domenica 21 settembre 2025

Padre Ielpo. «La fraternità è una necessità»


 

Padre Ielpo. «La fraternità è una necessità»

Il Custode di Terra Santa sul senso della sua nuova missione. «A volte basta un incontro imprevisto, anche dentro un’agenda piena di impegni, per accorgermi che Cristo non mi lascia mai solo»

 

18.09.2025

Maria Acqua Simi

Ci incontriamo a Milano, nella sede dell’associazione Pro Terra Sancta, l’ong che da anni sostiene l’opera della Custodia. Padre Francesco Ielpo, eletto da pochi mesi Custode di Terra Santa, è in Italia per pochi giorni prima di rientrare a Gerusalemme. La sua casa adesso è là, nel convento di San Salvatore insieme ad altri 78 frati minori, ma la sua missione abbraccia anche Siria, Giordania, Libano, Cipro e Rodi e alcuni conventi in Egitto, Italia, Stati Uniti d’America e Argentina.

Ci abbiamo messo un po’ per ottenere questa intervista, non perché il personaggio sia refrattario a parlare con la stampa ma perché incarna esattamente l’abito che porta: essenziale. «Parlo solo se ho qualcosa da dire», dice sommessamente, quasi a schermirsi. Questa volta di cose però ce ne sono state, da raccontare.

 

Padre Francesco, lei si è ritrovato in un ruolo difficile e di grande responsabilità in uno dei momenti forse più delicati per la Terra Santa e il Medio Oriente. Come lo sta affrontando?

Fin da subito ho avvertito una sproporzione tra quello che sono e l’incarico che ricopro. Se dimentico che sono al servizio dell’ordine dei frati minori e dei cristiani di Terra Santa, provo una vertigine perché le forze sembrano non bastare mai. E certamente la responsabilità potrebbe spaventare, anche perché la situazione è delicata. Mi sono tornate spesso alla mente le parole del cardinale Giovanni Montini, poi Paolo VI, contenute nei suoi diari. Vado a memoria, sono passati più di quindici anni da quando le ho lette, ma diceva che più crescono le responsabilità all’interno della Chiesa, più si rischia di assomigliare sempre di più alle statue sulle guglie del Duomo di Milano: tutti ti vedono, ma sei solo. È un’immagine vera, perché non hai più qualcuno con cui condividere tutto, resti tu con la tua coscienza davanti a Dio e con le tue scelte da prendere. Quello che sperimento, però, è una solitudine abitata. Perché, accanto a me, ci sono sempre volti di amici nuovi, donati, che magari non avrei scelto e che sono diversi dagli amici di una vita, ma che il Signore mi mette accanto per ricordarmi chi fa davvero tutte le cose. Così, a differenza di quelle statue sul Duomo, in questa nuova missione non mi sta mancando una compagnia. A volte basta un incontro imprevisto, anche dentro un’agenda piena di impegni, per accorgermi che Cristo non mi lascia mai solo.

Lei del resto ha ripetuto più volte che la sua è una missione da vivere nella fraternità. Ci sta riuscendo?

Per grazia di Dio sì. Non si può vivere senza compagnia, senza la manifestazione concreta della prossimità di Cristo. Spesso si palesa in maniera impensabile. Una sera mi trovavo a Roma con alcuni provinciali dei frati minori, prima di tornare a Gerusalemme. Salutando uno di loro, che non conosco benissimo ma che stimo, chiesi se avesse una parola da dirmi prima di partire. Mi rispose solo: «Cercati un amico». È stato il consiglio più bello. Non si può vivere una vita senza amici. Credo che si possa vivere senza moglie o marito, come la vita consacrata o sacerdotale dimostrano, ma nessuno può vivere senza amici. Anche Gesù non ha potuto farne a meno.

Lei vive nel convento di San Salvatore, quindi in una quotidiana esperienza di comunità…

Sì, siamo 78 frati, ci sono anche gli studenti di teologia e i frati più anziani. Siamo in tanti ed è prezioso riaccorgersi che anche la vita comunitaria ha bisogno di una regola. Perché la regola aiuta a mettere i paletti che custodiscono il cuore di ciascuno. Essere fedeli agli appuntamenti, ai gesti comuni, alla preghiera è un grossissimo aiuto a non disperdersi e a non isolarsi. La fraternità è una necessità.

