venerdì 29 agosto 2025

LETTURE/ Guzmán Carriquiry, 50 anni nelle stanze vaticane: un laico per 5 papi


 

LETTURE/ Guzmán Carriquiry, 50 anni nelle stanze vaticane: un laico per 5 papi

Massimo Borghesi Pubblicato 29 Agosto 2025

 

Le memorie vaticane di Guzmán Carriquiry appena pubblicate sono un indispensabile documento storico per vedere da vicino 4 pontificati

“Mezzo secolo al servizio dei papi. Nessun laico nella Curia romana ha avuto come lui accesso agli ultimi pontefici: è stato loro commensale, loro consigliere, in alcuni casi amico. Fino al 2018 il laico con i ’gradi’ più alti in Vaticano. Per questo le memorie dell’ormai ultraottantenne Guzmán Carriquiry sono una testimonianza preziosa, e non solo per gli storici della Chiesa o per i vaticanisti”.

Così scrive Lucio Brunelli nella sua bella recensione al volume di Guzmán Carriquiry, Il Testimone. Mezzo secolo nelle stanze vaticane (Cantagalli 2025), uscita su L’Osservatore Romano. Attivo nella realtà cattolica giovanile dell’Uruguay, collaboratore della rivista Vispera di Alberto Methol Ferré, il suo maestro di pensiero, Carriquiry è invitato a lavorare in Vaticano nel 1971.

Nel 1977 Paolo VI lo chiama a far parte del Pontificio Consiglio per i laici divenendo, per volere di Giovanni Paolo II nel 1991, sottosegretario. Il 14 maggio 2011 Benedetto XVI lo nomina segretario della Pontificia Commissione per l’America Latina (CAL). È il primo laico ad occupare una posizione di questa importanza nella Curia romana. Dal 2021 al 2025 è stato ambasciatore dell’Uruguay presso la Santa Sede.

Grazie ai posti occupati e alla grande esperienza accumulata nel tempo il punto di vista dell’autore si dimostra oltremodo prezioso per uno sguardo complessivo sulla vita della Chiesa, dagli anni 70 in avanti.

Una buona parte di questa prospettiva è ora consegnata al suo volume di memorie appena arrivato in libreria. Ricco di aneddoti e di ricordi, il libro costituisce una miniera che, pur nella prudenza richiesta dai ruoli rivestiti, permette di aprire spiragli sui papi, il Vaticano, la curia, il mondo cattolico. Il tutto dentro una passione, mai venuta meno, per l’America Latina.

“Nei miei lunghi anni romani e vaticani, ho sempre custodito nel cuore una passione per la vita e il destino dei popoli dell’America Latina, così come ho coltivato contatti e letture latinoamericane. Nella mia identificazione come latinoamericano non c’è un mero sentimento, ma l’intelligenza percettiva di un vincolo di appartenenza, di un cerchio singolare di fraternità, di una prossimità di carità e solidarietà, più forte di tutto ciò che ci distingue e ci separa nella regione: più forte delle distanze geografiche, delle frontiere statali, delle barriere etniche, della diversità di sub-culture.

L’Uruguay è la mia patria nativa; l’America Latina è la mia ‘Patria Grande’. Ci riconosciamo come latinoamericani perché, come scrivevano i nostri vescovi a Puebla, ‘il Vangelo incarnato nei nostri popoli costituisce un’originalità storico-culturale che chiamiamo America Latina’, e che ha come simbolo luminoso il volto meticcio di Nostra Signora di Guadalupe. Il barocco è l’espressione culturale che ricapitola in forme complesse e opposte tutta la diversità dei nostri componenti” (p. 261).

Fedele a queste radici, Carriquiry si sofferma a lungo sull’America Latina e sull’evoluzione della sua Chiesa dal Convegno di Puebla a quello di Aparecida guidato, quest’ultimo, dal cardinale Jorge Mario Bergoglio. Con Bergoglio il rapporto è amicale. Lo è anche, in forma differente ma non meno partecipe, con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI. Lo dimostra la “correzione” del discorso programmato di papa Benedetto per Aparecida. Così la ricorda Carriquiry:

“Avevo ricevuto sotto embargo il testo del discorso inaugurale che Benedetto XVI avrebbe pronunciato alla Conferenza dell’episcopato latinoamericano ad Aparecida. Lo lessi e rilessi e non mi piaceva per niente: era insipido, incolore, burocratico. Non era affatto di Ratzinger! Così iniziai a chiedere con insistenza un breve incontro con il Papa. Era prevedibile che avrei ricevuto ripetuti rifiuti, ma alla fine lo fermai in un’udienza collettiva, confidando nella nostra conoscenza, e gli chiesi: ‘Sa quanto è importante la Conferenza di Aparecida? Sa quanto è importante il suo discorso inaugurale?’. Erano domande ridondanti e pleonastiche, piuttosto impertinenti. E quando ovviamente mi rispose con stupore ‘Sì’, mi permisi di dirgli, con una certa vivacità: ‘Allora, per favore, la prego di lasciare da parte il testo che le hanno preparato, di chiudersi nei prossimi tre giorni e di preparare personalmente il suo discorso’. E così fu, anche se mancavano pochissimi giorni all’inizio della Conferenza” (p. 126).

(…)

È la stessa nota che riscontriamo nelle sue note su papa Francesco. Al papa argentino, ben conosciuto prima della sua elezione, Carriquiry è legato, lui e la sua consorte Lídice, da grande affetto, stima, gratitudine. Il ché non gli impedisce di sollevare anche dei rilievi. Ne ricordiamo alcuni che richiedono, in qualche modo, soluzioni da parte di Leone XIV.

Il primo è il rapporto tra il papato e il vecchio continente. Francesco, lo sappiamo, ha dato priorità alle “frontiere”, ai Paesi fuori dall’Occidente, alle “periferie” del mondo. Con ciò, però, si è evitata ma non risolta la sfida tra la fede e il mondo secolarizzato, quello che vede la desertificazione delle chiese.

“Papa Francesco non ha visitato né la Francia né la Germania – Francia e Germania che costituivano l’asse aggregante dell’Unione Europea – e ciò nonostante avesse avuto ottime relazioni personali con Macron e la Merkel (…); non ha nemmeno visitato la Spagna, l’Inghilterra, l’Austria, l’Olanda… Ha pronunciato qualche discorso rilevante sull’Europa, specialmente quando ha ricevuto il premio Carlo Magno, e ha lanciato messaggi importanti in alcuni viaggi brevi in Svezia, Benelux, Ungheria e altri. […] Durante l’incendio della cattedrale di Notre Dame, lo chiamai al telefono – l’unica volta per mia iniziativa – per raccomandargli vivamente di prendere un aereo, andare a recitare un Rosario in piazza della cattedrale e tornare indietro… Mi chiese se sapevo che lo stesso presidente Macron lo aveva chiamato al telefono per suggerirgli la stessa cosa, ma mi ha risposto che era impossibile. Peccato! Certamente avrà avuto buoni motivi per non poterlo fare. Rispose con un deciso ‘no’ alla domanda se sarebbe andato all’inaugurazione della cattedrale restaurata (per non sopportare il protagonismo del signor presidente e la ‘passerella’ dei potenti del mondo)” (pp. 230-231).

