti dello strano trio Trump-Vance-Musk.

Alla pandemia, l’Unione Europea ha risposto facendo per la prima volta debito comune con il Next Generation Fund, del quale il nostro Paese ha abbondantemente beneficiato. Allora questo andava bene a tutti, anche se non ricordo grandi parole di approvazione per il coraggio di Ursula von der Leyen e delle vituperate istituzioni di Bruxelles.

Alla guerra russa l’UE ha risposto in modo unitario, non cedendo al ricatto del gas con il quale Putin contava di dividere l’Europa, anzi accettando di pagare un prezzo enorme in termini economici, perché il sostegno al popolo ucraino era più importante.

La terza sveglia è vista ora da molti (da alcuni persino con un certo sollievo) come quella che dovrebbe definitivamente distruggere il fragile progetto europeo. La risposta, per ora, è stata immediata: in un mondo ormai in guerra, e senza più la protezione americana, occorre che l’Europa si riarmi per ripristinare quella deterrenza che ha garantito ottant’anni di pace e che colpevolmente abbiamo lasciato cadere, fidandoci ingenuamente della buona fede di Mosca.

 

Dunque, scelte dove la politica ha prevalso.

È ovvio che il progetto europeo vada completato, a partire dall’eliminazione del principio di unanimità, perché in democrazia contano le maggioranze: ma la percezione che l’Europa sappia fare scelte politicamente impegnative, insieme alla sua potenza economica, la rende un soggetto che fa molto più paura di quanto noi possiamo immaginare. È questa la vera ragione per la quale i potenti del mondo vogliono distruggere l’Unione Europea, spartendosene le spoglie.

Andare avanti sul progetto di riarmo dell’Europa è fondamentale per fare un nuovo passo verso la completa unione politica, ed è giusto usare il termine riarmo perché siamo di fronte a interlocutori che non hanno mezze misure. De Gasperi, cattolico profondamente convinto e in odore di beatificazione, scriveva: “Le alleanze difensive, e soprattutto gli armamenti che ne sono la conseguenza, sono una dura necessità preliminare”. Forse anche molti cattolici dovrebbero rileggere oggi queste righe.

 

Anziché continuare a indebolire il modello europeo, spingendo l’opinione pubblica sempre più verso l’euro-scetticismo, dovremmo difenderlo, perché, pur con tutti i suoi limiti e con buona pace del vice-presidente americano Vance, esso poggia ancora su valori solidi.

(….)

https://www.ilsussidiario.net/news/lettera-difesa-comune-la-via-maestra-per-costruire-leuropa-politica/2813533/#:~:text=CRONACA-,LETTERA/%20%E2%80%9CDifesa%20comune%2C%20la%20via%20maestra%20per%20costruire%20l%E2%80%99Europa%20politica%E2%80%9D,Ma%20proprio%20per%20nulla.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94Ma proprio per nulla.


lunedì 17 marzo 2025

Una strada realistica per la pace

 


Caro direttore,

mi spinge a scriverle la drammaticità del momento storico nel quale ci troviamo a vivere. I conflitti armati aumentano in molte parti del mondo, fin dentro all’Europa, dando l’impressione che stiano crollando quei pilastri su cui poggia la convivenza civile, lo sviluppo economico-sociale e quindi la possibilità di uno sguardo positivo sul nostro futuro. Istituzioni, governi, soggetti sociali e culturali di ogni ordine e tipo, purtroppo anche alcuni esponenti della Chiesa, appaiono talvolta smarriti e contradditori nei loro giudizi (e nel manifestarli). Lo scenario pone diversi interrogativi. Non sono un esperto di geopolitica, tuttavia in quanto europeo e in quanto cristiano, sento la responsabilità di dare un contributo di riflessione, frutto di un confronto interno al Movimento di cui faccio parte, in merito alla discussione in corso sulla difesa comune europea. 

Al di là delle cifre che già oggi vengono spese dagli Stati dell’UE, una difesa veramente “comune” implicherebbe – come molti commentatori più autorevoli di me hanno già detto – una politica estera comune e quindi un soggetto politico unitario, cosa che l’UE non è. Dobbiamo infatti riconoscere che l’Europa come l’avevano immaginata De Gasperi e gli altri protagonisti di quella stagione politica – che nella difesa comune avevano intravisto il primo tassello di una vera unione federale –  non si è realizzata. L’UE è invece l’esito di un compromesso senz’altro virtuoso sotto molti punti di vista, ma che ha dato origine a un ibrido politico obiettivamente fragile, fondato sui precetti dell’individualismo liberale che, nel tempo, hanno portato il progetto sempre più lontano dai valori condivisi dagli ispiratori dell’idea originaria. Del resto, l’Europa si è configurata nella storia come un insieme di popoli diversi, spesso in conflitto tra loro ma uniti da una cultura comune radicata nella tradizione greco-romana e giudaico-cristiana. Poi nella modernità ci si è illusi di poter prescindere dal fondamento trascendente di questa tradizione, perdendo così la sua forza unificante. In questo senso, nel cercare soluzioni adeguate anche al problema urgente della sicurezza, credo si debba considerare l’Unione Europea per quello che è chiamata a essere: un luogo di incontro, uno spazio di dialogo dentro e fra le nazioni, capace di includere tutti gli attori coinvolti nei diversi scenari, con il lavoro paziente e lungimirante della diplomazia. Gli ostacoli politici ed economici vanno anzitutto affrontati anche con il coraggio di trovare forme nuove, senza accontentarsi di scorciatoie di carattere militare che non risolvono i problemi, casomai li aggravano. 

