venerdì 28 novembre 2025

Il Rosario di un agnostico

 



Il Rosario di un agnostico

Il «significato prezioso» del volantino di CL nella lettera dello scienziato spagnolo Juan José Gómez Cadenas, fisico delle particelle e scrittore

 

01.11.2025

Juan José Gómez Cadenas

Fisico delle particelle e scrittore

 

Cari amici di CL,

la lettura del testo “La speranza della pace” mi ha particolarmente commosso per il significato, prezioso soprattutto nei tempi attuali, delle due proposte che presenta: preghiera e testimonianza.

Potrebbe sembrare scioccante che uno “scienziato agnostico” – se così si può definire – dia valore a un gesto apparentemente così “settario” e “inutile” come recitare il Rosario. La Palestina sanguina e i cristiani non hanno niente di meglio da fare che sgranare un Rosario recitando delle Ave Maria?

(….)

In questi giorni siamo testimoni di un enorme frastuono, un’esplosione di rumore e furia che emula metaforicamente le bombe che cadono su Gaza. Assistiamo a dichiarazioni, manifestazioni, boicottaggi, proteste e ogni tipo di azione, se non violenta, spesso al limite dell’isteria. È difficile sottrarsi all’impressione che coloro che tanto protestano e rivendicano stiano, in fondo, interpretando un ruolo in cui sono loro, e non coloro che soffrono a Gaza, i protagonisti.

(….)

Ci sarà chi sosterrà che la preghiera ha senso solo se crediamo che qualcuno ci ascolti. Io credo che non sia così. Per cominciare, il cristiano, quando prega, si basa su una speranza, una fede, una promessa, non su una certezza assoluta. E l’agnostico, a sua volta, ha l’opportunità di formulare quella preghiera per se stesso, per coloro che lo accompagnano, per coloro che soffrono, o per quello stesso Dio di cui non percepisce la presenza, tranne quando guarda negli occhi i suoi figli.

Un paio di anni fa, io e la mia famiglia abbiamo partecipato a una gita estiva organizzata da Javier Prades e altri amici, durante la quale siamo saliti fino al paradiso di un azzurro cielo pirenaico, mentre le nostre ginocchia scendevano all’inferno. Il cammino è iniziato con un’ora di silenzio, senza ordini precisi, ma con un chiaro suggerimento di preghiera, in quanto pregare è, soprattutto, guardare dentro di sé. Il giorno dopo abbiamo partecipato a una bella Messa all’aperto, che ha commosso me, mia moglie e mio figlio, che mi accompagnavano. Un rito, sì, una semplice (semplice?) ripetizione di gesti e parole, un uomo che alza le braccia al cielo tenendo in mano un pezzo di pane azzimo e pronuncia una formula magica. I miei amici cristiani ritengono che questo atto trasformi la sostanza del pane e del vino. Io non arrivo a tanto, ma la mia anima si sentiva più leggera alla fine della Messa.

Oggi, leggendo “La speranza della pace”, mi sono ricordato di quella mattina, di quel cielo azzurro e di quelle preghiere silenziose, e non posso fare a meno di offrire anche le mie affinché le sofferenze in Terra Santa finiscano il prima possibile.

Tempo fa, Javier Prades mi ha chiesto di recitare un’Ave Maria per aiutare sua madre a riprendersi da un grave intervento chirurgico. Ho obiettato che forse la preghiera di un agnostico non avrebbe avuto valore. Lui mi ha risposto: vale il doppio.

 

Vi mando un forte abbraccio.

 

(Questo testo è stato scritto prima che entrasse in vigore la tregua a Gaza)

(sussidiario.net)


giovedì 27 novembre 2025

Matrimonio, promessa di infinito

 



Matrimonio, promessa di infinito

La Nota del Dicastero per la Dottrina della Fede “Una caro. Elogio della monogamia” approfondisce il valore dell’«unione esclusiva» tra i coniugi e l’«appartenenza reciproca», che nel completo dono di sé all’altro ne rispetta la dignità. E propone ai giovani: l’amore vero è ancora possibile (da Vatican News)

 

26.11.2025

Isabella Piro

“Indissolubile unità”: così la Nota dottrinale del Dicastero per la Dottrina della fede (Ddf) definisce il matrimonio, ovvero come una “unione esclusiva e appartenenza reciproca”. Non a caso, il documento - approvato da Leone XIV lo scorso 21 novembre, memoria liturgica della Presentazione della Beata Vergine Maria, e illustrato alla stampa oggi, 25 novembre - ha per titolo “Una caro (una sola carne). Elogio della monogamia”. Nel documento si spiega che coloro che donano sé stessi pienamente e completamente all’altro possono essere soltanto due, altrimenti sarebbe un dono parziale di sé che non rispetta la dignità del partner.

 

Tre le motivazioni all’origine del testo: in primo luogo - scrive nell’introduzione il cardinale prefetto, Víctor Manuel Fernández - c’è l’attenzione all’attuale “contesto globale di sviluppo del potere tecnologico” che porta l’uomo a pensarsi come “una creatura senza limiti” e quindi lontano dal valore di un amore esclusivo e riservato a una sola persona. Si accenna anche alle discussioni con i vescovi africani sul tema della poligamia, ricordando che “studi approfonditi sulle culture africane” smentiscono “l’opinione comune” sulla eccezionalità del matrimonio monogamo. Infine, il documento constata, in Occidente, la crescita del “poliamore”, ovvero di forme pubbliche di unione non monogama...

 

Continua a leggere su Vatican News

Dottrina della Fede: la monogamia non è un limite, sposarsi è promessa di infinito


lunedì 24 novembre 2025

Soul: lo splendore della vita monastica

 

Maria Francesca Righi - 23.11.2025

 


Finisce un anno liturgico, e ci facciamo introdurre nel nuovo da una monaca cistercense, badessa del monastero trappista di Valserena. Maria Francesca Righi è in clausura da 50 anni: dopo una giovinezza turbolenta nella Milano del 68, segnata dall’impegno politico e culturale, ha trasformato l’irrequietezza in inquietudine, rispondendo a una chiamata, che è per tutti, e ha trovato risposta nella preghiera, nel lavoro, nell’armonia con la natura, nello studio. “Ora, labora et lege”, è il motto benedettino. Madre Maria Francesca ha un’acuta lettura del presente, in tutti i suoi campi, la sua porta è sempre aperta all’incontro. I monasteri hanno vegliato e devono continuare a vegliare sulla coscienza cristiana, ricostruendo l’Europa.

 

https://www.play2000.it/detail/6?episode_id=25498&season_id=924


21 MIN Nuovo Paradigma - estratto intervento don Julián Carrón

venerdì 21 novembre 2025

Gemelle Kessler: si può attraversare la notte dell'anima solo se qualcuno ci chiama per nome

 



GEMELLE KESSLER/ “Si può attraversare la notte dell’anima solo se qualcuno ci chiama per nome”

Nicola Campagnoli Pubblicato 21 Novembre 2025

 

Il suicidio delle gemelle Kessler (1936-2025) ci interroga sul perché si vive, sul “chi” non ci abbandona mai, e per cui vale la pena vivere fino in fondo

Quando da lontano si vedono avvicinarsi le nubi cupe e tristi del temporale, cosa ci dà il coraggio di attraversare quel buio, di affrontare la notte? Dopo che si è vissuta la dolcezza dell’estate, come si può abbandonarla per difendersi dalle intemperie?

Alice ed Ellen Kessler non hanno proseguito il loro cammino verso il tramonto della loro giornata che annunciava brutto tempo.

La forza di andare avanti è proporzionale all’amore che si riceve. Il problema non è mai la morte (o la vecchiaia o il dolore). La questione è il perché si vive, anzi per chi si vive.

Tanta ammirazione e tanta lode, tanto pubblico e tanta attenzione su di sé, quale compagnia reale rappresentano alla propria esistenza? tanti occhi sgranati fissi sul piccolo schermo, quale amore portano; amore concreto, quotidiano, vivo, alla propria persona, fatta di pregi e limiti, di difetti e slanci positivi, fatta di bisogno profondo di presenze amanti del fondo del proprio io?