Si potrebbe osservare che la preoccupazione di papa Francesco di non essere strumentalizzato era legittima. Il ché non impediva di pensare ad altre opportunità. Comunque sia, il quadro non è migliore nemmeno in America Latina la cui Chiesa, secondo Carriquiry, avrebbe perso una grande occasione non valorizzando adeguatamente il programma del Papa affidato a Evangelii gaudium.

Per l’autore “Nemmeno la Chiesa in America Latina si è dimostrata in grado di colmare quel vuoto nella centralità romana provocato dal declino europeo. Il pontificato del primo latinoamericano non l’ha vista compiere quel salto cattolico di qualità, troppo impegnativo e difficile, nonostante abbia apportato contributi arricchenti per la vita di tutta la Chiesa. Il continente americano conta il 50% dei battezzati di tutta la Chiesa cattolica, ma diminuisce a causa dell’espansione degli ‘evangelici’ e degli influssi capillari di una cultura dominante sempre più lontana e ostile alla tradizione cristiana” (p. 231).

Questa debolezza della Chiesa latinoamericana nell’intendere la portata storica dell’elezione di un Papa argentino – una debolezza che investe anche il CELAM, la Conferenza episcopale latinoamericana – porta Carriquiry ad una sorta di grido di dolore:

“Credevamo che toccasse all’America Latina, la più grande area cristiana del Sud del mondo, la più cattolica e la più capace di dialogo con la modernità, assumersi una enorme responsabilità, non solo nei confronti del proprio popolo ma di tutto il mondo. Avere consapevolezza di ciò non si è tradotto nell’essere all’altezza di tale responsabilità. Forse siamo stati capaci di trarre tutte le implicazioni e le conseguenze dal fatto inedito, di grande portata, del primo pontificato di un latinoamericano?

Siamo stati capaci di comprendere le enormi esigenze e responsabilità che dovevamo assumere le nostre Chiese, i nostri popoli e nazioni? Siamo forse stati capaci di dare un salto qualitativo nella coscienza e nel cammino della cattolicità? Ha seminato molto il pontificato di Papa Francesco nella buona terra dei popoli latinoamericani. Era ben voluto dalla nostra gente, in modo speciale dai poveri e dagli umili di cuore. Non ci mancano arricchenti esperienze di carità, di rinnovamento pastorale, di iniziative sinodali disperse in tutta la regione. Ma aspettavamo un di più!” (p. 273).

Quello che è mancato, tra le altre cose, è “un pensiero teologico, culturale e politico all’altezza del nostro tempo” (p. 232). È questo un punto su cui Carriquiry, discepolo ideale del grande Alberto Methol Ferré, maestro anche di Bergoglio, sente particolarmente: la mancanza di un pensiero “cattolico”, fecondo, capace di conferire universalità alla Chiesa di oggi fortemente condizionata dalle polarizzazioni della storia.

“Posso affermare – scrive in un passo del volume dove con somma cortesia cita anche il mio nome –, senza essere particolarmente competente, che siamo in un periodo di pensiero un po’ ‘liquido’ nella Chiesa, che l’ultima grande generazione di teologi che è stata fondamentale per gli insegnamenti del Concilio Vaticano II è terminata con la morte di Joseph Ratzinger, che mancano grandi scuole di teologia e filosofia, che bisognerebbe ripensare a fondo la formazione di seminaristi e novizi innamorati, sì, di Cristo e del suo compito pastorale ma cresciuti e guidati da un’intelligenza cristiana capace di dialogare a 360 gradi con le grandi questioni poste dalla cultura attuale e di accompagnare i cristiani nella loro educazione della fede?

Ci sono importanti pensatori cattolici che segnalano questa carenza, come Pierangelo Sequeri e Massimo Borghesi. ‘Ciò che manca’, scrive l’amico Borghesi, ‘è un pensiero cattolico all’altezza del nostro tempo storico, capace di coniugare la ricchezza della tradizione con le sfide del presente’ (p. 255).

Francesco, al contrario di quanto hanno spesso ritenuto i suoi critici, aveva questo pensiero “cattolico” nutrito degli apporti di Fessard, Guardini, de Lubac, von Balthasar. Esso filtra attraverso tutti i suoi documenti importanti. Carriquiry cita in proposito, oltre ai suoi studi in materia, la mia biografia intellettuale di Bergoglio, i lavori di Austen Ivereigh, Andrea Monda, Gianni Valente, Lucio Brunelli, Carlos Galli, Rocco Buttiglione… Questo lo porta a chiedersi “perché il Santo Padre non abbia sentito la necessità, o almeno l’opportunità, di chiedere maggiore aiuto ad alcuni di questi amici e si sia circondato di alcune persone che, a volte, non hanno meritato la sua fiducia e hanno lasciato molto a desiderare” (p. 165).

Questa ritrosia da parte del Papa ha a che fare anche con la sua “solitudine”, che Carriquiry documenta per averla sperimentata da vicino.

“La storia di Bergoglio lo ha portato a governare la Chiesa – diciamo a servire come un pastore il popolo di Dio – con la forza, ma anche con il limite, della sua solitudine. Non è fuori luogo notare che la sinodalità non è stata molto evidente nel suo governo della Curia romana. Ha governato con l’impronta di un tradizionale superiore gesuita, un governo molto personale e carismatico di ‘intenzione determinata’ più che affidato alle mediazioni istituzionali, forse anche sotto l’influenza della storia politica che caratterizza l’Argentina (il caudillo e il suo popolo!).

Ha persino curato quella solitudine. Nulla di peggio che essere con lui indiscreti o invadenti. Molte volte mi ha ringraziato per la mia discrezione. Raramente mi sono permesso di chiamarlo per telefono negli anni del suo pontificato, ma ho atteso, a volte ansiosamente, che mi telefonasse. Non mi sono mai autoinvitato a pranzo con lui. Sapevo che c’era una ‘distanza’ che non potevo superare.

Niente di simile a un Giovanni Paolo II che dopo cena si riuniva spesso con alcuni dei suoi collaboratori più amici per bere un bicchiere e parlare di ciò che veniva. E questa solitudine non significa che non abbia incontrato quotidianamente e ascoltato molte più persone rispetto ai pontefici precedenti” (p. 236).

Gli ultimi due rilievi che riguardano aspetti del papato francescano riguardano la conduzione dei processi sinodali, spesso avviati senza una cornice adeguata (p. 217), e il rapporto di Francesco con i movimenti. Sotto Giovanni Paolo II, Carriquiry è stato un protagonista, nella Curia, nei processi di riconoscimento canonico dei movimenti ecclesiali. Ha avuto rapporti personali profondi con i fondatori di Cl, Sant’Egidio, Focolarini, Neocatecumenali, ecc.

Un rapporto speciale lo ha legato al fondatore di Cl, don Luigi Giussani, senza che questo implicasse una sua adesione formale al movimento. “È stato molto importante nella mia vita cristiana e nel mio servizio al Papa. Mi sono sempre chiesto perché Papa Wojtyła non lo abbia creato cardinale… Ma essere santo è certamente più importante che essere cardinale”.