Difficoltà incontrate in questi primi mesi da Custode?

Una è sicuramente quella del linguaggio. Non conoscere l’arabo, dover parlare sempre tramite interprete, ridurre concetti a me cari a parole semplificate… Dentro al lessico passa tutta la tua cultura, tutta la tua tradizione e la tua storia in fondo. Mi crucciavo molto di questo ma ho scoperto che esiste un linguaggio universale, più diretto: la persona stessa, il modo in cui ti poni. A volte quello che resta non è un discorso, ma un sorriso, una pacca sulla spalla, un abbraccio. Francesco d’Assisi e il sultano, quando si incontrarono ottocento anni fa, non parlavano la stessa lingua, ma avevano forse la stessa posizione del cuore. È lì che nasce la possibilità di incontro. Ecco, sto imparando che il Signore non vuole da noi abilità particolari, ma ci chiede la disponibilità affinché sia Lui a operare attraverso di noi. Per questo dico che il compito del custode è – ne sono sempre più convinto – custodire la posizione del cuore.

Da dove nasce questa intuizione?

Un’amica una volta mi ha detto: «Ricordati che la prima opera sei tu». Alla fine, la questione è questa: custodire il proprio cuore, cioè la posizione di apertura al Mistero. Custodire la propria vocazione, perché se la prima opera sono io, il primo lavoro da fare è su me stesso. Se non lo facessi, diventerei un funzionario, un diplomatico, uno che gestisce tante cose ma perde la verità di sé. Questa missione è impegnativa, spesso faccio esperienza dell’impotenza: ci sono cose che non si possono cambiare come la guerra o le piccole mancanze che ognuno di noi può avere. Sembra una banalità, ma ogni tanto bisogna ricordarsi che certe cose brutte resteranno tali per quanti sforzi, idee, intelligenza mettiamo in campo. Questo non significa non adoperarsi perché le circostanze migliorino, ci mancherebbe. Ma sto imparando quanto sia decisivo guardarle in tutta la loro drammaticità portandole come le avrebbe portate Cristo. Non disperati, ma con uno sguardo che non perde la speranza.

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/padre-francesco-ielpo-custode-terra-santa#:~:text=CHIESA-,Padre%20Ielpo.%20%C2%ABLa%20fraternit%C3%A0%20%C3%A8%20una%20necessit%C3%A0%C2%BB,Non%20perderti%20il%20meglio,-Uno%20sguardo%20curioso

Un tema molto dibattuto è quello della presenza cristiana in Medio Oriente. Cosa significa restare mentre tutto intorno crolla?

Il nostro primo compito è esserci. È la lezione di otto secoli di Custodia: la Chiesa non chiede dei supereroi, ma una presenza che resta. A Gaza i religiosi avrebbero potuto andarsene dopo il 7 ottobre, molti di loro hanno passaporto internazionale, e invece sono rimasti accanto alla gente. Non risolveranno il conflitto, ma testimoniano che Dio non abbandona nessuno. Anche in Siria, negli anni dell’occupazione jihadista, i nostri frati sono rimasti nei villaggi cristiani dell’Oronte subendo rapimenti e minacce. In quel momento per noi sembrava tutto difficile e buio. Nel tempo, però, anche i jihadisti hanno dovuto fare i conti con la presenza cristiana, che è diversa da tutte le altre. Lo hanno riconosciuto. E ora che sono al governo in Siria hanno un’idea di cosa sia il cristianesimo proprio grazie a quegli anni. Non cambiamo il mondo con la forza, ma con la fedeltà di una presenza.

Molti cristiani, però, scelgono di lasciare la Terra Santa. Come vive questo fenomeno?

È doloroso, certo. Ma non spetta a noi dire a una famiglia “devi restare” o “devi partire”. La Custodia accompagna chi resta, senza giudicare chi parte. Però ho capito una cosa: non basta garantire scuole, sanità o lavoro perché le persone restino. Certo noi frati – anche attraverso la nostra ong Pro Terra Sancta – ci adoperiamo per un sostegno concreto, soprattutto in Cisgiordania dove da due anni l’80 per cento della popolazione è senza lavoro, non esiste welfare e le famiglie faticano a pagare le rette scolastiche e ad arrivare alla fine del mese. Per rimanere però serve una ragione più profonda. Come custode sento l’urgenza di aiutare la gente a trovare le ragioni per cui in ogni circostanza della vita, in qualunque condizione, è possibile vivere ed essere uomini liberi.