Il problema che l’Europa è chiamata ad affrontare oggi è fondamentalmente culturale: l’Unione deve decidere se essere fedele alla sua vocazione di luogo di incontro, di mediazione e quindi di costruzione della pace, promuovendo la centralità della persona e una cultura della sussidiarietà all’interno dei singoli Paesi, oppure contribuire all’atmosfera conflittuale che sembra prevalere su tutto. Per queste ragioni, la prospettiva di garantire la sicurezza comune mediante un investimento ingente in armamenti, a maggior ragione se affidato ai singoli Stati, mi pare davvero inadeguata, come peraltro ha sottolineato anche l’Arcivescovo di Mosca, monsignor Pezzi. E poiché il progetto politico europeo ha delle lacune a tutti evidenti, credo sia un errore pensare che il riarmo per far fronte a un aggressore pericoloso sia un buon modo per colmare il vuoto di identità che tutti percepiamo.

La condanna della Prima guerra mondiale come «inutile strage» da parte di Papa Benedetto XV assume nuovo valore a fronte delle potenzialità distruttrici delle armi di oggi. Papa Francesco non si stanca di ripetere che armarsi significa soltanto prepararsi alla guerra: mi auguro che questo monito sia tenuto presente da tutti i politici europei. Anni fa, don Giussani affermava: «La pace dipende dal fatto che l'uomo ammetta l'impossibilità di darsi la perfezione da se stesso, mentre indomabilmente riconosce il suo debito verso l'Essere» (la Repubblica, 24 dicembre 2000). Credo che anche oggi siano tanti, e non solo tra i cattolici, a condividere ciò che dice Giussani: solo la coscienza di non essere noi i padroni della storia può aprire uno spiraglio realistico e profondo alla vera pace.

Prof. Davide Prosperi, Presidente della Fraternità di CL


Da la Repubblica, 16 marzo 2025

martedì 11 marzo 2025


 

VESCOVO (OSTILE AL REGIME) ARRESTATO PER AVER CELEBRATO LA SANTA MESSA DI INIZIO GIUBILEO: RIESPLODE IN CINA IL CASO ZHUMIN

 

Cina arresta vescovo Wenzhou per aver celebrato Messa/ Mons. Zhumin non si trova: rifiutò adesione al regime

Nuove persecuzioni in Cina: il vescovo (sotterraneo) di Wenzhou è stato arrestato per aver celebrato la Santa Messa di inizio Giubileo. Ora è introvabile

Niccolò Magnani Pubblicato 10 Marzo 2025

 

Quando si ragiona sulla libertà di parola e sul diritto di critica (sacrosanto), occorre sempre ricordarsi che in alcune parti del mondo, come la Cina, un vescovo cattolico può venire arrestato per il solo fatto di aver celebrato la Santa Messa. È il caso di mons. Pietro Shao Zhumin, attuale vescovo “sotterraneo” di Wenzhou, città all’interno della maxi provincia dello Zhejiang: non è la prima volta che il suo nome torna in auge, almeno qui in Italia, visto che per il suo rifiuto di adeguarsi alla chiesa nazionale controllata dal regime comunista di Xi Jinping è stato spesso arrestato e perseguitato.

 

E così mentre sono passati appena pochi mesi dal rinnovo (di 4 anni) dell’accordo Cina-Vaticano sulla nomina dei vescovi, il problema delle persecuzioni religiose è tutt’altro che vicino alla “scomparsa”: come ha raccontato lo scorso 7 marzo 2025 l’agenzia di stampa AsiaNews, il vescovo Zhumin, non allineato al regime di Xi, è stato improvvisamente arrestato con l’accusa piuttosto insolita di cui sopra. Il 27 dicembre 2024 aveva celebrato la Santa Messa di inizio Giubileo 2025, come avvenuto in migliaia di diocesi e parrocchie sparse per il mondo: avevano partecipato circa 200 persone alla celebrazione, non approvata da Pechino proprio per il timore che nelle omelie il sacerdote potesse diffondere critiche e polemiche contro l’unica vera religione presente in Cina, il comunismo “popolare”.