La sua stima per l’esperienza dei movimenti lo porta a criticare la loro assenza nella seconda assemblea sinodale. “Mi è mancata la presenza di Andrea Riccardi e Marco Impagliazzo (Sant’Egidio), di Davide Prosperi, mons. Massimo Camisasca e don Julián Carrón (CL), di Chiara Almirante (Nuovi Orizzonti), di Kiko Argüello e padre Mario Pezzi (Cammino Neocatecumenale), di Moyses Azevedo e Maria Emmir Oquendo (Salom), di Giovanni Paolo Ramonda e Matteo Fadda (Giovanni XXIII), di padre Cesar di FASTA, di padre Alexander Awi di Schoenstatt, dei direttivi della comunità Emmanuel, delle Équipes de Notre Dame, dei Cursillos de Cristiandad, di CHARIS (rinnovamento carismatico), di Vivere In, della Società San Vincenzo de’ Paoli, di ADSIS e altri” (p. 250).

La sua conoscenza diretta di questi protagonisti della Chiesa lo porta a delle osservazioni relative alle difficoltà che hanno caratterizzato la relazione del Papa con i movimenti.

“È sembrato che Papa Francesco non volesse continuare a dar loro il sostegno che avevano avuto dai precedenti pontificati, preferendo condividere osservazioni più o meno critiche da una certa distanza “esterna” ad essi, senza una speciale empatia con la loro realtà.

Forse ha voluto evitare un’eccessiva auto-esaltazione dei movimenti, forse ha voluto essere più sobrio nei giudizi su di essi, forse ha voluto essere più esigente desiderando una rinascita della ricchezza e della bellezza che i carismi portavano con sé, andando oltre le ripetizioni, gli schemi e persino il rischio di fossilizzazioni.

Forse si aspettava che si rinnovasse la sorprendente fase di effervescenza carismatica, di profondo senso di appartenenza, di energia perseverante ed educativa, di aperta missione ad gentes verso ogni realtà, di fantasia della carità, che ha caratterizzato il loro impulso originario, al di là di certe sedimentazioni e stabilizzazioni.

Forse chiedeva loro una maggiore inculturazione nella vita dei popoli e nel servizio al popolo di Dio. Forse hanno pesato gli abusi provocati da alcuni fondatori e dirigenti suscitando una generalizzazione indebita di timori e pregiudizi. Forse ha pensato ai movimenti traslando l’esperienza delle comunità religiose, soprattutto quella gesuita. Forse il dicastero competente avrebbe potuto riconoscere di più ed incoraggiare tutto il bene dei movimenti” (p. 247).

 

“Forse il dicastero competente…”. Con la parresia che non gli manca, Carriquiry scrive che:

“Mi è rimasta l’impressione che la ‘coessenzialità dei doni sacramentali e carismatici’ nella costituzione e rinnovamento della Chiesa, così come fu chiaramente posta da San Giovanni Paolo II, sulla scia della Lumen gentium, non si percepisce in modo sufficiente nella Curia romana nei nostri giorni. Si apprezzano i carismi degli istituti di vita consacrata, ma molto meno quelli che sono alla base della vita dei movimenti e delle nuove comunità.

Papa Francesco ha criticato spesso e con ragione il clericalismo, ma non è andato fino in fondo. Il clericalismo si manifesta nel governo della Curia romana quando la necessaria e fondamentale dimensione gerarchica tende a oscurare la dimensione carismatica. Molte volte, i carismi fondativi e animatori dei movimenti e delle nuove comunità, malgrado siano già avvenuti il discernimento e il riconoscimento canonico, partecipi di quella “coessenzialità”, sembrano essere appena tollerati, generalmente sottoposti a una vigilanza e a un controllo eccessivi e, a volte, persino – lo scrisse un cardinale come Marc Ouellet – ad abusi di potere clericale.

Potrei elencare alcuni di questi abusi. Non è buono né per niente sano – salvo in situazioni di gravità molto speciale – che gli istituti e i movimenti riconosciuti dalla Santa Sede rimangano per lungo tempo sotto la tutela diretta di organismi della Santa Sede o dei loro ‘visitatori’ o ‘delegati’.

C’è un piglio autoritario che dovrebbe essere almeno moderato da più ascolto e dialogo, da fattivo riconoscimento di tutto il bene che lo Spirito Santo opera nella vita dei movimenti più che concentrarsi sui rischi e i problemi posti, da uno punto di vista meramente spirituale e pastorale più che da un approccio puramente canonistico. E nei pochissimi casi di estrema gravità, che si operi radicalmente per purificare tutto ciò che sia necessario, ma sempre cercando di salvare il salvabile” (pp. 247-248).

Scendendo nel dettaglio, Carriquiry afferma:

“E, a proposito, mi sembra smisurata l’accusa pubblica sugli ‘errori dottrinali’ di Comunione e Liberazione, accusa che, tra l’altro, non proveniva dal Dicastero competente sulla dottrina. Nel suo discorso del 15 ottobre 2022 al movimento, Papa Francesco ignorò tale accusa e, poco dopo, in una lettera al nuovo prefetto del Dicastero vaticano per la Dottrina della Fede, raccomandava di non cadere in questo tipo di accuse e di essere sempre disposto all’ascolto, al dialogo e alla correzione fraterna, se necessaria.

Si correggano tutti gli errori nella gestione del movimento, per eccesso di concentrazione nella persona del presidente, per un venir meno di una maggiore corresponsabilità, per trascuratezza delle sue mediazioni istituzionali, per un venir meno di non poche comunità universitarie. In questo senso, ben vengano le osservazioni critiche dell’autorità ecclesiastica accolte con la maggiore serietà e responsabilità.

Un’altra cosa è la lunga tutela imposta a Comunione e Liberazione, esorbitante perché totalmente sproporzionata di fronte alla ricchezza di fede, cultura e carità che fioriscono ovunque nelle sue esperienze di vita personale e comunitaria” (p. 249).

Si tratta di osservazioni, riguardanti tanto il pontificato quanto la curia, che nascono da un uomo che ha fatto della sua vita un esempio di obbedienza ai papi, con un amore sconfinato alla Chiesa. Con Francesco il legame era anche affettivo, figli di una stessa terra, di una stessa cultura e sentimento della vita. Nel libro più di un episodio traccia questo legame. Ne ricordiamo uno.

“Questa relazione molto personale si è espressa anche nella visita a sorpresa del Papa nel mio ufficio presso la Pontificia Commissione per l’America Latina, che ha sede all’inizio di via della Conciliazione. Ho potuto ricostruire quanto accaduto. Papa Francesco era andato alla clinica medica vaticana per farsi curare dal dentista e, all’uscita, ha detto al suo assistente: ‘Andiamo a salutare il dott. Carriquiry’.

(…)

Essere chiamati per nome dal Papa è sentire sulla propria pelle la carezza della Chiesa, la carezza di Gesù. Il Testimone. Mezzo secolo nelle stanze vaticane, il volume di Guzmán Carriquiry da poco in libreria, è una miniera d’informazione e, insieme, il documento di affetto ai papi che l’autore ha servito con profonda fedeltà.