 

martedì 16 settembre 2025

PALESTINA/ La pietà e la memoria: Anna Foa e la tragedia di Gaza


 

PALESTINA/ La pietà e la memoria: Anna Foa e la tragedia di Gaza

Massimo Borghesi Pubblicato 14 Settembre 2025

 

Di fronte al genocidio perpetrato dal governo di Israele, Anna Foa su "La Stampa" propone di dare, ove possibile, un nome ai palestinesi

Anna Foa è una storica di professione ed è ebrea. Il suo ultimo libro, vincitore del premio Strega, ha un titolo significativo: Il suicidio di Israele (Laterza, 2024). Sabato 13 settembre ha pubblicato su La Stampa un articolo, Dall’Egitto a Gaza, il dolore dell’esodo, che non può passare sotto silenzio. È un testo breve di grande bellezza. In esso scrive:

 

“Nelle raffigurazioni delle Haggadoth medioevali, il libro letto a Pasqua dagli ebrei, l’esodo dall’Egitto è rappresentato in vesti medioevali: gli ebrei sono raffigurati come nelle espulsioni che nel Tre-Quattrocento ne resero difficile la vita in Europa. Se ne andavano con i loro averi trasportati sui carri, uscendo dalle porte delle città, dopo che i decreti cittadini li avevano scacciati. Con le loro vesti medioevali, i loro cappelli segno di infamia, le loro donne e i loro bambini. Se oggi dovessimo fare altrettanto, la nostra immagine dell’Esodo sarebbe quella che vediamo nei video trasmessi dalla televisione, della lunga fila di macchine, furgoni, carretti che portano i palestinesi di Gaza City verso Sud, sgombrando la città per distruggerla dalle fondamenta. I carri medioevali hanno ora il motore, ma la lunga fila è la stessa, il dolore dell’esilio lo stesso”.

Ciò che è diverso, osserva la storica, è il rischio della morte. Gli ebrei esiliati potevano, nel Medio Evo, trovare rifugio altrove, rifarsi una vita. A Gaza questo è impossibile, i profughi, stretti in un lembo di terra divenuto una prigione, non sanno dove andare. Ogni posto, i campi profughi, le case, le tende in riva al mare, sono potenziali luoghi di morte. Questa consapevolezza muove Anna Foa a porsi una domanda che oggi nessuno pone, una domanda che va al cuore della tragedia, oltre la guerra che divide due popoli.

 

“Chi sono coloro che si muovono in queste lunghe interminabili file? Di alcuni di loro abbiamo notizie, perché ne conosciamo il nome, hanno insegnato nelle università, lavorato negli ospedali, dato come giornalisti notizie che solo i giornalisti di Gaza erano autorizzati a trasmettere. Di altri, vecchi, donne, bambini, nulla sappiamo se non il dolore che leggiamo sui loro volti senza sorriso. Ma l’ordine di evacuazione varato dal governo di Israele azzera le vite di tutti. Non ci sono più privilegiati, se non coloro che hanno abbastanza denaro per farsi aiutare nella fuga, ma per andare dove? Amici, amici di amici, scrivono chiedendo di essere aiutati a uscire da quella prigione a cielo aperto. Ma come?”

“Le difficoltà burocratiche, quelle politiche e militari dell’esercito e del governo israeliano, quelle stesse della inenarrabile confusione di questo esodo lo rendono difficilissimo, forse impossibile. L’ossessione israeliana per i muri, i checkpoint, le proibizioni di muoversi trova qui la sua mortale apoteosi. Quanti di questi individui in fila per salvarsi sopravviveranno? E potremo mai ricordare i nomi di chi non ci riuscirà, leggerli un giorno come il cardinal Zuppi ha letto giorni fa quelli dei bambini morti in questi mesi a Gaza?”