 

Dopo una prima comunicazione inviata al vescovo, in cui si imponeva il pagamento di una multa dalla cifra abnorme di 200mila Yuan (circa 25mila euro), Shao Zhumin l’ha contestata pesantemente sottolineando che l’attività della Chiesa non viola la legge: secondo Pechino invece la Messa di inizio Giubileo viene valutata in palese «violazione dell’articolo 71 delle Norme sugli Affari Religiosi», aggiungendo che la scelta fuori ordinamento del prelato è da punire come un «crimine grave». Dopo qualche settimana di scontro a distanza, venerdì scorso scatta l’arresto con il vescovo che viene prelevato e al momento risulta irreperibile: contattati dalla stessa AsiaNews, i membri dell’Ufficio della Sicurezza Nazionale si limitano a riferire che Shao è stato portato in un posto segreto per garantire la “piena sicurezza del vescovo”.

 

NUOVO “INCIDENTE” DIPLOMATICO SULL’ASSE CINA-VATICANO: MONS. ZHUMIN NON SI TROVA E LA LIBERTÀ RELIGIOSA È ANCORA UN MIRAGGIO

Al netto della perfida “ironia” di un regime illiberale come quello cinese, sono i metodi usati in questi anni – non solo dunque con l’arresto per aver celebrato la Santa Messa del Giubileo – a sconvolgere (o almeno, così dovrebbe essere) l’opzione pubblica occidentale. Come raccontano ancora le fonti dirette di AsiaNews – che coraggiosamente non da oggi denunciano il trattamento subito da mons. Shao Zhumin e molti altri vescovi “sotterranei” in Cina – da tempo il regime prova ad impedire l’accesso alle celebrazioni per bambini e adolescenti, temendo che le loro giovani menti possano essere “plagiate”.

 

Di recente però, nonostante l’Accordo Cina-Vaticano siglato, l’Ufficio controllato da Pechino ha cambiato strategia, provando ad impedire che chiunque possa celebrare messa a Wenzhou, oltre che fermare sul nascere l’arrivo dei fedeli per le sacre funzioni. Anche se più volte “invitato” ad accettare, il vescovo Shao Zhumin ha sempre rifiutato di aderire all’ideologico organismo cattolico cinese e per questo la nomina di Benedetto XVI nel 2007 viene ritenuta non valida: la chiesa nazionale cinese ha nominato al suo posto un altro sacerdote “patriottico”, continuando ad arrestare in questi anni il vescovo “ribelle”, che pure permane fermo nella sua fede e obbedienza solo alla Chiesa Cattolica di Roma.

 

L’ultimo atto pubblico del vescovo, ora arrestato e purtroppo sparito in Cina, è stato lo scorso 25 febbraio con l’invio a tutta la diocesi di un’intenzione particolare di preghiera per la salute di Papa Francesco, ricoverato ormai da un mese all’ospedale Gemelli di Roma: la Santa Messa, la preghiera del Rosario e l’intercessione a Dio e alla Madonna per la piena guarigione. Ma tutte queste celebrazioni, in particolare quella per l’inizio del Giubileo, vengono considerate dal regime di Xi come profondamente «illegali», tanto da disporre un provvedimento abnorme rispetto a quanto commesso.

(…)

https://www.ilsussidiario.net/news/cina-arresta-vescovo-wenzhou-per-aver-celebrato-messa-mons-zhumin-non-si-trova-rifiuto-adesione-al-regime/2810636/#:~:text=Quando%20si%20ragiona,arrestato%20e%20perseguitato.


 

il presidente ucraino Volodymyr Zelensky incontra a Jeddah i diplomatici sauditi (Ansa)


TRA UCRAINA E GAZA/ Fattore Arabia, ecco perché Trump ha mollato Kiev

In Arabia Saudita oggi si incontrano la delegazione ucraina e quella americana. Ma quanto è importante l’Ucraina nella nuovo corso trumpiano?

Leonardo Tirabassi Pubblicato 11 Marzo 2025

 

Fatti, simboli, interpretazioni, opinioni, scelte e preferenze personali non sono la stessa merce. Non stanno sullo stesso piano. Tanto più in guerra, quando a far da padrona è la propaganda, ma a contare sul serio è la realtà.

 

Non è un lavoro facile analizzare qualcosa, perché il tifo, cioè le passioni personali sostenute da fede a riprova di smentita, rendono difficile qualsiasi interpretazione onesta. Tanto più quando sulla scena internazionale si muovono personaggi politici, attori consumati, che hanno fatto delle maschere la loro identità.

 

In Arabia Saudita, a Riyad, oggi si incontrano la delegazione ucraina e quella americana  dopo il drammatico scontro tra Zelensky e Trump alla Casa Bianca trasmesso in diretta su di un palcoscenico mondiale. Ecco, partiamo da qui, dalla sede scelta degli incontri tra i protagonisti della guerra, russi, ucraini e americani.