(…..)

L’abbandono, il restare soli, fa terrore; il non amore terrorizza.

Cesare Pavese scrisse nel suo diario: “Da uno che non è disposto a condividere con te il destino, non dovresti accettare nemmeno una sigaretta”. Pavese, al massimo del suo successo e del suo riconoscimento, sentì l’apice della sua solitudine. Quel non avere altri vicino, se non il proprio vuoto abissale, che lo portò al tragico epilogo.

 

Da Sussidiario.net


“Noi poeti, pescatori di parole o cercatori di chiavi smarrite”

 


LETTURE/


“Noi poeti, pescatori di parole o cercatori di chiavi smarrite”

Corrado Bagnoli Pubblicato 21 Novembre 2025

 

Rolle, Mandorlo, Vitale, Bregoli, Germani, Bellini, Bulfaro: la poesia come ricerca del proprio personale mazzo di chiavi per abitare la casa della vita

Ha davvero ragione il poeta Emiliano Rolle? Nelle sue recentissime Filastrocche da un Oblò (MC, 2025), ironicamente riconoscendo che di poesia se ne scrive anche troppa, “anche se con il sospetto fondato che non serva non farlo”, Rolle sostiene che bisogna accenderle le poesie “e sperderle perché accadano come le foglie… sperderle senza un commento/ senza un ritorno/ sperderle perché un giorno/ ai margini di un lieto evento/ può essere che ci incontrino/ si accostino/ chiedano ancora/ se si è/ non facciano finta di niente”.

Se fosse davvero questa la sfida? Quella di una parola che vuole la dispersione? O piuttosto bisogna ascoltare il grido di Massimiliano Mandorlo che, nelle sue Mappe del grande mare (MC, 2023), afferma invece: “e io cerco/ parole celesti,/ nomi di vento/ qualcosa che duri/ tra la polvere e il cielo”? Perché, dice sempre Mandorlo, “Noi non siamo fatti/ per la morte/ per il vento siamo fatti/ e questa terra/ dona luce/ custodisce… canta in me/ prima di me”.

In questo dialogo a distanza e immaginario tra i libri che da qualche tempo stanno qui sulla scrivania e mi chiedono ascolto, penso alle altre voci che si aggiungono. Quella di Marco Vitale che, anche lui, ne La strada di Morandi (Passigli Poesia, 2024) si domanda “Questa sera di giugno all’ora azzurra… come fermarla/ mentre s’affanna un ultimo/ del silenzio trasvolo, un dono opaco/ una torsione per il limpido/ teatro che scolora?”. Riconoscendo subito dopo “Quanta, ripenso, verità per quel silenzio/ e in quelle pagine incantate, in quel dirsi/ come la vita almeno andasse scritta”.

Al fervore appassionato di Mandorlo che dice: “Con versi come spade/ sguainate, con parole/ semplici e luminose/ camminiamo nel vento/ che affila i palazzi/ cercando l’invisibile/ luce delle cose”, sembra rispondere o forse accostarsi il rigore quasi matematico della poesia di Fabrizio Bregoli che nel suo Referti (Società Editrice Fiorentina, 2025) rivela: “Hanno l’inquietudine di un silenzio/ sicario, una pentecoste di lingue/ impronunciabili, i numeri. Scorie/ fossili. Omelia del nulla… Credili un sanscrito i simboli, luce/ stremata su uno scaleno di ipotesi./ le formule, un vangelo di menzogne. / Uno sbaglio./ (Come ogni poesia.)”

Sembra dunque che si scriva sguainando la parola come una spada, cercando l’invisibile mistero che riluce nelle cose; ma si scriva anche per dire quanta impotenza c’è nella parola. Finanche in quella della scienza. Quasi fino ad arrivare al punto del silenzio, nel riconoscimento che “Tutto quel mare nella notte/ e il vento, le onde/ scure/ in un abbraccio solo./ Tutta quella vertigine/ fredda/ che chiama e dissolve,/ quella poesia/ che nessuno mai scrive” rimane quasi lo statuto di ogni verso, come sembra dire Mauro Germani in Prima del sempre (puntoacapo, 2024).

In questo vagare tra le voci di poeti che s’interrogano sul destino della loro parola e della poesia tutta, ascolto ancora l’ultimo libro di Marco Bellini, L’orizzonte che ci spetta (Ronzani, 2025). Nel suo viaggio nel mondo scopre che “È successo oggi che la mia voce/ ha fatto la voce del bosco… È successo che tutti questi suoni/ mi hanno chiesto la parola, a sorpresa/ la mia, mentre stavo negli scarponi/ e lo zaino tendeva la schiena./ E io chi sono per tacere la voce,/ per non essere al servizio?”.

La poesia non salverà la vita. È però al suo servizio. Con parole che hanno dentro la forza della spada, il rintocco della nostalgia, o il clamore della propria inadeguatezza finanche accompagnato dal desiderio del silenzio. E anche noi nei nostri scarponi, chi siamo per tacere, per non essere al servizio di una realtà che, anch’essa come la parola, sembra sempre invocare altro?

Bellini, nel continuo dialogo con la realtà di cui il libro è testimonianza, incapace di dare un nome a questo altro, chiede persino a una biscia se lei lo sa che “cos’è lui che si nasconde dietro le nuvole… Sta lì la biscia, la coda tra i fiori di plastica/ e l’ombra sopra il cero sostenuto da una ragnatela./ Impercettibile, quasi una porta segreta/ è la vibrazione della ragnatela,/ il passaggio della preghiera”.

(…)

E spiega il perché di tanto, tantissimo impegno: “finché non trovi le tue parole, usi le parole di riserva: le parole degli altri. Ma questa è una soluzione temporanea. A ciascuno di noi occorre il proprio mazzo di chiavi per entrare e uscire dalla propria casa. Il poeta è un pescatore di parole. Un cercatore di chiavi smarrite. È colui che ti ha mostrato che le chiavi sono sempre state lì, a portata della tua mano, della tua lingua. Non le avevi perse, semplicemente si mostravano ma non le vedevi, ti chiamavano e non le ascoltavi”.

Bulfaro, che un tempo all’ufficio anagrafe del suo paese chiedeva che alla voce professione mettessero la parola “poeta”, oggi chiederebbe di scrivere invece “umile servitore della poesia”. Ma solo perché la poesia, quella vera, pur non salvandoci la vita, ci aiuta a trovare le nostre chiavi di casa. Non si può non dire grazie a tutte queste voci. Non si può fare finta di niente.

(sussidiario.net)


domenica 16 novembre 2025

COLLETTA ALIMENTARE 2025: RISULTATI

 



16 novembre 2025 - “Se cresce la povertà deve crescere anche la solidarietà, la Colletta Alimentare è un piccolo gesto che risponde a una domanda importante di come arrivare a fine mese: è un gesto di grande fiducia oltre che una risposta concreta”, ha dichiarato il Presidente della CEI, Cardinale Matteo Zuppi dopo aver partecipato all’iniziativa.

In un contesto sociale segnato da individualismo e indifferenza, la partecipazione di 155 mila volontari e di oltre 5 milioni di donatori rappresenta un segnale forte: cittadini di ogni età e provenienza hanno dedicato tempo, cura e attenzione, per quegli “invisibili” che spesso non trovano voce. Un gesto semplice — una confezione di riso, una scatoletta di tonno, una bottiglia di passata di pomodoro — che alimenta speranza, come auspicato da Papa Leone XIV domenica scorsa: “Mentre le cause strutturali della povertà vanno affrontate e rimosse, tutti siamo chiamati a creare segni di speranza”.

È questo, in fondo, il valore della Colletta: un Paese che sceglie di non voltarsi dall’altra parte e, nonostante l’aumento del costo della vita, dona quanto può. Un vero e proprio spettacolo della carità, il segno di una coscienza di popolo ancora viva, come dimostra anche la partecipazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, primo anche quest’anno ad aderire personalmente a questo gesto. Dalla Presidenza della Repubblica, la Colletta Alimentare, ha ricevuto anche l’Alto Patronato.