 

La Foa applica qui, ai palestinesi, la legge della pietà, quella della memoria, la stessa che gli ebrei sopravvissuti alla Shoah hanno adottato verso coloro che sono diventati cenere nei forni crematori. Si tratta, da parte di un’autrice ebrea, di una posizione coraggiosa, rischiosa, che comprende come anche il nemico, il popolo che ti odia, possa essere una vittima. Vittima da parte di uno Stato fondato dalle vittime dell’Olocausto che, in esso, ha trovato la sua legittimità che oggi sta perdendo per una reazione spropositata, crudele, disumana al vile attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

Un attacco che ha allargato a dismisura il fossato tra ebrei e palestinesi offrendo a Netanyahu l’occasione per portare a termine il “lavoro sporco”, secondo la definizione del primo ministro tedesco Friedrich Merz. Nel lavoro sporco non può esservi pietà per l’avversario, anche se esso nulla ha a che fare con i crimini di Hamas.

Impedire la pietà, da parte di Israele, da parte del mondo, implica il venir meno dell’informazione, togliere voce e volto alle vittime. Per questo più di 200 giornalisti sono stati uccisi a Gaza. Nel circuito mediatico mondiale, attivo 24 ore su 24, Gaza è un buco nero. Lo è la Cisgiordania nella quale la quotidiana violenza dei coloni israeliani verso i palestinesi è oggetto di narrazione ma non di immagini. Lo Stato non lo consente. È in questo buco nero che si colloca la proposta di Anna Foa.

 

“E allora, cominciamo a ricostruire, attraverso gli scarsi frammenti che ne abbiamo, i nomi, i volti, le età, le professioni di alcuni di loro. È possibile. Vediamo di non cogliere in quelle lunghe file di esiliati solo numeri, ma vite. Vite troncate, forse distrutte, ma vite da ricordare, da ricostruire nella nostra mente. Lo facciamo, lo abbiamo fatto, per la Shoah, ridando nomi e storie ai sommersi. Allora, lo abbiamo fatto dopo, dopo che erano stati distrutti. E se ora provassimo a farlo quando coloro che sono destinati alla morte sono ancora in vita, quando temono per le vite dei loro figli? Una memoria immediata, di ciò che sta accadendo ora. Forse getterebbe un po’ di luce su quel milione di esseri umani in movimento, forse, chissà, ne salverebbe alcuni. È difficile ma possiamo almeno provarci. Di fronte alla negazione che questa tragica storia comporta della loro umanità, è una delle vie per ricordare che sono esseri umani uguali a noi”.

“Lo abbiamo fatto per la Shoah, ridando nomi e storie ai sommersi”. Il grande cuore di Anna Foa non si ferma all’ideologia, incancrenita dall’odio, non indugia al mito dell’eccezionalità di Israele.

 

Al contrario vuole estendere anche agli altri, ai palestinesi, la dimensione vittimaria. Fare quello che gli ebrei hanno fatto per la Shoah significa oggi dare un nome ai profughi di Gaza. Salvarli significa farli uscire dall’anonimato, quello che facilita le uccisioni indiscriminate di uomini, donne, bambini.

èUn palazzo bombardato, una tendopoli, un ospedale, una scuola: così, a caso, la morte arriva dal cielo. Cade su uomini senza volto che nemmeno le immagini strazianti che filtrano dalla Striscia riescono a restituire. La pietà non è destata dalle masse di poveracci che vagano, senza sosta e senza meta, non dalle donne straziate che urlano di dolore. I volti impietriti dei prigionieri ad Auschwitz, con le teste rasate e gli indumenti logori, non destavano alcuna compassione negli aguzzini del campo.

Pietà e compassione sorgono non di fronte alla folla dei miserabili, che scorre ogni giorno nei nostri telegiornali, ma di fronte ad un volto nella folla. In articolo di alcuni anni fa, dal titolo Spielberg, Manzoni e i colori della pietà, Adriano Sofri scriveva:

 