 

Se si vuole misurare tutta la differenza di peso e di considerazione, per gli Stati Uniti, tra i due conflitti maggiori oggi in corso, non si avrebbe dimostrazione più lampante. L’Arabia è assieme ad Israele e quindi al Medio Oriente il centro delle attenzioni di Washington. Riyad è la chiave di volta per lo sviluppo di una possibile pacificazione del conflitto israelo-palestinese. L’Arabia è al centro degli Accordi di Abramo, che devono ricominciare il più presto possibile.

 

È lo snodo fondamentale per lo sviluppo economico del grande Medio Oriente, terra di mezzo tra l’India e l’Europa, il luogo simbolico e reale per mettere con le spalle al muro l’Iran degli Ayatollah con la loro bomba atomica in costruzione e rendere le cose difficili alla Cina. Ma trovando un posto al tavolo da gioco anche a Putin. Questa è l’offerta.

 

Agli Stati Uniti oggi poco importa dell’Ucraina: è una faccenda russo-europea, non mette a rischio nessun loro posizionamento strategico. Kiev non è nella sfera d’influenza americana. Quello che gli Usa volevano se lo sono già preso. Russia ed Europa sono in difficoltà economica e politica, Svezia e Finlandia sono nella Nato.

 

Adesso viene la partita difficile e d’importanza strategica per gli Usa. La Russia è ridotta a cliente di Pechino, costretta a svendere il petrolio e il gas e quant’altro alla Cina, ma anche all’India; soffre di una guerra sanguinosa, lunga e che costa comunque troppo, che le impedisce di pensare ad altro, ad esempio a come muoversi nel Mediterraneo, a come far decollare la sua economia ormai di guerra.

 

In un’epoca di incertezza, dove l’economia è diventata (ma quando mai ha smesso di esserlo?) arma di guerra, le rotte, le vie di comunicazione da dove passano gli approvvigionamenti sono diventati un obiettivo primario.

 

Lo sapeva Roma, lo sapevano nel Medio Evo e Braudel ha scritto pagine memorabili sulle vie che dall’estremo Nord, dal Mar Baltico e poi lungo il Don e il Dniepr, arrivavano al Mar Nero, al Caspio, a Costantinopoli e poi fino a Bagdad.

 

E quindi al Mediterraneo, per ricollegarsi, in direzione dell’Estremo oriente, alle tante vie della Seta. Adesso non è certo un caso che lo scontro tra Israele e Hamas vede il coinvolgimento degli Houthi yemeniti.

 

La geografia e l’economia, se non tutto, dicono molto delle guerre. Se non spiegano certo i comportamenti dei protagonisti, per cui entrano in gioco fattori quali la storia, l’identità, la memoria, l’odio, molto ci dicono sulle azioni di chi può (o crede di poter) permettersi il lusso di scegliere da quale parte stare. In questo caso abbiamo un incrocio e scontro di interessi pauroso.

 

Ecco la cinese “Belt and Road Initiative” (BRI), il corridoio con capofila gli USA “India-Middle East-Europe Economic Corridor” (IMEC), il russo “International North-South Transport Corridor” (INSTC), ed il turco “Trans-Caspian International Transport Route” (TITR).

 

Progetti dai costi esorbitanti e durata decennale, che necessitano della collaborazione internazionale e della sicurezza delle zone attraversate. E tutti progetti non neutrali. Infatti su di essi si giocano alleanze e inimicizie come nelle guerre. Anzi sono essi stessi strumento di guerra. Impedire alla Cina il passaggio dall’Iran vuol dire costringerla a passare dal mare o spingerla a nord, comunque costringerla ad allungare il percorso per le sue merci.

 

Mentre il corridoio indoeuropeo aggira l’Iran, esclude la Cina, e trasforma Israele ed Haifa in un hub fondamentale per tutto il Medio oriente, per il Golfo e l’Arabia. Ma se la rotta iraniana si chiude, se il Caucaso diventa invalicabile, per la Russia significa che dal mar Baltico all’India l’unica rotta possibile è via mare attraverso Gibilterra!

 

https://www.ilsussidiario.net/news/tra-ucraina-e-gaza-fattore-arabia-ecco-perche-trump-ha-mollato-kiev/2810808/#:~:text=UCRAINA-,TRA%20UCRAINA%20E%20GAZA/%20Fattore%20Arabia%2C%20ecco%20perch%C3%A9%20Trump%20ha%20mollato,molte%20le%20carte%20che%20gli%20Stati%20Uniti%20hanno%20in%20mano.%20Poi,-%2C%20%C3%A8%20vero%20rimangono


lunedì 24 febbraio 2025

Intervista di Monica Mondo ad Erik Varden, Vescovo di Trondheim, su TV 2000

 



https://www.tv2000.it/soul/2025/02/17/erik-varden/


"La secolarizzazione è compiuta, però l'anima rimane assetata di senso, di bellezza, di verità. C'è una nuova ricerca, una nuova apertura"

domenica 23 febbraio 2025

ERIK VARDEN, Castità, ed. S.Paolo

 