Secondo il rapporto ISTAT sul Bes diffuso due giorni fa, nel 2024 in Italia la percezione del rischio di cadere in povertà è al 18,9% rispetto a una media Europea del 16,2%. La Giornata Nazionale della Colletta Alimentare dice anche qualcosa di importante sul bisogno - profondo e condiviso - di costruire relazioni vere e capaci di rispondere ai molteplici volti della povertà, primo fra tutti la solitudine.

Grazie a 8.300 tonnellate di prodotti donati nei supermercati di tutta Italia, Banco Alimentare potrà sostenere nei prossimi mesi 1 milione e 800 mila persone bisognose attraverso 7.600 enti caritativi convenzionati.

L’ attività di Banco Alimentare, operativo tutto l’anno nella lotta allo spreco e sul valore del cibo come risorsa, vuole essere sempre più uno strumento di inclusione, di relazione e di costruzione di comunità più resilienti, dove nessuno resti ai margini.

La Colletta Alimentare continua online fino al 1° dicembre su alcune piattaforme dedicate: per conoscere le modalità di acquisto dei prodotti è possibile consultare il sito bancoalimentare.it.

La Colletta Alimentare, gesto con il quale la Fondazione Banco Alimentare ETS aderisce alla Giornata Mondiale dei Poveri 2025 indetta da Papa Leone XIV, ha ricevuto il patrocinio e il sostegno del  Comitato Nazionale per la celebrazione dell’VIII centenario della morte di San Francesco di Assisi ed è resa possibile dalla collaborazione con la Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, la Compagnia delle Opere - Opere Sociali ETS, l’Esercito, l’Aeronautica Militare, l’Associazione Nazionale Alpini, l’Associazione Nazionale Bersaglieri, il Lions International Multidistretto 108 Italy e la European Food Banks Federation.

sabato 15 novembre 2025

CHE COSA LEGGONO GLI ALUNNI

 



Ma gli scolari leggono? E se sì cosa leggono? Domande quanto mai attuali. Che poste da un prof a una classe di “primini” sono destinate a ricevere una sola risposta: il silenzio. Allora che fare? Procedere secondo canoni consueti oppure avviare una piccola avventura quotidiana come quella di leggere insieme qualche pagina di un classico che poi è da intendersi cosa significhi incontrare un classico della letteratura? Incontrarne i personaggi? Familiarizzare con loro? Ecco allora farsi strada la convenienza e la sorpresa dell’inconsueto

 

di Paolo Covassi

 (continua su ".CON" numero 78 della rivista del CMC

sabato 1 novembre 2025

NEWMAN DOTTORE DELLA CHIESA/ Obbedire a quella voce divina che parla dentro di noi




NEWMAN DOTTORE DELLA CHIESA/ Obbedire a quella voce divina che parla dentro di noi

Michiel Peeters Pubblicato 1 Novembre 2025

 

Oggi papa Leone XIV proclama san John Henry Newman dottore della Chiesa. Il suo insegnamento sulla coscienza è un punto di non ritorno

Il 28 ottobre, Papa Leone XIV ha dichiarato san John Henry Newman co-patrono della missione educativa della Chiesa, insieme a san Tommaso d’Aquino. Oggi, 1° novembre, lo proclamerà Dottore della Chiesa. In questo articolo discuterò una delle intuizioni più sorprendenti di Newman, ovvero che la coscienza umana ha in ultima analisi la precedenza sull’autorità ecclesiastica e che, paradossalmente, negarlo equivale a segare le gambe della cattedra di Pietro.

Nel presentare il pensiero di Newman, svolgerò un confronto serrato con quanto ha detto sull’argomento Luigi Giussani, la cui “genialità pedagogica e teologica” è stata anch’essa riconosciuta dalla Chiesa (Francesco, Discorso ai membri di Comunione e Liberazione, 15 ottobre 2022).

Mentre la mentalità dominante odierna nelle sue teorie nega del tutto l’utilità e la necessità dell’autorità (ma poi sant’Ambrogio osserva giustamente: “Quanti padroni ha chi è fuggito da uno solo?”), ci sono cattolici che – per pigrizia o per “tenere” le persone – direbbero che l’autorità ecclesiale prevale sulla coscienza personale, ad esempio con il seguente ragionamento: finché non si conosce Cristo nella sua Chiesa, vale la coscienza; ma chi accetta che Cristo è Dio può e deve semplicemente obbedire a Lui e alla Chiesa. Tuttavia, don Giussani dice: “Guai calcolare su [ignoranza e passività] per ‘prendere’ o ‘tenere’ la gente! Ogni adesione al cristianesimo, in quanto ha di puramente meccanico, non possiede valore. Perciò guardiamo con molta perplessità ogni attaccamento puramente tradizionale e ogni improvvisato entusiasmo. L’ambiente proprio della libertà è la convinzione, illuminata e volitiva” (Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, 2006, p. 29).

La tesi difesa da Newman nella sua Lettera al Duca di Norfolk (1875) – meno di cinque anni dopo il dogma dell’infallibilità papale – è che ci sono “estremi casi in cui la coscienza possa venire in collisione con la parola del Papa e che debba esser seguita nonostante quella parola” (Newman, Lettera al Duca di Norfolk, p. 57). Con il suo famoso aforisma: “Certo se fossi obbligato a mescere fra brindisi d’un banchetto la religione (cosa non molto probabile), io berrei, se vi piace, alla salute del Papa, ma prima alla Coscienza, e poi al Papa” (ibid., 69).

Per comprendere questo, è fondamentale capire che cosa intende Newman (e la dottrina cattolica) per “coscienza”. Essa è un “elemento costitutivo della mente, come può essere la nostra percezione delle altre idee, la nostra facoltà di ragionare, il nostro sentimento dell’Ordine e del Bello, e le altre nostre doti intellettuali”.

È “un principio, posto in noi prima che avessimo alcun tirocinio; benché un tal tirocinio e l’esperienza fossero necessari alla forza, incremento e debita formazione di esso”. Non è una “creazione dell’uomo”, ma “la Voce di Dio nella natura e nel cuore dell’uomo”. È il “testimone interiore e dell’esistenza e della legge di Dio” (ibid., 58; cfr. Giussani, Il senso religioso, 2023, pp. 75-77, 156-160, 167).

È un “principio [che non può] risolversi in una combinazione di principi naturali più elementari di lui”. È un “dettato [che importa] la nozione della responsabilità, del dovere, di una minaccia e d’una promessa, con vivezza tale che lo [distingue] da tutti gli altri elementi costitutivi della nostra natura” (Newman, Lettera al Duca di Norfolk, p. 59).

È “la messaggera di Colui, che con la Natura e con la Grazia ci parla dietro un velo, e ci ammaestra e ci regola per mezzo dei suoi rappresentanti” (ibid., 58). In breve, “la Coscienza è l’aborigene Vicario di Cristo, profeta nelle sue informazioni, monarca nei suoi perentori decreti, sacerdote nelle sue benedizioni ed anatemi, e, se mai potesse cessare nella Chiesa l’eterno sacerdozio, in essa rimarrebbe il principio sacerdotale e conserverebbe lo scettro” (Newman, ibid., p. 59).

Newman sottolinea poi che nulla di tutto ciò è in linea con la mentalità dominante attuale. Quest’ultima, infatti, conduce “una lotta deliberata, quasi direi una cospirazione contro i diritti della Coscienza… Ci si dice che la coscienza [non è altro che una distorsione nell’] uomo primitivo ed ignorante; che il suo imperio è una immaginazione” (ibid., p. 59-60).

Oppure, quando il termine viene utilizzato, non è nel suo significato corretto di “severa ammonitrice”, ma nel senso di quella “contraffazione” che ne ha usurpato il titolo nel XIX secolo, vale a dire il diritto di fare di testa propria (ibid., 60-61).