“Le fosse comuni, le cataste degli sterminati, riempiono di orrore e fanno distogliere lo sguardo, mentre la pietà è singolare. L’occhio della misericordia ha bisogno di scegliere, o essere scelto, da una figura e su quella fissare angoscia, simpatia, smania di soccorso. Questo fanno le immagini, e prima di loro i racconti. Sollevano dal bassorilievo di fondo dove giacciono i caduti o languono i malati o si trascinano i deportati, una figura a tutto tondo, un bambino di Varsavia con le mani alzate e la stella sul cappotto, un miliziano che stramazza, una bambinetta vietnamita che corre singhiozzando, una madre algerina impietrita dal dolore, una piccola Leyla sarajevese con l’orbita vuotata da un cecchino. Soprattutto lo spettatore del genocidio ha bisogno di aggrapparsi ad un corpo, ad un viso, un nome, per non essere schiacciato e soffocato dal mucchio smisurato di morti, da quel forsennato delirio di quantità che ne ispirò e ubriacò gli autori. I milioni di morti sono troppi per non togliere il fiato e le forze. Fermando lo sguardo su un punto noi compiamo una specie di adozione, che ci lascia di nuovo respirare e piangere, e ridiventare capaci di figurarci anche il grande numero”.

 

L’universale, il dramma collettivo, può essere abbracciato e condiviso solo partendo dal particolare, dallo “sguardo su un punto”.

(…)

https://www.ilsussidiario.net/news/palestina-la-pieta-e-la-memoria-anna-foa-e-la-tragedia-di-gaza/2881124/#:~:text=CULTURA-,PALESTINA/%20La%20piet%C3%A0%20e%20la%20memoria%3A%20Anna%20Foa%20e%20la%20tragedia,governo%2C%20del%20presidente%20che%20ha%20rinnegato%20la%20memoria%20della%20Shoah.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

 

Questo è quanto Anna Foa ha pienamente compreso. Siamo tutti spettatori della tragedia di Gaza, della follia criminale del governo di Netanyahu che sta infangando il nome di Israele nel mondo. Eppure quella tragedia arriva a noi, a noi che la contempliamo in diretta, anestetizzata. Ci mancano i nomi, i volti, le storie, per sentirla nostra. Come nostra ci è apparsa, da subito, la vicenda di padre Gabriel Romanelli e della comunità della Sacra Famiglia a Gaza quando la chiesa è stata bombardata.

Il colpo sparato dal tank ha sollevato, per reazione, un moto di sdegno e di solidarietà mondiale al punto che Netanyahu ha dovuto scusarsi con il Papa. Padre Romanelli è il parroco della piccola comunità palestinese di Gaza. A lui papa Francesco telefonava ogni giorno prima della sua morte.

Dovremmo e vorremmo conoscere altri volti oltre a quelli del sacerdote, volti non di Hamas che tiene prigioniero il suo popolo ed è causa della sua tragedia, ma del popolo palestinese. Così il moto di compassione potrebbe divenire universale e la condanna verso l’oppressore divenire oceanica. Una condanna non degli ebrei ma del loro governo, del presidente che ha rinnegato la memoria della Shoah.


giovedì 11 settembre 2025

LETTURE/ “Fidei Communio”, così la teologia rinasce dall’esperienza


 

LETTURE/ “Fidei Communio”, così la teologia rinasce dall’esperienza

Elia Carrai Pubblicato 11 Settembre 2025

 

Una nuova rivista di teologia, in continuità con la "Communio" fondata da von Balthasar, de Lubac e Ratzinger, ma consapevole dei tempi nuovi

 

‘Fidei Communio’ nasce come ponte fra la grande stagione conciliare e le sfide del presente. A cinquant’anni dall’avventura di Communio – la rivista fondata da von Balthasar, de Lubac e Ratzinger per custodire l’insegnamento del Concilio – un gruppo di studiosi italiani e spagnoli rilancia oggi quell’intuizione dal di dentro di un mutato contesto storico.

Alla parola communio troviamo così affiancata la parola fides. Da un lato il termine communio lega idealmente il tentativo editoriale presente al progetto originario, dall’altro manifesta la rinnovata necessità di cogliere adeguatamente la portata di una parola la cui pregnanza teologica e ontologica chiede di essere ricompresa alla luce dei nuovi paradigmi relazionali sviluppatesi nello scenario socio-culturale.

L’aggiunta della parola fides sottolinea, come ulteriore necessaria specificazione per questo tempo presente, quella fondamentale “personale esperienza all’interno della quale si gioca la dinamica comunionale, offrendo in tal modo una particolare capacità di sguardo sulla realtà alla luce del vangelo […] Da una vera experientia fidei scaturisce, infatti, una rinnovata intelligentia fidei, che va nuovamente a illuminare e risemantizzare l’esperienza di fede del singolo. In questa dinamica personale, ogni io scopre la propria identità più profonda sempre e comunque in relazione al noi della Chiesa a cui appartiene” (Editoriale del primo numero).