 

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-guzman-carriquiry-50-anni-nelle-stanze-vaticane-un-laico-per-5-papi/2875277/#:~:text=Un%20rapporto%20cos%C3%AC,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

sabato 23 agosto 2025

Messaggio di Papa Leone al Meeting di Rimini 2025



 Messaggio del Santo Padre Dal Vaticano, 11 agosto 2025

 A Sua Eccellenza Reverendissima Mons. Nicolò Anselmi Vescovo di Rimini Il tema del 46°Meeting per l’amicizia fra i popoli, che si svolgerà a Rimini nei prossimi giorni, è un invito alla speranza: «Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi».

 Il Santo Padre Leone XIV desidera far giungere il suo saluto agli organizzatori, ai volontari e a tutti i partecipanti, con l’augurio di riconoscere nella gioia che la pietra scartata dai costruttori è stata posta come «pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso» (cfr1Pt2,6). La speranza, infatti, non delude (cfrRm5,5). I deserti sono in genere luoghi scartati e ritenuti inadatti alla vita. Eppure, là dove sembra che nulla possa nascere, la Sacra Scrittura continuamente ritorna a narrare i passaggi di Dio. Nel deserto, anzitutto, nasce il suo popolo. È infatti soltanto in cammino fra le sue asperità che matura la scelta della libertà. Il Dio biblico – che osserva, ascolta, conosce le sofferenze dei suoi figli e scende a liberarli (cfrEs3,7-8) – trasforma il deserto in un luogo di amore e di decisioni, lo fa fiorire come un giardino di speranza. I profeti lo ricordano come scenario di un fidanzamento, al quale ritornare ogni volta che il cuore si intiepidisce, per ricominciare dalla fedeltà di Dio (cfrOs2,16). Monache e monaci, da millenni, abitano il deserto a nome di tutti noi, in rappresentanza dell’intera umanità, presso il Signore del silenzio e della vita. Il Santo Padre ha apprezzato che una delle mostre caratterizzanti ilMeetingdi quest’anno sia dedicata alla testimonianza dei martiri di Algeria. In essi risplende la vocazione della Chiesa ad abitare il deserto in profonda comunione con l’intera umanità, superando i muri di diffidenza che contrappongono le religioni e le culture, nell’imitazione integrale del movimento di incarnazione e di donazione del Figlio di Dio. È questa via di presenza e di semplicità, di conoscenza e di “dialogo della vita” la vera strada della missione. Non un’auto-esibizione, nella contrapposizione delle identità, ma il dono di sé fino al martirio di chi adora giorno e notte, nella gioia e fra le tribolazioni, Gesù solo come Signore. Non mancheranno, come è consuetudine, dialoghi tra cattolici di diverse sensibilità e con credenti di altre confessioni e non credenti. Sono importanti esercizi di ascolto, che preparano i “mattoni nuovi” con cui costruire quel futuro che già Dio ha in serbo per tutti, ma si dischiude solo accogliendoci l’un altro. Non possiamo più permetterci di resistere al Regno di Dio, che è un Regno di pace. E là dove i responsabili delle Istituzioni statali e internazionali sembrano non riuscire a far prevalere il diritto, la mediazione e il dialogo, le comunità religiose e la società civile devono osare la profezia. Significa lasciarsi sospingere nel deserto e vedere fin d’ora ciò che può nascere dalle macerie e da tanto, troppo dolore innocente. Papa Leone XIV ha raccomandato ai Vescovi italiani di «promuovere percorsi di educazione alla nonviolenza, iniziative di mediazione nei conflitti locali, progetti di accoglienza che trasformino la paura dell’altro in opportunità di incontro». E ancora ci chiede: «Ogni comunità diventi una “casa della pace”, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono. La pace non è un’utopia spirituale: è una via umile, fatta di gesti quotidiani, che intreccia pazienza e coraggio, ascolto e azione. E che chiede oggi, più che mai, la nostra presenza vigile e generativa» (Discorso ai Vescovi della Conferenza Episcopale Italiana, 17 giugno 2025). Il Santo Padre, dunque, incoraggia a dare nome e forma al nuovo, perché fede, speranza e carità si traducano in una grande conversione culturale. L’amato Papa Francesco ci ha insegnato che «l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica» (Evangelii gaudium, 198). Dio, infatti, ha scelto gli umili, i piccoli, i senza potere e, dal grembo della Vergine Maria, si è fatto uno di loro, per scrivere nella nostra storia la sua storia. Autentico realismo è, allora, quello che include chi «ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti» (Fratelli tutti, 215). Senza le vittime della storia, senza gli affamati e gli assetati di giustizia, senza gli operatori di pace, senza le vedove e gli orfani, senza i giovani e gli anziani, senza i migranti e i rifugiati, senza il grido di tutta la creazione non avremo mattoni nuovi. Continueremo a inseguire il sogno delirante di Babele, illudendoci che toccare il cielo e farsi un nome sia il solo modo umano di abitare la terra (cfrGen11,1-9). Dal principio, invece, negare le voci altrui e rinunciare a comprendersi sono esperienze fallimentari e disumanizzanti. Ad esse va opposta la pazienza dell’incontro con un Mistero sempre altro, di cui è segno la differenza di ciascuno. Disarmata e disarmante, la presenza di cristiani nelle società contemporanee deve tradurre con competenza e immaginazione il Vangelo del Regno in forme di sviluppo alternative alle vie di crescita senza equità e sostenibilità. Per servire il Dio vivente va abbandonata l’idolatria del profitto che ha pesantemente compromesso la giustizia, la libertà di incontro e di scambio, la partecipazione di tutti al bene comune e infine la pace. Una fede che si estranei dalla desertificazione del mondo o che, indirettamente, contribuisca a tollerarla, non sarebbe più sequela di Gesù Cristo. La rivoluzione digitale in corso rischia di accentuare discriminazioni e conflitti: va dunque abitata con la creatività di chi, obbedendo allo Spirito Santo, non è più schiavo, ma figlio. Allora il deserto diventa un giardino e la “città di Dio”, preannunciata dai santi, trasfigura i nostri luoghi desolati. Papa Leone invoca l’intercessione della Beata Vergine Maria, Stella del mattino, affinché sostenga l’impegno di Bollettino N. 0580 - 21.08.2025 2 ciascuno in comunione con i Pastori e le comunità ecclesiali in cui è inserito: «In sinergia con tutte le altre membra del Corpo di Cristo agiremo, allora, in armoniosa sintonia. Le sfide che l’umanità ha di fronte saranno meno spaventose, il futuro sarà meno buio, il discernimento meno difficile. Se insieme obbediremo allo Spirito Santo!» (Omelia nella Veglia di Pentecoste con i Movimenti, le Associazioni e le Nuove Comunità, 7 giugno 2025).

Mentre di cuore unisco a quelli del Santo Padre anche i miei personali auguri, mi valgo della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio di Vostra Eccellenza Reverendissima 

UOMINI DI DIO/ Al Meeting di Rimini il film sui monaci di Tibhirine, martiri per amore


 

UOMINI DI DIO/ Al Meeting di Rimini il film sui monaci di Tibhirine, martiri per amore

Vincenzo Sansonetti Pubblicato 23 Agosto 2025

 

Oggi al Meeting di Rimini (alle 21:00 in Sala Neri) verrà proiettato il film "Uomini di Dio" che racconta una storia vera, accaduta nel 1996

Ha vinto nel 2010 il Grand Prix Speciale della Giuria del 63esimo Festival di Cannes, e a suo tempo riscosso un successo inaspettato in Francia, il film Uomini di Dio, di Xavier Beauvois, che ha confezionato un’opera di profonda religiosità, affascinante e commovente, anche se lui si dichiara non credente.