Ma la coscienza nel suo vero senso non è una fantasia o un’opinione, bensì una “debita obbedienza a quella che vuol essere tenuta qual voce divina, parlante al nostro spirito” (ibid., p. 64-65). Appartiene “a Dio e non all’uomo, siccome un Angelo che attraversando la terra, non ne divien cittadino o dipendente dal Potere Civile” (ibid., p. 58-59; cfr. Giussani, Il senso religioso, p.11-13).

“Per avere il diritto di opporsi all’autorità suprema … del Papa, [la Coscienza] dev’essere qualche cosa di meglio di quella infelice contraffazione…. Se, in un dato caso, deve esser seguita, come sacra e sovrana maestra, i suoi dettati per prevalere sulla voce del Papa debbono essere la conseguenza di gravi considerazioni, di preghiere, e di tutt’i mezzi atti a formare un giusto giudizio della materia di che trattasi…. A meno che un uomo non si senta sicuro di dire a sé stesso, come dinanzi a Dio, che egli non deve e non osa di agire secondo le ingiunzioni papali, egli è obbligato ad obbedire al Papa, e commetterebbe un gran peccato a disobbedirlo” (Newman, Lettera al Duca di Norfolk, p. 66).

Chiarito questo, Newman sottolinea che, secondo la dottrina cattolica, abbiamo il “dovere d’obbedire in ogni caso alla nostra coscienza”. “Colui il quale opera contro coscienza perde la sua anima” (ibid., 67) “Naturalmente, se egli è colpevole dell’errore, perché avrebbe potuto evitarlo usando maggior cautela, egli risponderà a Dio; ma tuttavia deve operare secondo quell’errore, finché vi ci si trova, perché lo crede sinceramente essere la verità” (ibid., 67-68).

“Così se il Papa ingiunge ai Vescovi Inglesi di ordinare ai loro preti di agitarsi energicamente in favore del Tetotalismo, ed uno fra essi fosse convinto che l’astinenza dal vino fosse in pratica un errore Gnostico, e però sentisse di non poter obbedire senza peccato; ovvero poniamo che il Papa ordinasse di far lotterie in ciascuna missione per qualche scopo religioso, ed un prete potesse asserire dinanzi a Dio di credere le lotterie moralmente cattive, codesto prete, in ognuno dei due casi, commetterebbe hic et nunc un peccato se obbedisse al Papa, o che avesse ragione o torto nella sua opinione, e se torto, ancorché egli non avesse avuta sufficiente cura di conoscere la verità nella materia” (ibid., p. 68; corsivo aggiunto).

Il Dottore della Chiesa sostiene che la Chiesa non si è mai espressa contro l’autorità della coscienza personale. Se così è sembrato, è dovuto al fatto che le sue parole sono state estrapolate dal contesto (ibid., p. 61-62; cfr. Giussani, Perché la Chiesa, 2014, p. 190-193). “Nessuna beffa di Papa si trova in alcun formale documento, indirizzato ai fedeli tutti, per quella dottrina solenne del diritto e dovere di seguire quella divina autorità, che è la voce della Coscienza, sulla quale invero è fondata la Chiesa stessa” (Newman, Lettera al Duca di Norfolk, p. 62). Newman approfondisce poi quest’ultimo punto essenziale: “Davvero se il Papa parlasse contro la Coscienza, nel proprio significato della parola, egli commetterebbe un suicidio, smoverebbe il terreno ove poggiano i suoi piedi. Egli ha la missione di predicare…, proteggere e rafforzare quella luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo [Gv 1,9]. Sulla legge della coscienza e sulla santità di essa si fondano tanto la sua autorità in teoria quanto la sua potenza in fatto. Spetta alla storia dire se questo o quel Papa, in questo mondo triste, tenne sempre di mira, in tutti i suoi atti, questa grande verità. Io qui considero il Papato nel suo ufficio e nei suoi doveri… Ci apparirà chiaro che il Papato ha conquistato il suo posto nel mondo e compiuto tante meraviglie a questo modo solo, fondandosi sul sentimento universale del giusto e dell’ingiusto…; principi fondamentali, profondamente impressi nel cuore degli uomini. L’essere ordinato da Dio a tener alte, proteggere e rafforzare quelle verità, di che il legislatore ha dotato la nostra natura, è la sola spiegazione d’una lunghezza di vita più che antidiluviana. La sua ragion d’essere sta nella difesa della legge morale e della Coscienza. Il fatto della sua missione è la risposta a coloro che si lamentano dell’insufficienza del lume naturale; e l’insufficienza di questo lume è la giustificazione della sua missione (Newman, Lettera al Duca di Norfolk, p. 62-63; corsivo aggiunto).

In quest’ultima frase, Newman fa riferimento alla necessità della rivelazione, data la difficoltà esistenziale che l’essere umano sperimenta nel rimanere fedele a se stesso. Secondo Giussani, esistenzialmente, la ragione umana descrive una parabola: senza l’aiuto divino, non possiamo mantenere al livello delle nostre intuizioni più elevate, per quanto accurate (Giussani, Il senso religioso, pp. 189-191, 195-205; cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae 1.1.1: “La verità che la ragione potrebbe raggiungere su Dio…”).

Ancora Newman: “La Religione Naturale, ancorché siano certe le sue fondamenta e dottrine, quando s’indirizzano agli animi riflessivi e gravi, abbisogna d’essere sostenuta e completata dalla Rivelazione, affine di parlare con efficacia all’umano genere” (Newman, Lettera al Duca di Norfolk, p. 63).

Tuttavia, mentre la natura può arrivare a qualche punto anche senza rivelazione, non vale il contrario. “Sebbene la Rivelazione sia … distinta dalla scienza della natura…, tuttavia non ne è indipendente, né senza relazioni con essa, ma ne forma il complemento, la conferma, il termine, la personificazione e l’interpretazione” (ibid.; cfr. Mt 5,17b).

Inoltre, “il Papa, che viene [dalla] rivelazione, non ha giurisdizione sulla Natura” (Newman, ibid., p. 63). Don Giussani lo spiega chiaramente ne La struttura dell’esperienza, pubblicato nel 1963 con l’imprimatur dell’Arcidiocesi di Milano. Laddove l’esperienza cristiana si presenta come “unità d’atto vitale risultante da un triplice fattore” (vale a dire l’incontro con una realtà umana, la corretta percezione del significato di tale incontro e la libera verifica di questa intuizione), l’autorità della Chiesa fa parte del primo fattore, mentre il secondo è il cuore che giudica l’incontro con quella realtà, includente la sua autorità. L’autorità, quindi, è ‘dentro’ l’esperienza cristiana; non può prevalere su di essa (Giussani, Il rischio educativo, 2014, p. 130-132).

Newman prosegue discutendo un’obiezione. Alcuni ammettono che, in effetti, il potere della Chiesa si basa sulla coscienza; ma sostengono che, una volta che ci si sottomette all’autorità della Chiesa, il Papa  “usi [di quel sentimento religioso] destramente, formando sotto la sua egida un falso codice di morale per sostenere la sua grandezza e tirannia; … così la Coscienza [diventa] sua schiava, facendo il volere di lui, quasi per divina sanzione; in guisa che in astratto ed in idea essa sia libera, ma nel fatto non mai capace di levare un volo libero, indipendente da lui, più che gli uccelli che abbiano le ali tagliate: dippiù, che, se essa potesse avere una volontà propria, ne seguirebbe una collisione [indomabile]…: imperocché che cosa addiverrebbe della ‘assoluta autorità del Papa’…, se anche la Coscienza privata avesse un’autorità assoluta?” (Newman, Lettera al Duca di Norfolk, p. 64).