Solo in un simile orizzonte – in cui la comunione sorge realmente dall’esperienza della fede – allora diviene possibile dare voce a un pensiero che non sorge come “interpretazione di maggioranza” della Chiesa e del mondo, in una disponibilità piuttosto a “cogliere la realtà – come leggiamo nell’editoriale – per come essa realmente è, e così andare incontro alle domande che albergano nel cuore di ogni uomo e donna; in secondo luogo, per generare un nuovo spazio libero, dove le diverse visioni della realtà, molto spesso anche contrapposte, possano entrare in dialogo tra loro”.

In un tempo in cui spesso “l’interessante diventa più importante del vero”, la rivista Fidei Communio invita così i lettori a riscoprire, con “la gioia del rischio e il coraggio della fede”, la serietà intellettuale di una ricerca che non teme di confrontarsi con le istanze culturali del nostro tempo.

Fidei Communio è interamente leggibile online e scaricabile in formato pdf open access, volendo essere uno strumento accessibile e condivisibile tanto nell’ambito della comunità accademica quanto per un più vasto pubblico: “la rivista non è legata ad alcuna particolare istituzione accademica, ma è il frutto di un lavoro sinergico diretto da diversi docenti, che vede il coinvolgimento di pensatori provenienti da ogni parte del mondo.

In secondo luogo, l’‘interdisciplinarità’: la rivista intende infatti farsi spazio all’interno del quale far entrare in dialogo tra loro diversi ambiti del sapere: dalla teologia alla filosofia, dalla storia alla sociologia, dalla politologia alla letteratura, ecc.

(…..)

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-fidei-communio-cosi-la-teologia-rinasce-dallesperienza/2879841/#:~:text=CHIESA-,LETTURE/%20%E2%80%9CFidei%20Communio%E2%80%9D%2C%20cos%C3%AC%20la%20teologia%20rinasce%20dall%E2%80%99esperienza,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94,-Abbiamo%20bisogno%20del

Elia Carrai (segreteria@fideicommunio.org)

 


domenica 7 settembre 2025

Il Papa: Acutis e Frassati invitano a non sciupare la vita ma a orientarla verso l'alto

 



Il Papa: Acutis e Frassati invitano a non sciupare la vita ma a orientarla verso l'alto

Leone XIV presiede il rito che rende santi i due giovani laici. Nell’omelia richiama il loro “essere innamorati di Gesù” e la loro incessante volontà di “donare tutto per Lui”. Un amore coltivato attraverso “mezzi semplici, alla portata di tutti”, per vivere autenticamente la “santità della porta accanto”

Edoardo Giribaldi – Città del Vaticano

 

Un “bivio della vita” si apre davanti a ogni giovane: il rischio più grande è lasciarsi sfuggire il tempo. Ma c’è “un’avventura” che chiama, invitando a gettarsi “senza esitazioni”, a spogliarsi di sé, delle “cose”, delle “idee” che ci tengono prigionieri. Basta alzare lo sguardo verso il cielo, assaporare ogni respiro della propria esistenza e camminare “incontro al Signore, nella festa eterna del Cielo".

Così Papa Leone XIV dipinge le figure di Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati, canonizzati oggi, 7 settembre, durante la celebrazione eucaristica presieduta dal Pontefice sul sagrato della Basilica di San Pietro. La domenica soleggiata, gli 80mila fedeli festanti, fanno da sfondo alla Messa concelebrata, tra gli altri, dal cardinale Roberto Repole, arcivescovo di Torino, città originaria di Frassati, e da monsignor Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi - Nocera Umbra - Gualdo Tadino e Foligno, che ha accompagnato fina dalla prima ora il cammino di Acutis verso il riconoscimento ufficiale della santità. Tra i presenti, anche presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella.