Un monaco e un vescovo nella terra più a nord del nord, a Trondheim, in Norvegia. Erik Varden ha voluto essere cattolico, cresciuto in una famiglia di tradizione luterana, e introdotto al Mistero di Gesù grazie all’ascolto della sinfonia numero 2 di Mahler. Prima studioso in un monastero, poi chiamato ad essere pastore di genti diverse, in un tempo di rinascita della fede in quella che si crede la parte più scristianizzata d’Europa. L’ultimo libro si intitola ‘Castità’: un titolo impegnativo e quasi provocatorio, quando la religione è stata ridotta ad etica.


https://www.tv2000.it/soul/2025/02/17/erik-varden/#:~:text=Erik%20Varden,ridotta%20ad%20etica.

giovedì 20 febbraio 2025

FOGGIA. Ucraina, emergenza umanitaria


 

Foggia: Ucraina, emergenza umanitaria

 08 Marzo 2025

   

Sabato 8 marzo 2025, alle ore 20.00, presso il Teatro “Iolanda Favorito” della Parrocchia Regina della Pace (Via G. Caggianelli, 2) a Foggia, si terrà un importante incontro dal titolo “Ucraina: L’emergenza umanitaria”, nell’ambito della Campagna Tende AVSI 2024/2025 dal tema “Educazione è speranza”.

 

L’evento si propone di raccontare la storia del popolo ucraino attraverso tre anni di resistenza e undici anni di lotta per la difesa dell'indipendenza, tracciando il cammino verso la libertà.

 

Interverranno, tra gli altri, Olena Nazarenko dell’Associazione culturale Terre di Confine e del Centro di cultura ucraina; Roberto Parisi, responsabile del Centro culturale italo-ucraino dell’Università delle Dogane e delle Finanze di Dnipro; padre Vitalii Perih, dell’Esarcato Apostolico per i cattolici ucraini di rito bizantino residenti in Italia.

 

L’incontro sarà coordinato da Lorenzo Scillitani dell’Università di Foggia.

 

L'ingresso è libero. Al termine dell’evento seguirà un momento conviviale a contributo libero, il cui ricavato sarà destinato ai progetti AVSI - Emergenza Ucraina.

 

L’iniziativa è promossa dal Centro Culturale Archè, dal Dipartimento Relazioni Internazionali dell’Università delle Dogane e delle Finanze, dall’Unione delle Comunità di Migranti in Italia e dal Centro Culturale Italo-Ucraino.

 

Per ulteriori informazioni:

Centro Culturale Archè

Via A. Gramsci 39 sc. A - 71121 Foggia

centroculturalearche@tiscali.it


domenica 16 febbraio 2025

Taranto, una piazza nel nome di don Giussani

UN ANNO FA MORIVA NAVAL’NYJ


  

UN ANNO FA MORIVA NAVAL’NYJ

(……) https://lanuovaeuropa.org/testimoni/2025/02/16/un-anno-fa-moriva-navalnyj/#:~:text=A%20un%20anno,davanti%20a%20Dio.

 

Pasqua 2021

Recluso nel campo di lavoro di Pokrov, Naval’nyj indice uno sciopero della fame perché non gli concedono la visita di un medico. Lo sciopero si protrae dal 31 marzo 2021 fino al 23 aprile, quando la visita medica ha luogo. In seguito, ha dovuto seguire un lungo periodo di rialimentazione.

 

2 maggio 2021

 

Urrà, Cristo è risorto! La vita e l’amore hanno vinto.

Com’è tradizione, faccio i miei auguri a tutti per la più grande delle feste: ai credenti (quale sono oggi), ai non credenti (quale sono stato) e agli atei militanti (sono stato anche quello).

Abbraccio tutti, voglio bene a tutti.

Quanto ho aspettato questa Pasqua!

 

Sì, beh, quest’anno ho avuto una Quaresima difficile. Purtroppo, oggi non posso condividere un vero pranzo pasquale: sono ancora nella prima metà della mia affascinante trasformazione da «scheletro che trascina a malapena i piedi a uomo semplicemente affamato». Ma i pochi cucchiai di kaša che mi sono concessi li mangerò con eccellente spirito pasquale.

Perché in un giorno come questo io so e ricordo con certezza che tutto sarà per il bene.

 

Piccole feste quotidiane

20 maggio 2021

 

Allora, parliamo di come raggiungere la felicità.

Rubrica: Spunti di riflessione di Aleksej Naval’nyj.

 

In effetti, il carcere esalta notevolmente la percezione della felicità. Percezione fugace, ma pur sempre… Basta semplicemente sapersi inventare una festa.