Viene proposto al Meeting di Rimini di quest’anno, dal titolo Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi, in un contesto in cui si sottolinea l’urgenza di una testimonianza coraggiosa, in un mondo svuotato di senso e di amore.

In effetti, la storia vera dei monaci di Thiberine mostra che sono stati chiamati due volte: la prima quando hanno rinunciato a tutto, la propria famiglia, il proprio Paese, la donna e i figli che avrebbero potuto avere, per vivere in un monastero nell’Atlante algerino; la seconda quando hanno deciso di restare insieme con la popolazione musulmana, che hanno sempre amato e aiutato, non abbandonandola nei momenti tragici delle incursioni terroristiche del Gruppo islamico armato. A costo di morire decapitati, come accadde nel maggio del 1996 a sette di loro.

Il titolo italiano della pellicola, Uomini di Dio, non rende ragione pienamente del vero intento del regista francese: “In una società egoista come la nostra è raro trovare persone che si interessano agli altri… Persone che costruiscono una chiesa cristiana tra i musulmani e si occupano di loro”.  (…)

Proprio in questa prospettiva si comprendono le prime immagini che introducono i protagonisti nella loro quotidianità di vita. Ritmata dal suono delle campane, è fatta di preghiera, di studio (sulla scrivania del priore Christian si trovano sia i Fioretti di san Francesco che una copia del Corano), di lavoro nell’orto o nella produzione di miele, di servizi necessari in cucina o in lavanderia e di tanta sollecitudine nei confronti della gente del villaggio.

Qui spicca la bellissima figura di frère Luc, anziano medico che cura le ferite del corpo e dell’anima delle persone più semplici, donne e bambini, che a lui si rivolgono ogni giorno. Una ragazza gli chiede persino consiglio per capire come ci si accorge di essere innamorati, proprio lei che proviene da un contesto familiare in cui sono i padri a decidere chi devono sposare le loro figlie. E lui con serena tranquillità e senza alcun imbarazzo racconta alla giovane di essersi innamorato varie volte nella sua vita, ma di aver però trovato un amore ancor più grande, a cui ha deciso di rispondere.

(…)

Dopo che una ragazza è stata pugnalata su un pullman perché non indossava il velo e vengono uccisi perfino degli imam, la stessa popolazione del villaggio è in allarme, soprattutto quando addirittura vengono barbaramente assassinati degli operai croati che lavoravano in un cantiere. Anche i monaci a questo punto si sentono in pericolo e forse vorrebbero accettare la protezione militare offerta dal prefetto. Ma il priore, senza neppure consultarli, rifiuta con decisione una proposta che snaturerebbe la scelta di pace e di amore che hanno compiuto.

Emerge qui tutta la fragilità umana dei religiosi e le loro comprensibili paure. Quasi contestano il priore che non li ha interpellati. Quando ci sarà un’irruzione dei terroristi nel monastero, la notte di Natale, per chiedere medicine e l’aiuto del medico, ammireranno però la risposta ferma di Padre Christian. Non ammette la presenza delle armi nella casa di Dio e riesce a fermare la violenza dei guerriglieri, recitando anche parole del Corano che invitano alla tolleranza e alla pace. “Niente esiste salvo l’amore… salvo l’amore che si manifesta”, canteranno poi tutti insieme nella celebrazione del Natale che avviene proprio quella notte.

La coscienza del pericolo incombente sul monastero trasforma lentamente il cuore dei confratelli, che continuano nelle loro attività quotidiane. Dapprima incerti sull’opportunità di restare, scelgono di attendere e di pregare intensamente, prima di prendere una decisione. Addirittura il prefetto, vista la gravità della situazione, chiede con durezza al priore di riportare i suoi monaci in Francia. Ma la gente del luogo considera il monastero la sua protezione, malgrado la titubanza di qualche religioso: “Siamo come gli uccelli su un ramo, non sappiamo se dobbiamo andarcene”. Il capo del villaggio però ribatte: “Gli uccelli siamo noi, il ramo siete voi. Se ve ne andate, dove ci poseremo?”.

(…)

C’è una commovente ultima cena con il vino portato da Luc, da condividere con gioia, ma anche con la consapevolezza e il tremore che traspare dai volti segnati dal dramma che stanno vivendo e dallo sguardo intenso di chi attende il proprio destino con fede incrollabile. La notte in cui i terroristi irrompono nel monastero per portare via sette degli otto monaci, i confratelli non oppongono resistenza.

Mentre scompaiono nella nebbia, camminando faticosamente sulla neve, si ascoltano le parole vertiginose del priore Christian, il suo testamento spirituale. Il suo desiderio finale è immergere lo sguardo in quello del Padre, per contemplare con Lui i suoi figli dell’Islam così come tutti i fratelli. Perché siamo tutti figli dello stesso Padre, nella diversità delle religioni e degli uomini, come ci ricorda il titolo originale del film.

(…)

Ai martiri d’Algeria (i sette monaci più altri 12 religiosi uccisi dai terroristi islamici tra il 1994 e il 1996) sono dedicati l’incontro Vite donate. L’eredità viva dei martiri d’Algeria (sabato 23 agosto alle 12, Auditorium Isybank D3) e la mostra Chiamati due volte. I martiri d’Algeria (Piazza A7).

 

https://www.ilsussidiario.net/news/uomini-di-dio-al-meeting-di-rimini-il-film-sui-monaci-di-tibhirine-martiri-per-amore/2872868/#:~:text=CINEMA%20E%20TV-,UOMINI%20DI%20DIO/%20Al%20Meeting%20di%20Rimini%20il%20film%20sui%20monaci,SLIMELLA%20FIT,-La%20prostatite%20guarir%C3%A0

 

 

 

 


domenica 10 agosto 2025

NEWMAN/ Quel primato del cuore che lo lega ad Agostino, de Lubac e Giussani


 

NEWMAN/ Quel primato del cuore che lo lega ad Agostino, de Lubac e Giussani

Michiel Peeters Pubblicato 10 Agosto 2025

 

Papa Leone XIV dichiarerà il card. John Henry Newman dottore della Chiesa. I capisaldi del pensiero e dell'insegnamento di un maestro della fede

Il 31 luglio la Santa Sede ha annunciato che Papa Leone XIV dichiarerà John Henry Newman (1801-1890) dottore della Chiesa. Un dottore della Chiesa è un santo le cui opere presentano la dottrina cattolica in modo affidabile ed ortodosso e contemporaneamente nuovo ed eccezionale. Da un tale teologo i credenti sono invitati ad imparare ciò che la Chiesa crede e vive.

Newman entra così nel gruppo ristretto – con lui saranno in totale 38 – di cui fanno parte Ambrogio, Agostino, Atanasio, Crisostomo, Leone Magno, Tommaso d’Aquino, Ildegarda di Bingen, Caterina da Siena e Teresa di Lisieux. L’ultimo ad essere stato aggiunto è Ireneo di Lione, nel 2022.