Il teologo inglese spiega poi che l’infallibilità del Papa riguarda “proposizioni generali” e il “condannare certi particolari errori”, mentre la coscienza non è un giudizio sulla dottrina o su verità speculative, ma riconosce ciò che qui e ora dovrebbe essere fatto o evitato. La coscienza, come il cuore in quanto tale, è una capacità non di definire in generale, ma di riconoscere qualcosa di presente. Una “collisione” non potrebbe quindi mai verificarsi in ambiti in cui la Chiesa gode di infallibilità, ma solo nelle decisioni ecclesiastiche su questioni pratiche, ordini, legislazione e simili (ibid., p. 65), anche se è fondamentale sottolineare che, anche in questo caso, “a primo aspetto è [lo] stretto dovere [del cattolico]…, di credere che il Papa abbia ragione, ed operare conformemente: egli deve vincere quella vile, ingenerosa, egoista, volgare disposizione della sua natura, la quale al primo sentire d’un comando si muove a fare opposizione al superiore che l’ha dato, si domanda se questi non ha ecceduto ì suoi diritti, e si compiace moralmente e praticamente di cominciare dallo scetticismo. Egli non deve avere nessuna idea fissa di esercitare il diritto di pensare, parlare ed operare come gli pare e piace, senza punto tener conto del vero e del falso, del giusto e dell’ingiusto, del dovere di obbedienza, finché sia possibile, con quella passione dell’animo che ne spinge a parlare conformemente ai propri capricci e ad ostinarvisi. Se questa regola necessaria fosse osservata, sarebbero molto rare le collisioni fra l’autorità del Papa e quella della Coscienza. Dall’altro lato, nel fatto che la Coscienza è libera in fin dei conti nei casi straordinari, noi troviamo la salvaguardia e la sicurezza, dove questa fosse necessaria…, che nessun Papa potrà mai creare una falsa coscienza in pro dei suoi fini particolari” (ibid., p. 66-67; corsivo aggiunto).

Va da sé che quanto Newman afferma sul rapporto tra coscienza e l’autorità suprema del Papa vale a maggior ragione per le autorità inferiori nella Chiesa. Suggerisco qui, senza poterlo approfondire ora, che ciò che vale per la coscienza vale, e anzi, a fortiori, per il “cuore” nel senso giussaniano (il complesso di evidenze ed esigenze originali con cui l’uomo “è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste”; Giussani, Il senso religioso, p. 8; cfr. ibid., p. 7-15).

La coscienza riguarda il bene e il male, ciò che si deve fare o evitare. Newman scrisse sulla coscienza perché il dogma del 1870 riguardava l’infallibilità del Papa in materia di fede e morale, e anche perché, nella filosofia del XIX secolo, la coscienza era (ancora) un fenomeno umano fondamentale accettato (Lash, Introduction to An Essay in Aid of a Grammar of Assent, by John Henry Newman, 1979, p. 13).

Egli voleva dimostrare che, nonostante la sua infallibilità, il Papa non prevale sulla coscienza umana, ma la conferma, la completa, la personifica e l’interpreta (Newman, Lettera al Duca di Norfolk, p. 63). Ora, la coscienza morale fa parte del cuore (Giussani, Il senso religioso, p. 148-150). Non solo siamo dotati di una coscienza morale, ma anche, e prima ancora, di un senso del bello e del brutto, del vero e del falso, di ciò che libera e di ciò che soffoca, ecc. Infatti, il cuore deve prima riconoscere la presenza di questi valori affinché la coscienza possa dettare l’azione appropriata.

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giovedì 30 ottobre 2025


 

Newman. Il Dottore dell’unità

Il 1° novembre papa Leone XIV conferisce il titolo di "Dottore della Chiesa" al cardinale inglese canonizzato nel 2019. Arricchì il magistero della Chiesa superando il dualismo della modernità, oltre la contrapposizione tra ragione e fede, autorità e coscienza, legge morale e perdono

 

29.10.2025

Michael Konrad

Sacerdote della Fraternità San Carlo e studioso di John Henry Newman

Papa Leone XIV ha deciso di conferire a san John Henry Newman il titolo di Dottore della Chiesa. Newman si aggiunge così al circolo esclusivo dei 37 santi come sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino o santa Teresa di Lisieux che la Chiesa venera già come Dottori della Chiesa. Ogni santo rispecchia un aspetto particolare della vita e dell’insegnamento di Gesù e ciascuno di essi può insegnare ai fedeli qualcosa attraverso la sua testimonianza di vita e di fede; a causa del valore eminente della loro dottrina alcuni di loro ricevono però il titolo onorifico di Dottore della Chiesa.

John Henry Newman nacque nel 1801 a Londra e venne educato nella fede anglicana. Assunse con grande senso di responsabilità i suoi doveri pastorali come prete anglicano e insegnò all’Università di Oxford. Con alcuni amici fondò il Movimento di Oxford per rinnovare la Chiesa anglicana attraverso la redazione di testi che si ispiravano all’insegnamento della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa: negli anni Trenta dell’Ottocento era considerato l’intellettuale anglicano più importante del suo tempo.

Ma più approfondiva la dottrina anglicana, più era preso dai dubbi e nel 1845 Newman arrivò alla certezza che solo nella Chiesa cattolica si trova la verità piena. Si convertì, ricevette l’ordinazione sacerdotale e portò l’Oratorio di San Filippo Neri in Inghilterra. Non si può comprendere lo spirito di Newman senza tener conto della compagnia alla quale apparteneva: da san Filippo egli imparò che, per un membro dell’Oratorio, il luogo della santificazione è anzitutto la vita comune, non tanto di seguire una regola astratta, ma di amare persone concrete, con tutti i loro difetti. Nei decenni a seguire moltissimi cattolici inglesi fecero fatica a fidarsi di questo convertito, finché nel 1863 egli scrisse la Apologia pro vita sua per difendere la sincerità della conversione sua e quella dei preti cattolici in generale. Nel 1879 papa Leone XIII lo nominò cardinale. Al suo funerale, nel 1890, il feretro era seguito da una folla immensa, stimata sulle 20mila persone, tra cui uno stuolo di poveri.

Molti dei grandi pensatori del Novecento, come Romano Guardini, Erich Przywara, Edith Stein, Henri de Lubac o Yves Congar, hanno riconosciuto l’importanza del suo pensiero. Anche don Luigi Giussani ha letto da seminarista alcuni dei suoi testi principali. Przywara vedeva in Newman un potenziale nuovo dottore della Chiesa in quanto capace di dare una risposta di fede alle sfide non tanto dell’uomo antico o medievale, ma dell’uomo moderno e contemporaneo. Secondo il gesuita polacco, il cardinal Newman è infatti riuscito a superare la scissione tipicamente moderna tra l’ambito dell’oggettività, esemplificato dalle scienze naturali, e quello della soggettività, esemplificato dalla visione protestante della fede. Desidero esemplificare questa intuizione di Przywara riguardo a tre ambiti.

Coscienza morale e autorità hanno bisogno l’una dell’altra. Compito principale della coscienza personale è quello di riconoscere l’autorità da seguire

Una prima scissione che Newman ha superato è quella tra ragione e verità. Newman comincia negli ultimi Sermoni universitari, ancora da anglicano, a combattere la convinzione razionalista che la differenza tra la ragione e la fede stia nel fatto che la prima si basi su delle prove forti, la seconda invece su delle prove deboli. Secondo lui la ragione consiste invece nella facoltà di procedere dalle cose che sono percepite alle cose che non lo sono, esattamente come fa anche la fede. La fede usa il metodo della ragione, ed è pertanto ragionevole. Definita in tal modo, tuttavia, la ragione non può più avere la pretesa di essere infallibile. Newman individua, perciò, delle strade che la possono fortificare e allargare. In primo luogo, afferma che delle affezioni adeguate rendono la ragione più sana: una persona che ama si sbaglierà meno nell’indagine sulla persona amata. In secondo luogo, insiste sulla necessità di avere una visione sintetica della realtà: chi percepisce il senso dei singoli fenomeni, e i nessi che esistono tra loro, li conosce più in profondità. «Un tipo di pensiero filosofico», scrive, «(…) implica una concezione del vecchio connessa con quella del nuovo; un’intuizione delle relazioni e dell’influenza di ogni parte su ogni altra; senza la quale non c’è totalità, e non potrebbe esserci alcun centro».