 

Non appena mi hanno rinchiuso, ho deciso che sarebbe stato molto importante avere qualcosa da festeggiare e commemorare, affinché i giorni non diventassero una routine. Ho deciso di celebrare le domeniche: molto semplicemente le ho trasformate in una festa. Il fatto è che mi piace molto il pane. Moltissimo. Se mi chiedessero di mangiare un solo cibo per il resto della vita, io sceglierei il pane. Inoltre, il pane è importante in carcere, senza il pane non ci si sazia.

 

Ecco perché ho deciso di non prendere pane per tutta la settimana. Poi, la domenica mattina prendo un panino, ci spalmo del burro, quando c’è, preparo il caffè e faccio una colazione divina, come non avrei mai fatto da libero.

 

Capite dove voglio arrivare?

 

23 giorni di sciopero della fame + 23 giorni di rialimentazione molto rigida. Non ho mai sgarrato. Mi sono sorpreso della mia forza di volontà. A quanto pare, la convinzione di essere nel giusto mi ha aiutato. In più, dall’11 marzo non ho più mangiato nulla di dolce (di questo scriverò a parte).

 

Così, quando ho cominciato a uscire dallo sciopero della fame, sapevo esattamente cosa avrei fatto la mattina del 16 maggio. E ho scritto subito nel mio diario: «Una buona giornata: pane, burro, caffè. Prima volta dopo 46 giorni».

 

Ma il piano è quasi andato a monte. Qui al mattino danno il pane e il burro, ma il caffè non ce l’avevo. Fortunatamente, un detenuto vicino è «venuto a trovarmi» nella mia cella con un vasetto di caffè istantaneo.

 

Ed ecco arrivato il 16 maggio. Di solito in questi momenti si prova una leggera delusione, la realtà è un po’ più noiosa di quello che hai aspettato a lungo.

Ma non nel mio caso. Il tempo era perfetto, ho aperto la finestra – e al diavolo le sbarre – ho preparato il caffè, ho imburrato un pezzo di pane bianco. Mi sono seduto sulla cuccetta. Ho dato un morso e bevuto un sorso dalla tazza.

 

Vi dico che se ci fosse un dispositivo che misura la felicità, nessun oligarca che fa colazione sullo yacht, nessun avventore di ristorante stellato avrebbe provato un decimo della felicità che ho provato io.

Un sorso l’ho fatto alla vostra salute, a tutti coloro che mi hanno aiutato e sostenuto.

 

Quindi, ecco la ricetta (breve) della felicità: scegliere qualcosa che si ama molto, privarsene per un po’ e poi riprenderla.

Solo ricordatevi che questo non si applica alle persone: dimostrate sempre amore alle persone che vi sono care.

mercoledì 12 febbraio 2025

Silvio Cattarina: I nostri ragazzi e il vero bene

 


I nostri ragazzi e il «vero bene»

Le parole del presidente de “L’imprevisto”, Silvio Cattarina, alla cerimonia per la dimissione dei giovani che hanno terminato il cammino di recupero e rinascita

 

11.02.2025

Silvio Cattarina

L’8 febbraio, al Teatro Rossini di Pesaro, “L’imprevisto” – storica realtà di accoglienza per ragazzi in difficoltà – ha festeggiato una decina di loro che terminavano il cammino di recupero e rinascita. In platea, alla presenza degli altri ragazzi che stanno ancora affrontando il percorso e di tanti che hanno finito da più o meno tempo, dei genitori, di molte autorità e di tanti amici venuti da ogni dove, i “dimissionari” festeggiati hanno reso testimonianza, con i loro racconti, delle fatiche, degli inciampi, dei successi e dei traguardi raggiunti durante il cammino di comunità. Qui l’intervento di Silvio Cattarina, presidente de “L’imprevisto”.

 

Ancora, dopo tanti anni – 45 per me, 35 per “L’imprevisto” –, ci anima il desiderio di capire perché vi è tanto male, tanto dolore nei ragazzi, nella gioventù: perché queste ultime generazioni di giovani si portano addosso una cifra così alta e vasta di sofferenza? È la prima volta nella storia che assistiamo ad un fenomeno di così vasta proporzione e novità.

Non possiamo tollerare – anzi occorre ribellarsi, insorgere – l’ineluttabilità di questa deriva, di questa sconfitta, del tesoro più grande di un popolo, di una nazione, i suoi giovani, lasciato andare alla malora in questo modo. Ancora, dopo tanti anni, ci anima anche il desiderio di capire il bene, di capire qual è il vero bene per i ragazzi, il bene che serve ai giovani.