Questo primo grande gesto di Leone XIV ricorda la decisione del suo predecessore Leone XIII di nominare Newman nel 1879 il primo cardinale del suo pontificato, dopo che il sacerdote inglese aveva dovuto sopportare molta diffidenza e opposizione durante quello precedente.

Quando Newman si convertì al cattolicesimo, nel 1845, fu accolto con tutti gli onori a Roma. Era stato il volto più importante del Movimento di Oxford, un tentativo di rilanciare la Chiesa anglicana rinnovandone la dottrina e la vita attraverso un riavvicinamento alla Chiesa dei Padri.

Ma proprio lo studio patristico portò Newman a rendersi conto che il dogma cristiano era stato conservato e sviluppato in modo organico (“per rimanere se stessi, bisogna cambiare”, Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana) nella comunione con il vescovo di Roma e non nelle comunità che se ne erano separate.

Questa scoperta, che lo portò alla conversione (che, per Newman, nella parafrasi di Giussani, “altro non è che la scoperta più profonda e più autentica di ciò cui si aderiva prima”), gli costò però le sue cariche all’Università di Oxford, la sua reputazione e tanti amici, tranne alcuni che lo seguirono.

A Roma, dove diventò Oratoriano e fu ordinato sacerdote cattolico, restò negativamente impressionato dalla rigida teologia scolastica e dal clericalismo. Ciò rafforzò la sua convinzione che la sua vocazione fosse nell’educazione, ossia il favorire che i battezzati diventassero cristiani consapevoli e liberi, per rendere la Chiesa presente in nuovi ambienti come realtà attraente.

Lo cerca di fare come pastore, predicatore e pubblicista, e dal 1851 come fondatore e primo rettore dell’Università Cattolica di Dublino (da cui è nato il suo importante libro L’idea di università).

Ma i conflitti con i vescovi irlandesi, che volevano soprattutto un vivaio per nuovi sacerdoti, mentre Newman desiderava un’istituzione accademica libera dove i cattolici anche laici fossero formati in senso lato, lo portarono a dimettersi nel 1858.

Nel 1859 il vescovo di Birmingham gli chiese di dirigere la rivista Rambler, pubblicata da alcuni convertiti di Oxford e considerata troppo critica nei confronti della gerarchia. Newman accettò e vi scrisse un articolo Sul consultare i fedeli in materia di dottrina.

In esso spiegava che le verità della fede sono vive nella Chiesa nel suo insieme, non solo nell’ecclesia docens. Anzi, storicamente è accaduto (con l’arianesimo) che la maggior parte dei vescovi professava una dottrina eretica, mentre il popolo era ortodosso. Pertanto, per poter insegnare la dottrina cattolica, la gerarchia ascolta volentieri ciò che vive nel popolo cristiano (un pensiero anche presente nella regola di San Benedetto (capitolo 3) e nel metodo della “scuola di comunità”).

Questo saggio risultò “un atto di suicidio politico”, dopo il quale la carriera ecclesiastica di Newman non si riprese mai completamente (John Coulson).

Persone invidiose vi trovarono lo spunto per diffamarlo presso la Santa Sede. Lo mandarono, in una traduzione latina approssimativa, a Roma, accompagnato da un’accusa formale di eresia da parte del vescovo di Newport. Il Papa espresse il suo dispiacere e dolore personale per quanto affermato da Newman. In un colpo la sua reputazione era distrutta; da quel momento Roma lo considerava “l’uomo più pericoloso d’Inghilterra”.

Newman chiese un elenco dei passaggi contestati, una copia della traduzione latina fatta e una lista delle proposizioni dogmatiche che si riteneva avesse violato. In cambio, si impegnò ad accettare e professare tali proposizioni, a spiegare la sua argomentazione in stretta conformità con esse e a dar ragione del fatto che erano assolutamente coerenti con il testo inglese.

Propaganda Fide fornì l’elenco richiesto, ma il cardinale di Londra non lo inoltrò a Newman. Non si capisce perché Newman non sia stato messo in grado di dare una risposta in quel momento. Ad ogni modo, questo episodio segnò l’inizio di un periodo di silenzio di Newman. Fino alla sua Apologia pro vita sua (1864), non pubblicò più nulla.

Nel 1875 torna ancora una volta sul rapporto tra autorità e fedeli. Nella Lettera al Duca di Norfolk spiega che la natura e la rivelazione sono fatte l’una per l’altra. “Il Papa, che proviene dalla Rivelazione, non ha giurisdizione sulla Natura”. L’autorità della Chiesa non prevale sulla coscienza del singolo credente, ma la suscita, rafforza, completa, riafferma, emana, incarna ed interpreta.

Se, invece, il Papa si esprimesse contro la coscienza personale, “commetterebbe un atto suicida. Si taglierebbe le gambe. Sulla legge della coscienza e sulla sua sacralità si fondano sia la sua autorità teorica che il suo potere effettivo”. Newman parlò della coscienza, ma non è difficile vedere che lo stesso valga per ciò che sant’Agostino (Confessioni), Henri de Lubac (Soprannaturale) e Luigi Giussani (Il senso religioso) chiamano il “cuore”: la “voce” dentro di noi di chi ci ha creati, ascoltando la quale possiamo riconoscere la presenza di ciò da cui e per cui siamo fatti.

Giussani – che fin dal liceo amava molto Newman, ritenendolo, accanto a Romano Guardini, uno dei nostri due “partner più sensibili” – spiegava la questione così: “Ciò che ti ha destato il cuore in principio è un fatto storico che ti ha immesso in un altro fatto storico, che è la compagnia con l’autorità […]. Accettare [il] paragone [con essa] è lo strumento, è il cammino naturale per lo sviluppo […]. Se questo paragone con l’autorità non ti aumenta la ragione, non ti ‘stabilisce’, non ti rende più stabile il cuore, allora c’è un pericolo, e tu devi riandare, in quel caso, appena puoi, a quelle persone, a quella persona, a quel contesto umano che ti ha destato il primo input, il primo impeto”.

“Vale a dire, siamo legati alla compagnia e all’autorità, accettiamo la compagnia e l’autorità, ma liberamente. Liberamente è una parola non superficiale e meccanica: indica che io aderisco all’autorità tanto quanto essa mi aiuta. E se in questo momento non mi aiuta, allora io mi riferisco alle persone che mi aiutano. Ma le persone che mi aiutano, mi aiutano veramente se mi ributtano ancora nel paragone con la compagnia e con l’autorità, se non mi fanno saltare niente, così che magari due giorni dopo capisco quello che mi aveva scandalizzato due giorni prima”.

Anche Giussani è stato guardato con diffidenza, per il credito che dava all’esperienza umana; ma a un certo punto, anche di lui la Chiesa ha riconosciuto la “genialità pedagogica e teologica” (Papa Francesco, 15 ottobre 2022).

Un altro aspetto rilevante del pensiero di Newman che merita di essere approfondito è il concetto di “influenza personale” (cf. il suo sermone del 22 gennaio 1832).