In terzo luogo, Newman afferma che la conoscenza è un fenomeno dinamico: una persona che ripete da adulto le cose come le ha imparate da bambino, una persona cioè che non continua permanentemente a imparare da ciò che gli accade, non è in contatto con la realtà. Nel suo scritto Lo sviluppo della dottrina cristiana, egli applica quest’idea anche alla Chiesa stessa, che comprende nel tempo sempre di più le verità che ha confessato da sempre. Un ultimo fattore che fortifica la ragione, sul quale Newman insiste soprattutto ne L’idea di università, è la comunione: la verità si riconosce nel dialogo con gli amici.

Come si evince da quanto detto, Newman non considera la ragione in modo astratto, ma come una facoltà incarnata, legata strettamente alla singola persona e alla sua storia. Nonostante tale concetto di ragione sia dunque soggettivo, il suo compito è quello di riconoscere la verità oggettiva. Newman crede fermamente nell’esistenza del dogma, di una verità immutabile, che però ciascuno deve tentare di comprendere come può. Sebbene si sforzi di conoscere le affermazioni della Chiesa nel modo più esatto possibile, non le accetta mai senza ripensarle completamente in base alla propria esperienza e ai suoi primi princìpi personali.

Per il filosofo antico, la misura della moralità è lui stesso. Per il santo cristiano è Cristo: nel paragone con Lui, anche la persona più santa deve ammettere di essere molto lontana dalla perfezione

Un secondo ambito nel quale Newman supera la scissione tra oggettività e soggettività riguarda il rapporto tra la coscienza morale personale e l’autorità. Anche qui evita le visioni fondamentaliste e unilaterali. Secondo lui coscienza e autorità hanno bisogno l’una dell’altra. Da anglicano, Newman tentò di approfondire la tesi protestante secondo cui una persona normalmente si converte meditando da sé la Scrittura. Egli scrutò pertanto i testi sacri per vedere come gli uomini si convertivano nei racconti biblici e rimase colpito soprattutto da un particolare episodio: l’incontro tra l’apostolo Filippo e il ministro etiope. Quest’ultimo stava meditando il Cantico del Servo sofferente di Isaia. Alla domanda di Filippo se capiva ciò che leggeva, il ministro risponde: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?» (At 8,31). Newman interpreta questa risposta affermando che il cristiano non deve tanto cercare di capire da solo la Scrittura, ma piuttosto cercare qualcuno che gliela possa spiegare: un maestro. Compito principale della coscienza personale è dunque quello di riconoscere l’autorità da seguire.

Alcuni anni dopo Newman fa un passo in avanti e si chiede quale qualità dovesse avere quest’autorità che pretende di spiegare il senso delle Scritture e risponde: un maestro che vuole spiegare la Rivelazione deve avere la pretesa di essere infallibile, altrimenti non vale neanche la pena di ascoltarlo. Chi cerca la verità su Dio non cerca opinioni personali, ma la voce della Chiesa, cioè la voce di Cristo. Arrivato a questa intuizione, Newman chiede di essere accolto nella Chiesa cattolica, non certo per motivi di opportunità, ma per motivi di coscienza.

Venticinque anni dopo la sua conversione, il Concilio Vaticano I promulga il dogma dell’infallibilità papale e Newman si trova a confrontarsi con un nuovo problema. Alcuni cattolici ultramontanisti avevano interpretato il dogma fino a considerare il Papa infallibile in tutte le sue affermazioni. Newman ribadisce di nuovo l’importanza dell’infallibilità, ma senza dimenticare l’altro piatto della bilancia, cioè la coscienza morale del singolo. Senza negare affatto che la Chiesa abbia la potestà di insegnare con autorità sulle materie di fede e di morale, il Cardinale afferma: «Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia, prima alla Coscienza, poi al Papa».

Per Newman coscienza morale e autorità non si escludono a vicenda, ma si richiedono reciprocamente. Una persona che cerca sinceramente il bene e si accorge dei propri limiti non può che desiderare di trovare un’autorità che la possa guidare nella propria ricerca. Invece, un’autorità come quella della Chiesa, che non ha a disposizione mezzi di costrizione fisica, non può che far appello alla coscienza del singolo augurando che egli possa riconoscere il vero. La Chiesa e la coscienza morale sono per Newman due vicari di Cristo, il loro compito è quello di assistere il singolo nella sua ricerca della volontà di Dio.

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mercoledì 29 ottobre 2025

Colletta 2025. «Chiamati a nuovi segni di speranza»

 



Colletta 2025. «Chiamati a nuovi segni di speranza»

Tra le mura del carcere di Opera, la presentazione della Giornata di raccolta di alimenti per i poveri promossa dal Banco Alimentare che si svolgerà il prossimo 15 novembre. Una «potenza di bene» che da quasi trent'anni coinvolge milioni di persone in tutto il Paese

 

24.10.2025

Giuseppe Beltrame

«Cos’è la carità?». È partita da questa domanda “innocente”, pronunciata quindici anni fa da una persona detenuta, l’idea di presentare nella Casa di Reclusione di Opera la ventinovesima giornata della Colletta Alimentare. L’incontro del 17 ottobre è stato un dialogo a più voci, moderato da Giuliana Malaguti, responsabile della comunicazione della Fondazione Banco Alimentare ETS.

A porre la questione era stata una delle tante persone recluse a cui fanno visita i volontari dell’associazione Incontro e Presenza Odv, che da quarant’anni si impegna ad incontrare i detenuti nelle carceri lombarde. «Portiamo qui la Colletta», era stata la risposta concreta dei volontari. Da allora, ad ogni edizione, aderiscono sempre più istituti penitenziari, l’anno scorso una quarantina in tutta Italia con risultati inimmaginabili. «Nel 2024 abbiamo raccolto oltre 3.300 kg di alimenti solamente nelle carceri di Opera, San Vittore, Bollate e Monza», ha spiegato Fabio Romano, presidente dell’associazione.

«Quest’anno la data da cerchiare in rosso sul calendario è sabato 15 novembre», ha esordito Marco Piuri, neo presidente della Fondazione Banco Alimentare ETS. «Nella scorsa edizione i 155.000 volontari sparsi in 12.000 punti vendita hanno invitato i cittadini a donare parte della propria spesa per i più poveri, raccogliendo 7.900 tonnellate di alimenti. I numeri sono in costante aumento: 7.600 strutture caritative vengono in soccorso a 1.755.000 persone». Piuri ha continuato ricordando il messaggio che accompagna questa edizione, tratto dal discorso di Leone XIV per la IX Giornata Mondiale dei Poveri. «Tutti siamo chiamati a creare nuovi segni di speranza che testimoniano la carità cristiana», le parole del Pontefice sembrano motivare la decisione di presentare la Colletta in un carcere, una scelta accolta con entusiasmo da chi vive nella struttura. «Stamattina tra i corridoi che avete percorso per arrivare qui c’era grande fermento», ha spiegato Incoronata Corfiati, primo dirigente di polizia penitenziaria del Carcere di Opera. «Del resto la solidarietà negli istituti di reclusione coinvolge tutta la comunità, non solo chi sconta la sua pena».

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martedì 28 ottobre 2025

Le Roy Ladurie, cosa ci dice la storia del clima quando Greta non c’era


 

LETTURE/ Le Roy Ladurie, cosa ci dice la storia del clima quando Greta non c’era

Danilo Zardin Pubblicato 28 Ottobre 2025

 

Gli studi di Emmanuel Le Roy Ladurie, in particolare il classico “Tempo di festa, tempo di carestia” dedicato al clima nel Medioevo, sono attualissimi

 

Il pessimismo catastrofista che ai giorni nostri dilaga si riflette in modo eloquente nella prospettiva con cui guardiamo all’evoluzione dell’ambiente naturale. Predomina la concezione di un declino inesorabile verso il peggio, incentivato dall’influsso largamente nocivo del fattore umano, implicato in modelli di vita sociale basati sul saccheggio delle risorse non recuperabili e sullo spreco spropositato di ciò che finisce nell’accumulo dei rifiuti, producendo l’inquinamento di un mondo sempre più contaminato, intaccato nelle sue fibre più profonde.