Lisa, una ragazzina cinese. Un giorno disse: «Io mi sono lasciata andare, ho cominciato a cambiare quando ho visto che qui in Comunità mi volevano bene, cioè volevano il mio vero bene!». Cosa è il vero bene? I ragazzi pensano sia l’affetto. No. È di più, è un’altra cosa. Occorre saperlo, incontrarlo, vederlo, capirlo…      

Quando chiedo ai ragazzi: «Cosa speri per la tua vita?», loro rispondono: «Una morosa, un lavoro, essere capace di metter su una bella famiglia». Io mi arrabbio: «Non basta, non è sufficiente! Ci vuol qualcosa di più grande che tiene su queste cose, che fa vivere tutte queste pur belle cose!». Il vero bene... Non è facile conoscerlo, saperlo. È una grande scoperta da fare, un grande lavoro da intraprendere. Occorre andare a scuola da grandi maestri per apprenderlo, non è scontato esserne capaci. Insomma, è un compito, una responsabilità, un’avventura, un ideale… Occorre dargli un nome! È la cosa più importante e preziosa da sapere, la più indispensabile. Più del pane e del lavoro…

Abbiamo scoperto che con i ragazzi è importante interrogarsi e lavorare su tre grandi direttrici: il valore della persona; il valore della vita, della realtà; il motivo, la ragione, del perché siamo al mondo. Per questo dico ai ragazzi: «Non siamo qui per la droga, per la depressione, per l’anoressia, per l’autolesionismo, per la legge… C’è altro, molto di più!».

Col passare degli anni, sempre più ci è stato dato di capire che ai ragazzi bisogna chiedere tanto, chiedere tutto. Altrimenti è come se non dessimo valore ai giovani e non credessimo in loro. È come se non dessimo valore al dolore, alla sofferenza che hanno patito.

«Se la vita ti ha fatto passare attraverso prove di così grande sofferenza forse c’è dentro un senso, uno scopo. Per te, proprio per la tua vita: affinché tu possa essere di più, chiedere di più, sperare di più, fare di più. Il dolore porta a un di più! Sennò la vita è una “sfiga”, come dite voi. Ma non è così, non può essere così. Dentro il dolore c’è un segno, una chiamata».

Poi, ancora, abbiamo compreso che l’esperienza di educazione e di vita che conduciamo a “L’imprevisto” ha da essere precisa, seria, esigente, severa. Occorre tenere alla bellezza, alla pulizia, all’ordine, al linguaggio, al vestiario, al comportamento. Quanta trasandatezza, quanta trascuratezza nei giovani d’oggi… Come possiamo tollerare certi modi, certi atteggiamenti, comportamenti di così evidente bruttura e insensatezza tra i ragazzi? Di aggressività, violenza, cattiveria… Come sono sporchi certi luoghi pubblici, certi piazzali, angoli delle città, quartieri, scuole.

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https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/cattarina-imprevisto-dimissioni-ragazzi#:~:text=SOCIET%C3%80-,I%20nostri%20ragazzi%20e%20il%20%C2%ABvero%20bene%C2%BB,Non%20perderti%20il%20meglio,-Uno%20sguardo%20curioso

 

 


martedì 11 febbraio 2025

CL Toscana: la vita è un diritto, non la morte

 


CL Toscana: «La vita è un diritto, non la morte»

 

«Consapevoli della delicatezza del tema, e del potenziale impatto che le decisioni future potranno avere circa la prospettiva di chi è curato e di chi cura, siamo coscienti che la cura fino alla fine, lo “stare con” il malato, accompagnandolo, ascoltandolo, facendolo sentire amato e voluto, è ciò che può evitare solitudine, paura della sofferenza, sconforto». Inizia così il volantino di Comunione e Liberazione Toscana sul tema del fine vita alla vigilia dell’esame, in Consiglio Regionale, della proposta di legge dell’Associazione Luca Coscioni, riguardante il cosiddetto “suicidio assistito”. Un documento che, come giudizio e contributo al dibattito, condivide e rilancia il contenuto della nota dei Vescovi toscani, prendendo le mosse da una citazione di papa Francesco: «La vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata».

 

Scarica e leggi il volantino di CL Toscana:  clonline.org

 

 


lunedì 3 febbraio 2025

Come nasce l'interesse per la conoscenza nei ragazzi

 



Oggi, nel nostro tempo, che cosa può far nascere una passione per la conoscenza e quindi un interesse per lo studio?

Emilia Guarnieri Pubblicato 3 Febbraio 2025

 

Che le scuole oggi siano troppo spesso luoghi dove si scaricano violenza, frustrazioni, delusioni, è fin troppo noto. E questo riguarda non solo gli studenti, ma anche gli adulti, genitori e insegnanti. Purtroppo le cronache non ci risparmiano l’amarezza di tali episodi. Studenti sempre più ansiosi, episodi di bullismo, solitudine, disinteresse crescente per la scuola e lo studio, sono fenomeni che tristemente abitano le aule scolastiche. Certo, non tutte. Certo, non sempre. Ma in numero sufficiente per fare notizia, per indurci a guardare alla scuola come ad un problema grave da affrontare e risolvere, un’ emergenza da contenere, una somma di comportamenti da sanzionare. “Pensano che basti riempire il vuoto con l’ordine”, canta Marracash.