"Oggi è una festa bellissima"

Mancano pochi minuti all’inizio della celebrazione e la piazza già trabocca di volti, canti e attese. Tra la folla sventolano striscioni che custodiscono le parole ardenti dei due giovani laici: "Vivere, non vivacchiare", "Tutti nasciamo come originali". All’improvviso, lo sguardo della piazza si accende: Papa Leone XIV compare sul sagrato e il suo saluto a braccio si leva come un abbraccio universale. "Oggi è una festa bellissima per tutta l’Italia, per tutta la Chiesa, per tutto il mondo!". La liturgia, "molto solenne", non spegne – assicura – la gioia che riempie questa giornata.

E volevo salutare, soprattutto, tanti giovani, ragazzi, che sono venuti per questa Santa Messa! È veramente una benedizione del Signore trovarci insieme, voi che siete arrivati da diversi Paesi. È un dono di fede che desideriamo condividere

 

Il Papa chiede "un po’ di pazienza" a quanti non si trovano nelle prime file della piazza, promettendo loro un saluto in papamobile al termine della celebrazione. Rivolge poi un pensiero particolare ai familiari di Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati, invitando tutti a custodire nel cuore ciò che loro hanno testimoniato: l’amore per Cristo, "soprattutto nell’Eucaristia ma anche nei poveri, nei fratelli e nelle sorelle".

Tutti voi, tutti noi, siamo chiamati a essere santi. Dio vi benedica! Buona celebrazione! Grazie per essere qui!

"Cosa devo fare perché nulla vada perduto?"

Nell’omelia, il Papa evoca una domanda della Prima Lettura, tratta dal Libro della Sapienza e proclamata da Michele Acutis, fratello di Carlo. Una domanda attribuita “proprio a un giovane”, come i due nuovi santi: il re Salomone.

Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?

 

Alla morte di Davide, suo padre, Salomone possiede apparentemente tutto: potere, ricchezza, salute, giovinezza, bellezza. Un regno da governare. Ma proprio l’abbondanza gli suscita un interrogativo:

Cosa devo fare perché nulla vada perduto?

La risposta è la richiesta di un dono più grande: la Sapienza di Dio, per conoscere e aderire ai suoi progetti.

Si era reso conto, infatti, che solo così ogni cosa avrebbe trovato il suo posto nel grande disegno del Signore. Sì, perché il rischio più grande della vita è quello di sprecarla al di fuori del progetto di Dio

Chiamati a "buttarci"

Leone XIV si sofferma poi sul Vangelo, dove viene delineato un altro progetto radicale, “a cui aderire fino in fondo”. Quello indicato da Gesù:

Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo

E ancora:

Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo

Una chiamata a “buttarci”. A seguire Cristo senza vacillare, con “l’intelligenza e la forza” – doni dello Spirito – da accogliere spogliandosi delle proprie convinzioni, “per metterci in ascolto della sua Parola”.

"Signore, che vuoi che io faccia?"

Non solo Salomone, ma anche san Francesco d’Assisi si trova davanti allo stesso bivio. Giovane, ricco e "assetato di gloria", sogna di diventare cavaliere. Ma l’incontro con Cristo lo spinge a domandarsi:

Signore, che vuoi che io faccia?

Il resto è una “storia diversa”, quella “meravigliosa” e conosciuta universalmente, di una spogliazione che all’oro e all’argento, oltre che alle stoffe preziose del padre, preferisce “l’amore per i fratelli, specialmente i più deboli e i più piccoli”.

"Una nuova logica"

L’elenco potrebbe proseguire. D’altro canto, nota il Papa, spesso la santità nasce da un “sì” pronunciato in gioventù. “Voglio te”, era la voce che sant’Agostino ascoltava “nel nodo tortuoso e aggrovigliato" della sua vita.

E così Dio gli ha dato una nuova direzione, una nuova strada, una nuova logica, in cui nulla della sua esistenza è andato perduto

 

"Frassati Impresa Trasporti"

In questa cornice, Leone XIV ripercorre le vite di Frassati e Acutis. Del primo sottolinea l’impegno nella scuola, nei gruppi ecclesiali – Azione Cattolica, Conferenze di San Vincenzo, FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana) e Terz’Ordine domenicano. La sua fede si esprime nella preghiera, nell’amicizia e nella carità. “Frassati Impresa Trasporti” è il soprannome affettuoso con cui gli amici lo chiamano, vedendolo portare aiuti ai poveri per le strade di Torino. La sua testimonianza è “una luce per la spiritualità laicale”