Le distorsioni crescenti dell’andamento climatico, accompagnate dal riscaldamento accelerato del globo, appaiono come il segno patologico di una disfunzione di fronte alla quale ci si sente indifesi, sotto minaccia: sono l’indizio di una rottura di sintonia tra l’uomo e il suo contesto, che si è accentuata con l’avanzata del progresso contemporaneo e rischia di scardinare il futuro che si profila all’orizzonte.

Valutare il peso reale dell’asservimento degli assetti planetari alle logiche dell’odierno sfruttamento squilibrato, senza freni adeguati, non è facile impresa. Ma sta di fatto che gli schemi di giudizio adottati dai profeti di sventura che pontificano sui mezzi di comunicazione di massa e ispirano i progetti dell’ecologismo più radicalmente estremizzato non tengono conto di una realtà fondamentale: il clima risente certamente del fattore umano, quando e là dove questo si fa sentire con una forza di pressione esorbitante, ma è prima ancora condizionato da dinamiche interne di evoluzione radicate nella fisicità delle strutture materiali della natura.

I movimenti delle grandi masse atmosferiche, le ondate cicloniche, per citare degli esempi, hanno subito costanti oscillazioni sul filo del tempo, e tutto lascia credere che continueranno a farlo anche in una cornice ambientale ostile. Fin dalle ere geologiche più remote, lo sappiamo bene, il contesto climatico non è mai stato regolato da catene di inquadramento assolutamente rigide, in sé immodificabili.

Anche le linee di tendenza attuali potrebbero essere corrette, riorientate magari in modo decisivo. Ma queste linee di sviluppo non sono determinabili con precisione millimetrica, tanto meno si possono pianificare in nome di una ingegneria disegnata secondo i contorni delle nostre imperiose (e magari molto discutibili) preferenze ideologiche.

Il richiamo potente a non trascurare la mobilità elastica del clima è emerso nel corso del Novecento a seguito della crescita massiccia delle tecniche di ricerca applicate all’analisi dei fenomeni atmosferici, dei loro effetti e delle loro possibilità di contenimento.

L’accumulo dei dati è stato messo al servizio di una capacità di previsione del tempo futuro sempre più estesa e raffinata. Ha preso piede la meteorologia moderna, che ci dispensa quotidianamente le sue persuasive certezze.

Nello stesso tempo la climatologia non ha potuto evitare di guardare anche all’indietro, per cogliere le premesse e misurare meglio le anticipazioni della realtà che oggi sperimentiamo. Ѐ diventata così proponibile una ricostruzione del cammino conosciuto dal clima lungo la corsa del tempo che porta fino al presente. E a partire dai decenni centrali del secolo scorso si sono moltiplicati i tentativi per valorizzare il patrimonio di informazioni rese disponibili in merito all’evoluzione dei fatti climatici come punto di vista in grado di illuminare, in presa diretta, le relazioni della vita dell’uomo con gli ambienti da lui abitati.

L’interesse per la messa a fuoco di questo sfondo dell’esperienza collettiva che ci siamo lasciati alle spalle è stato nutrito soprattutto dalla rivoluzione storiografica che ha avuto il suo epicentro nella scuola francese delle Annales.

Il desiderio di guardare alla storia degli attori umani in termini globali, scendendo dalle vette delle élites del potere e della cultura fino agli strati più umili delle basi materiali e persino dei pilastri biologici dei sistemi di civiltà che si sono succeduti sullo scenario mondiale, ha agito come uno stimolo fecondo a favore della dilatazione dell’orizzonte: si trattava di allargare lo sguardo storico in direzione dei rapporti stabiliti con i contesti naturali segnati dalla forte incidenza delle condizioni climatiche. Ѐ il compito in cui si è distinto come maestro autorevole Emmanuel Le Roy Ladurie (1929-2023).

Le sintesi che egli ha ricavato da una sistematica revisione delle prospettive tradizionali sono condensate in una serie di saggi importanti pubblicati a partire dagli anni intorno al 1960, che si possono rileggere ancora con grande profitto in volumi come l’antologia Problemi di metodo storico, curata da Fernand Braudel (Laterza, 1973 e 1982), oppure nella raccolta di scritti dello stesso Le Roy Ladurie apparsa in lingua italiana con il titolo di Le frontiere dello storico (Laterza, 1976). Il contributo più rilevante rimane, su questo fronte, uno dei libri di maggior successo dello storico francese: Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dell’anno mille (Einaudi, 1982).

Il cardine delle ricostruzioni offerte in questi lavori è la sottolineatura dell’optimum climatico del XX secolo, caratterizzato da una diffusa propensione, in tutto l’Occidente euroamericano, all’innalzamento delle temperature nelle diverse stagioni dell’anno, in particolare con la serie di quelle che Le Roy Ladurie definisce le “splendide annate” del 1942-53.

Alla fine degli anni 50 del secolo scorso si manifestarono comunque i segni di un’inversione di rotta, con il ritorno a un relativo raffreddamento: eppure la pressione del fattore antropico era in fase di deciso aumento, nel quadro del generale decollo della società del benessere nell’euforico “nuovo corso” postbellico.

D’altra parte, in senso contrario, il rialzo termico che si era cominciato a registrare a partire dalla fine (e soprattutto dall’ultimo decennio) dell’Ottocento, certamente non spiegabile in base alla riduzione dello scudo protettivo dell’ozono o all’aumento esponenziale dell’inquinamento, segnò una netta inversione di tendenza rispetto a quella che gli specialisti hanno etichettato come la “piccola età glaciale” degli anni 1580-1850 circa: una fase di sensibile inversione climatica che, stando ai riscontri materiali superstiti, interessò quanto meno le aree continentali disposte intorno all’Atlantico settentrionale nel loro insieme. Il raffreddamento aveva cominciato a manifestarsi intorno alla metà del secolo XVI e raggiunse il suo culmine dopo il 1600: riduzione del ciclo vegetativo, sottoproduzione agricola, frequenti carestie, abbassamento della qualità dei vini, espansione dei ghiacci nelle zone elevate e nelle terre nordiche ne furono i contrassegni espliciti.

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venerdì 24 ottobre 2025

Enzo Piccinini: un giudizio sempre attuale

 Un giudizio sempre attuale



Ieri ero a Bari, avevamo fatto una serie di cose nella comunità, ero anche molto contento. Abbiamo fatto una ricchissima colazione fantastica lì con il gruppetto e a un certo punto per radio si sente – parlano dell’ex Jugoslavia – che riinizia la guerra: mobilitazione generale, notizie terrificanti e uno si blocca. Io credo che se uno è minimamente cosciente di sé, di fronte a quella roba lì non riesce più a mangiare, perché il problema vero è che sono riusciti a toglierci quella sensibilità per cui uno quasi senza volerlo dice: ”Ma io cosa c’entro? Sono affari loro, han sempre litigato”, oppure: ”Sono africani”, o “Sono musulmani”. Cioè, hanno tolto qualcosa dal cuore e dalla mente per cui di quel che succede io posso dire “non c’entro”. Ma se di quel che succede io posso dire o vivere come se non c’entrassi, che cosa hanno tolto? Il senso del mistero e dell’assoluto, cioè hanno tolto il destino! Uno è come se vivesse senza la coscienza del destino perché, con la coscienza del destino, quel destino è uguale a quello di chi là sta morendo adesso in casa sua perché due fazioni litigano. O come le centinaia di persone che sono morte, la gente delle barche: erano un popolo, questa gente qui, distrutti, e continuano ancora adesso, centinaia, migliaia di morti, annegati! Ma come si fa a stare al mondo? Con che dignità continuo a fare tutto senza una risposta a questo, senza un minimo di risposta a questo? Lo possiamo fare: lo sapete perché? Ci han tolto il senso del destino, il senso del mistero. “Cosa c’entro io? Sono affari loro, no?” E così continuiamo come niente fosse, con nemmeno l’inquietudine di dire: “Signore aiutali, pensaci tu!” Nemmeno quest’inquietudine qui…
(da un'Assemblea a Bologna, 21 giugno 1992)
 