La verità non viene difesa nei dibattiti, né diffusa attraverso commissioni e piani e opere organizzati dall’alto verso il basso, ma attraverso il cambiamento che essa opera nella persona che la riconosce; un cambiamento che sarà percettibile da quelli che la circondano. Il suo testo più teorico, La grammatica dell’assenso, riporta come motto una frase di sant’Ambrogio: “A Dio piacque salvare il suo popolo non attraverso la dialettica”. Nel suo motto da cardinale ha suggellato questa sua convinzione: Cor ad cor loquitur.

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https://www.ilsussidiario.net/news/newman-quel-primato-del-cuore-che-lo-lega-ad-agostino-de-lubac-e-giussani/2869259/#:~:text=CULTURA-,NEWMAN/%20Quel%20primato%20del%20cuore%20che%20lo%20lega%20ad%20Agostino%2C%20de,Papa%20Leone%20XiV,-Divisi%20anche%20al

 

 


TRAGEDIA GAZA/ Amos Oz contro gli “ebrei neonazi” che portano Israele al suicidio


 

TRAGEDIA GAZA/ Amos Oz contro gli “ebrei neonazi” che portano Israele al suicidio

Luigi Campagner Pubblicato 10 Agosto 2025

 

Amos Oz, il maggiore scrittore di Israele, amico e possibile successore di Shimon Peres, aveva intuito la deriva omicida della rabbia israeliana

La guerra a Gaza si è presto trasformata da guerra difensiva in guerra di spopolamento, termine con il quale Graccus Babeuf ne La Guerra di Vandea e il sistema di spopolamento (1794) aveva anticipato il termine genocidio o “populicidio”. Un vecchio sistema di conquista, mai passato di moda, ora attuato anche da Israele, con conseguenze tutte da valutare per la tenuta stessa delle fondamenta dello Stato.

La voce di cui in molti hanno sentito acutamente la mancanza in questi due anni di guerra è sicuramente quella di Amos Oz (1939-2018), il maggiore degli scrittori israeliani, che nella sua opera principale Una storia di amore e di tenebra (2002) ha ricapitolato la storia contemporanea del popolo ebraico attraverso le vicende di innumerevoli famiglie e di individualità straordinarie, iniziando dalla sua. Il valore dell’opera è tale da prestarsi alla duplice lettura di documento storico e opera autobiografica: anche invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia.

Fondatore di Peace Now, Oz è stato un propugnatore convinto della possibilità di creare la pace tra arabi e israeliani anche nel bel mezzo della nakba, la parola araba che significa catastrofe, purtroppo sempre attualissima dal 1947 ad oggi.

Da giovane kibbutzino, Oz ha conosciuto personalmente David Ben Gurion, fondatore di Israele, leader politico e militare a cui si deve, tra l’altro, la scelta della Stella di David come simbolo – unico richiamo biblico – del nascente Stato. Da adulto, Oz è stato a lungo intimo di Shimon Peres: anch’egli leader politico e militare, Premio Nobel per la pace nel 1994.

Peres fu una personalità di spicco, uno leader politico e militare: pronto alla guerra, ma con “le lampade accese” per la pace. Così come lo sono stati i primi ministri Golda Meir e Yitzhak Rabin. Tutti appartenevano a una razza strana, una sorta di “lanzichenecchi di pace”, per rubare una geniale espressione di Giacomo B. Contri (Think!, 2010). Una razza purtroppo estinta, che ha lasciato il passo agli odierni “lanzichenecchi e basta”.

Oz fu indicato dallo stesso Peres come suo possibile successore politico. Una prospettiva che non si concretizzò e non sapremo mai se il leader politico sarebbe stato all’altezza dello scrittore. Tuttavia, alcune delle sue visioni politiche (sostenute anche da altri) per raggiungere la pace con gli arabi, come ad esempio rinunciare alla West Bank, ossia il territorio coincidente con la Cisgiordania e i territori occupati nella Guerra dei sei giorni del 1967, e spostare il baricentro dello Stato nel deserto del Negev, trasformandolo nella Silicon Valley israeliana, avrebbero meritato di cimentarsi sul banco di prova della storia.

Peres consegnò come omaggio a Papa Francesco e all’allora presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen Una storia di amore e di tenebra in occasione dell’incontro che si tenne in Vaticano l’8 giugno 2014. Lo consegnò come auspicio di pace e come uno scrigno in grado di contenere e di far comprendere al mondo i tormenti, le aspirazioni, le gioie, i sogni, gli incubi e le contraddizioni del popolo ebreo contemporaneo.

Nei giorni successivi all’infame atto di guerra di Hamas del 7 ottobre 2023 che ha innescato la risposta bellica di Israele, Fania Oz, figlia di Amos e Nily Zuckerman, rilasciò un’intervista al Corriere della Sera, dove dichiarava: “mio padre, Amos Oz, per sua fortuna è scomparso cinque anni or sono. Tanti di noi si consolano, oggi, al pensiero che i propri genitori, la generazione fondatrice di Israele, i suoi combattenti, sognatori e pacifisti (corsivo mio) non sono più tra noi per assistere alla tragedia che si è abbattuta sul nostro popolo”.

Parole traboccanti di pietà filiale che fanno quasi dimenticare che Oz, il cognome che Amos aveva scelto a 15 anni dopo il suicidio della madre, significa “forza”. Forza anche di attraversare le tenebre e guardare fino in fondo al baratro dell’orrore. Non solo quando l’orrore viene dall’esterno, dal “nemico”, ma anche quando l’orrore viene dall’interno, quando il peggior nemico di te stesso sei tu.

Oz aveva avuto il coraggio oltre dieci anni fa di guardare attraverso le tenebre l’orrore che viene dall’interno, e non esitò a creare quello che allora sembrava un pesantissimo ossimoro, ossia “ebrei neonazi”. “Ebrei neonazi” è un nome, un giudizio e un capo d’accusa rivolto contro i coloni responsabili di ritorsioni indiscriminate nei confronti dei villaggi palestinesi, un capo d’accusa che oggi il maggiore degli scrittori ebrei contemporanei non esiterebbe a rivolgere al governo Netanyahu. (…)

https://www.ilsussidiario.net/news/tragedia-gaza-amos-oz-contro-gli-ebrei-neonazi-che-portano-israele-al-suicidio/2869193/#:~:text=ESTERI-,TRAGEDIA%20GAZA/%20Amos%20Oz%20contro%20gli%20%E2%80%9Cebrei%20neonazi%E2%80%9D%20che%20portano%20Israele,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94,-Abbiamo%20bisogno%20del

 


sabato 9 agosto 2025

Video Edith Stein con musica

LETTURE/ San Freinademetz e le valli ladine, quando la fede cambia la terra

 



LETTURE/ San Freinademetz e le valli ladine, quando la fede cambia la terra

Tommaso Ricci Pubblicato 9 Agosto 2025


Le valli ladine, nelle bellissime Dolomiti, custodiscono preziose storie di fede. Come quella di san Freinademetz, missionario del Verbo Divino

 

“Carissimi genitori, vi racconto una storia succeduta ad un missionario qui. Un nuovo cristiano fu battuto terribilmente dal mandarino per nessun’altra colpa che per essere cristiano. Il missionario andò subito dal mandarino per liberare il cristiano. Il mandarino mandò due manigoldi che con grandi bastoni hanno battuto quel missionario, l’hanno tirato fuori di casa, gettato a terra, gli hanno lordato la faccia con sporchezze schifosissime e l’hanno strascinato per la città, beffeggiato da una folla grandissima; minacciarono di gettarlo nell’acqua, di ucciderlo e così via. Arrivati fuori città l’hanno gettato legato per terra. Là sdraiato predicò loro per mezz’ora, poi l’hanno lasciato andar via (…) Adesso quel missionario è guarito e sta allegro e ringrazia il Signore di averlo degnato di poter patire un po’ per amor di Dio e dei cinesi. Questo missionario, che vi saluta di cuore e vi prega delle vostre orazioni, non è nessun altro che Vostro figlio Giuseppe” (Cina, 27 giugno 1889).