 

Al di là dei tanti problemi che, spesso giustamente, angustiano dirigenti e legislatori, è innegabile che se si vuole mettere seriamente a tema la questione scuola bisogna avere il realismo di riconoscere che il senso della scuola è di essere un luogo dove gli studenti vanno per imparare e che l’oggetto dell’apprendimento è la conoscenza della realtà.

 

C’è un canto della Divina Commedia, il XXIV del Paradiso, in cui più che nelle diafane trasparenze celesti, sembra di entrare in un’aula, forse universitaria più che scolastica, dove un giovane discepolo viene interrogato da un autorevole maestro che con severo rigore lo incalza per verificarne appunto le conoscenze. Il discepolo è Dante stesso che viene messo alla prova da S. Pietro sulla conoscenza della fede. È interessante notare quali sono i fattori che vengono messi in campo nella prova che Dante deve sostenere. La ragione innanzitutto, di cui il discepolo “si arma” per essere pronto a rispondere e a mostrare quella capacità di ” sillogizzare”, cioè di argomentare ragionevolmente, che ogni conoscenza esige . Ma ciò che è conosciuto va posseduto per esperienza, bisogna cioè averlo “nella borsa” come il maestro suggerisce. Uso della ragione, dunque, ed esperienza di ciò che si conosce. Ma a questi fattori fondamentali nel conoscere, Dante ne aggiunge un altro, la forza dell’evidenza che si sprigiona dalla realtà. Il poeta infatti afferma che la prova più grande della conoscenza della fede consiste in una evidenza, quella del miracolo della sua diffusione.

 

Dante! Più di 700 anni fa, roba di altri tempi! Forse. Certamente non vogliamo tornare alle aule medioevali, ma non possiamo evitare una domanda: “Oggi nelle nostre aule scolastiche si respira un interesse alla conoscenza?”. Un interesse tale da provocare il gusto di argomentare, da far desiderare l’esperienza di ciò che si conosce, da stupirsi di fronte alla grandezza e all’evidenza di una realtà tutta da scoprire?

 

Oggi, nel nostro tempo, che cosa può far nascere una passione per la conoscenza e quindi un interesse per lo studio? O siamo noi adulti i primi a non credere che la scuola possa essere un luogo dove si impara per passione, dove ci si può anche innamorare dei contenuti che si apprendono? Siamo in un tempo di crisi, di malessere, di vuoto , un tempo che ha ormai messo in discussione gran parte delle certezze antiche. Un tempo di sviluppo e di cambiamenti, ma anche un tempo che invoca disperatamente la sostenibilità a ogni livello (ambientale, economico, sociale). E in tale drammatica situazione la questione della scuola e dell’istruzione è centrale. Prova ne è il fatto che l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite ha tra i suoi obiettivi “Garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti”. Conferma meno istituzionale, ma sicuramente non meno convincente è quanto detto dal Cardinale Pizzaballa, dopo la sua visita pastorale in occasione del Natale alla striscia di Gaza (dove certo le persone non hanno né tempo, né energie, né mezzi per porsi falsi problemi!). Diceva il Cardinale: “Naturalmente sono esausti, ma chiedono scuole, le chiedono più dell’acqua, più dell’alloggio. Pensano ai bambini e la scuola è una necessità”.

 

Questa scuola riconosciuta come necessaria, una scuola dove imparare a conoscere, nessuno riuscirà mai a realizzarla senza passare attraverso la libertà di chi la vive. Non ci sarà una scuola così senza studenti interessati a conoscere e senza insegnanti desiderosi di insegnare, perché certi che i ragazzi che hanno di fronte possano imparare. Ma che cosa può muovere i giovani oggi? Da dove può nascere l’interesse per la conoscenza?

 

L’esistenza di ognuno di noi documenta che ci si interessa a una persona, a un avvenimento, a un’esperienza, quando qualcuno di questi fattori ci raggiunge, ci tocca, ci mette in movimento. L’interesse scatta se nell’orizzonte del vivere quotidiano accade qualcosa. Alain Finkielkraut in un’intervista del 1992 aveva individuato il “metodo supremo della conoscenza” nella parola “avvenimento”. “Un avvenimento è qualcosa che irrompe dall’esterno. Un qualcosa di imprevisto”. Deve accadere qualcosa che colpisca, che coinvolga affettivamente, che risvegli l’umano. E la prima cosa che in una scuola, in una classe, può succedere come avvenimento imprevisto è il rapporto tra insegnante e studente. Ma noi adulti quanto stimiamo oggi questi ragazzi ,forse così diversi da come li vorremmo?

 

(…) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/2/3/scuola-e-conoscenza-tra-dante-e-finkielkraut/2797467/#:~:text=EDUCAZIONE-,Scuola%20e%20conoscenza%2C%20tra%20Dante%20e%20Finkielkraut,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94,-Abbiamo%20bisogno%20del