Quando mi sono convertito, all’inizio, c’erano vari problemi, perché i miei amici di prima (che erano piuttosto tenaci e duri, era il periodo della guerra in Vietnam) mi perseguitavano. E il tono era questo: «Ti sei fatto il tuo angolino, eh? Vai anche a pregare. Cosa fai per il Vietnam? Non ti rimorde la coscienza?». Ero un po’ ricattato, non riuscivo a capire. Una volta c’era stata una manifestazione, uscivo dalla mensa universitaria, mi hanno circondato e hanno incominciato un’invettiva durissima.
Vedevano che ero debole proprio nelle ragioni. Io stavo malissimo, non riuscivo a rispondere; a un certo punto mi è venuta l’idea e ho detto loro: «Io per il Vietnam costruisco la Chiesa, qui». Non lo scorderò più: questa è la verità della questione.
Oggi quando mi vedono si vergognano, perché fanno tutti i mestieri che non volevano fare e il loro “sinistrismo” è rimasto nei viaggi in Oriente, nel verdismo o nel fare i sub e scambiarsi le foto o nel portare il cane a passeggio. Questo è quello che è rimasto. Io, invece, sono ancora sulla breccia! Qualche volta dico a qualcuno di loro: «Che cosa fai per il Vietnam?». C’è un pezzo fantastico dei Cori da «La Rocca» di Eliot: «Senza tempio non ci sono dimore»: senza la presenza del Mistero che ci ama, non c’è posto per l’umanità. Per questo bisogna costruire la Chiesa.
(dall'incontro pubblico "Il Cristianesimo è per la felicità dell’uomo" - Ferrara, 14 maggio 1999)
 

 

lunedì 20 ottobre 2025

Lettura e drammatizzazione di testi scelti de "La scarpina di raso" di Paul Claudel (Taranto)


 

Domenica 19-10-2025, alle ore 17.00, nell'auditorium della Biblioteca Acclavio di Taranto ha avuto luogo una lettura drammatizzata di testi scelti e selezionati dall'opera teatrale di Paul Claudel "La scarpina di raso".

Lettori: Prof. Luigi Ricciardi, Prof.ssa Gemma Barulli, Prof. Aldo Capotorto.

Scelta dei brani e commento dell'opera: Prof.ssa Gemma Barulli  

venerdì 17 ottobre 2025

India. Un premio al “seva” di Rose

 



India. Un premio al “seva” di Rose

La fondatrice del Meeting Point di Kampala, in Uganda, ha ricevuto, davanti a duemila persone, un riconoscimento durante il One World One Family World Cultural Festival 2025. «Rose, guidata dall’incontro con don Giussani, ha potuto scoprire la sua chiamata ad aiutare le persone»

 

16.10.2025

Anna Leonardi

Rose Busingye riceve il premio da Sadhguru del "One World One Family World Cultural Festival 2025"

Come un Festival in India, organizzato in occasione del centenario della nascita di Sathya Sai Baba, uno dei più noti maestri spirituali dell’India contemporanea, abbia scoperto e voluto premiare Rose Busingye, l’infermiera ugandese che da trent’anni lavora con le donne sieropositive e bambini orfani di Kampala, resta abbastanza un mistero. Eppure lo scorso 23 agosto Rose, insieme ad una delegazione del suo Paese, è arrivata a Muddenahalli, nel sud del Paese, ed è salita sul palco dell’enorme centro congressi Sathya Sai Grama, per ricevere il premio per il suo “seva”, una parola in hindi per indicare il servizio disinteressato come forma universale di amore.

«Quando mi hanno convocato non volevo crederci, pensavo a uno scherzo, ho buttato via la mail. Poi mi hanno riscritto e fatte le verifiche presso consolati e ambasciate, ho capito che avevano scelto proprio me. E che l’evento non era proprio una cosa da niente. Alla fine sono partita», racconta Rose.

Il One World One Family World Cultural Festival 2025 ha una durata complessiva di cento giorni - dal 16 agosto al 23 novembre - e vede la partecipazione di nazioni provenienti da tutto il mondo. Il festival è organizzato in collaborazione con il Ministero della Cultura del Governo dell’India e con l’Indira Gandhi National Centre for the Arts. Il programma comprende spettacoli culturali, celebrazioni spirituali oltre a promuovere iniziative sociali di forte impatto, come l’apertura presso il Sathya Sai Grama, di un ospedale gratuito da 600 posti letto concepito per offrire cure di alta qualità a tutti, senza distinzione di reddito o provenienza. In questa carrellata di eventi, ogni giorno vengono presentate e premiate persone impegnate in progetti di nutrizione, istruzione, sanità e di benessere per la comunità. Persone semplici e straordinarie che si sono distinte per un “amore in azione” – come stabilisce il Corporate Social Responsibility, il comitato, all’interno del festival, incaricato dell’assegnazione dei riconoscimenti.

Sulla targa del premio consegnato a Rose si legge: “Voce del valore infinito e della speranza”. Ed è questo che ha raccontato al momento della premiazione, quando, vestita con un sari di seta, si è trovata inaspettatamente davanti a una platea di duemila persone. «Essendo riuscita a partire all’ultimo e non avendo capito bene come si sarebbero svolte le cose, non mi ero preparata un vero discorso», spiega. «Quando ho visto tutte quelle persone mi sono sentita svenire. Ma ho pensato: “Gesù mi hai fatto arrivare fin qui, adesso tocca a te!”». Rose, dopo qualche tentennamento di commozione, inizia a parlare ripetendo ciò che ha sempre detto a chiunque abbia incontrato sulla sua strada: «Tu, in qualsiasi condizioni ti trovi ora, hai un valore. Sei prezioso. Povero, ricco, malato, moribondo non è la morte a definirti». Parole che lei per prima si sentì dire da don Giussani, quando in crisi e schiacciata dal peso delle opere che con lei erano nate, lui la guardava come a un tesoro inestimabile. Chi era don Giussani e come abbia sostenuto il suo lavoro è la presentatrice del festival a spiegarlo alla platea: «Rose, guidata dall’incontro formativo con don Giussani, il sacerdote italiano che ha fondato il movimento di Comunione e Liberazione, ha potuto scoprire la sua chiamata ad aiutare le persone».

 

Chiamata che si è concretizzata nel tempo in alcune opere come la Welcoming House, che raccoglie neonati abbandonati nelle pattumiere di Kampala, la Luigi Giussani Primary e High School e il Meeting Point International. Rose, continuando il suo discorso, ne descrive il cuore: «Distribuiamo farmaci, paghiamo le rette, facciamo counseling, ma le cose materiali sono solo degli strumenti perché ciascuno che arriva da noi si senta accolto, riconosca la dignità infinita che ha. A chiunque diciamo: “Guarda che sei di più di ciò che riesco a darti”».

La cerimonia si conclude con le parole di Sadhguru, uno dei più popolari guru indiani contemporanei e discepolo di Sai Baba, che dopo aver consegnato il premio a Rose, dice: «Ci sono persone a questo mondo mosse da un amore puro e questo è il motivo per cui in un mondo sempre più diviso c’è ancora la pace. Magari non si tratta di grandi organizzazioni, ma di persone semplici, che spaccano le pietre e fanno collane per raccogliere soldi da mandare a nazioni apparentemente più ricche di loro (si riferisce alle donne del Meeting Point, ndr) perché riconoscono che l’altro ci appartiene, e se ne fanno carico. È solo questo a tenere ancora il mondo insieme. Sono le donne e gli uomini che fanno la volontà di Dio qui sulla terra».

Quando Rose, prima di far ritorno a Kampala saluta Sadhguru, gli dice: «Non ho ancora capito come avete pescato proprio me in Uganda. Ma vi ringrazio perché lontano da casa mi sono sentita a casa. C’è qualcosa nel tuo volto che brilla. È la presenza del Mistero che fa me e te». Sadhguru le regala la stola e il monile d’oro che ha al collo e le sussurra: «Puoi chiedermi quello che vuoi. Ma una cosa te la chiedo io: l’anno prossimo voglio venire a trovarti. Voglio venire a vedere».   

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