 

Per lui la fede non è stata una devozione privata: spinto dalla forza del Vangelo e dall’appartenenza alle associazioni ecclesiali, si è impegnato generosamente nella società, ha dato il suo contributo alla vita politica, si è speso con ardore al servizio dei poveri

 

Frassati, un “vero fratello” che Leone XIV proclama santo

06/09/2025

Frassati, un “vero fratello” che Leone XIV proclama santoLe testimonianze dei giovani di Azione Cattolica, attore nella causa di canonizzazione, rivelano l'attualità di Pier Giorgio Frassati, che chiamava la vita “allegria attraverso i ...

Preghiera, sport, studio e carità

Di Carlo, il Papa ricorda l’incontro con Gesù attraverso la famiglia – menziona Michele, Francesca, la sorella, e i genitori, Andrea e Antonia, tutti presenti in basilica – e la scuola, ma “soprattutto nei Sacramenti celebrati nella comunità parrocchiale.

È cresciuto, così, integrando naturalmente nelle sue giornate di bambino e di ragazzo preghiera, sport, studio e carità

"Basta un semplice movimento degli occhi"

Ciò che unisce Carlo e Pier Giorgio è la scelta di vivere l’amore di Dio e dei fratelli con "mezzi semplici, accessibili a tutti": la Messa quotidiana, la preghiera, in particolare l’adorazione eucaristica. “Davanti al sole ci si abbronza. Davanti all’Eucaristia si diventa santi”, diceva Carlo. E ancora:

La tristezza è lo sguardo rivolto verso sé stessi, la felicità è lo sguardo rivolto verso Dio. La conversione non è altro che spostare lo sguardo dal basso verso l’Alto, basta un semplice movimento degli occhi

"Una luce che noi non abbiamo"

Entrambi sono attenti al Sacramento della Riconciliazione. Carlo ammoniva: “L’unica cosa che dobbiamo temere veramente è il peccato”, meravigliandosi di come “gli uomini si preoccupano tanto della bellezza del proprio corpo e non si preoccupano della bellezza della propria anima”. Altro tratto comune, la devozione per i santi e la Vergine Maria, oltre alla pratica della carità. Pier Giorgio, ricorda ancora Leone XIV, scriveva: “Intorno ai poveri e agli ammalati io vedo una luce che noi non abbiamo”.

Come Carlo, la esercitava soprattutto attraverso piccoli gesti concreti, spesso nascosti, vivendo quella che Papa Francesco ha chiamato la santità della porta accanto

 

"Il Cielo ci aspetta da sempre"

Un amore, un’offerta a Dio, che neppure la malattia sa scalfire. “Il giorno della morte sarà il più bel giorno della mia vita”, un’altra frase di Frassati ricordata dal Papa, che menziona anche la sua ultima foto, che lo ritrae intento a scalare una montagna. “Col volto rivolto alla meta, aveva scritto: ‘Verso l’alto’”.

Del resto, ancora più giovane, Carlo amava dire che il Cielo ci aspetta da sempre, e che amare il domani è dare oggi il meglio del nostro frutto

 

"Non sciupare la vita"

I nuovi santi diventano così un “invito”, rivolto specialmente ai giovani, “a non sciupare la vita, ma a orientarla verso l’alto e a farne un capolavoro”. Diceva Carlo:

Non io, ma Dio

E Pier Giorgio:

Se avrai Dio per centro di ogni tua azione, allora arriverai fino alla fine

Formula tanto semplice, quanto “vincente”, della santità. Ma anche testimonianza da seguire, per “gustare la vita fino in fondo e andare incontro al Signore nella festa del Cielo”.

 

I riti di canonizzazione

La celebrazione con il rito della canonizzazione vive momenti particolari, come quello iniziale della Petitio, in cui il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, accompagnato dai postulatori – Nicola Gori per Acutis e Silvia Correale per Frassati – pone al Papa la domanda per procedere alla canonizzazione.

(…)

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2025-09/papa-leone-xiv-messa-canonizzazione-acutis-frassati.html#:~:text=PAPA%20LEONE%20XIV-,Il%20Papa%3A%20Acutis%20e%20Frassati%20invitano%20a%20non%20sciupare%20la%20vita,Chi,-siamo