 

Vivida e commovente lettera del santo sacerdote Freinademetz beatificato da Paolo VI cinquant’anni fa e canonizzato nel 2003 da papa Giovanni Paolo II; un badiotto, cioè della Val Badia, cioè della Ladinia, la piccola patria culturale incuneata tra Austria e Italia. Fino a ieri i suoi figli erano soggetti all’imperatore asburgico, poi dopo la guerra mondiale del 1915-18 (che per loro iniziò nel 1914, particolare non irrilevante, come vedremo) sono diventati cittadini italiani dotati di un’ampia e legittima autonomia.

Ujöp (Giuseppe, Josef) Freinademetz era un valligiano dolomitico, un ladino di Oies i cui orizzonti della mente e del cuore, secondo certi stereotipi, non sarebbero stati in grado di valicare neanche il Sasso della Croce che sovrasta il santuario oggi dedicato al primo santo di questa terra benedetta.

E invece lui, seguace di Cristo, disse: “Io amo la Cina e la sua gente e vorrei morire mille volte per loro… Voglio restare cinese anche in Paradiso… Essere missionario in Cina è un onore che non cambierei con la corona d’oro dell’imperatore d’Austria” (di cui era leale suddito).

Sarebbe interessante sapere quanti tra i milioni di scarponi e di piccozze (ma anche infradito e chiassosi smartphone; si leggono cronache vacanziere inaudite e mostruose) che ogni estate calcano i sentieri dolomitici conoscano questa vicenda, o più in generale siano consapevoli della storia di questi luoghi, così sintetizzata alcuni decenni fa da un montanaro fassano (Fassa, Gardena, Livinallongo, Ampezzo e Badia sono le valli della Ladinia): “Chiò te Fascia l’è sozedù demò doi robe: i Conzil de Trent che à parà demez le strie e la Pruma Vera che à portà su i taliegn” (Qui in Val di Fassa sono successe due cose: il Concilio di Trento che ha portato via le streghe e la Prima Guerra che ha portato su gli italiani): pregnante sintesi storica ladina.

Perché a leggere le leggende e fiabe locali, dalle “pope” del Latemar al cavaliere del Monte Cristallo, dal re Laurino dei Monti Pallidi a mille altre (ogni massiccio ha una propria mitologia), queste terre alte erano infestate da numerosi spiriti dispettosi e malvagi e da qualche presenza “buona”; le streghe spadroneggiavano nella mentalità corrente.

 

Le severe normative del Concilio di Trento contro queste credenze pagane si fecero sentire, anche con spiacevoli episodi violenti (in una giornata inadatta a passeggiate consiglio di visitare il Museo Ladino di Fassa, a Sen Jan, scrigno di notizie su storia e usanze del luogo).

Altro momento fondativo dell’identità ladina – che da relativamente poco tempo ha adottato una lingua standard, essendo le parlate ladine diverse da valle a valle – è stata la Prima guerra mondiale, quando la mejo zoventù ladina partì in guerra verso la Galizia per combattere i russi sotto l’egida asburgica.

A Moena c’è una mostra permanente dedicata all’evento bellico, realizzata con gran profusione di mezzi e ben concepita, che narra gli aspri scontri combattuti su queste alte quote a seguito dell’improvvisa entrata italiana nel conflitto, nel 1915, contro Vienna. Un’epica dolorosa ed eroica, che coinvolse giovanissimi e anziani, visto che le truppe ladine migliori erano tutte impegnate all’est contro la Russia.

Una visita a questa esposizione è davvero consigliata, sia per immergersi nelle condizioni reali, asperrime, della guerra sulle vette, che per smascherare la retorica bellicista che con questa “inutile strage” (copyright Benedetto XV) mandò a morire e a sfigurarsi per le ferite moltissimi uomini (sia del meridione d’Italia che delle tranquille valli dolomitiche).

 

Altra storia legata a queste terre è quella di Domenico Chiocchetti di Moena, artista-artigiano protagonista di una straordinaria vicenda che coinvolge il grand’ammiraglio tedesco Karl Dönitz, Winston Churchill, e molti prigionieri di guerra italiani confinati nell’estremo nord inglese e che porta i suoi frutti fino ai nostri giorni, quella della Italian Chapel delle Isole Orcadi, alla periferia del mondo eppure divenuta nei decenni trascorsi attrattivo simbolo di pace universale (sarebbe bello che Papa Leone XIV andasse lì a invocare per il mondo in fiamme la pace di Cristo!).

Grazie alla benevolenza del comandante inglese del campo di lavoro i prigionieri italiani edificarono una chiesetta per le esigenze della loro fede e il moenese Chiocchetti, che aveva appreso a Ortisei, in Val Gardena, l’arte di intagliare il legno, fu uno dei protagonisti delle belle decorazioni sacre che tuttora si ammirano lì.

Volle addirittura fermarsi un po’ di tempo in più in quel luogo di detenzione dopo la liberazione ed il rimpatrio dei compagni per ultimare il lavoro. E poi ci ritornò nel 1960, invitato, portando in dono una Via Crucis lignea scolpita nelle sue terre.

(…)

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-san-freinademetz-e-le-valli-ladine-quando-la-fede-cambia-la-terra/2869044/#:~:text=CHIESA-,LETTURE/%20San%20Freinademetz%20e%20le%20valli%20ladine%2C%20quando%20la%20fede%20cambia,l%E2%80%99orizzonte%20del%20cuore%2C%20perch%C3%A9%20%E2%80%9Cla%20lingua%20che%20tutti%20comprendono%20%C3%A8%20l%E2%80%99amore%E2%80%9D.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94


venerdì 11 luglio 2025

Ron: «La mia musica, tra silenzio e pace»


 

Ron: «La mia musica, tra silenzio e pace»

Il legame con l’amico Mario Melazzini e quello con padre Silvano Fausti, la canzone che «mi ha salvato» e il giudizio sulla musica di oggi. Il cantautore vincitore di Sanremo ’96, che quest’anno suonerà e dialogherà con il pubblico del Meeting di Rimini, si racconta

 

10.07.2025

Massimo Granieri

Sacerdote e insegnante, critico musicale dell’Osservatore Romano, conduce un programma di musica contemporanea su Radio Vaticana

Avevo quattordici anni quando alla radio intercettai Joe Temerario di Ron, singolo inedito incluso in una raccolta di successi. Acquistai quel vinile e lo conservo ancora come una reliquia: memoria di un imprevisto che allargò gli orizzonti musicali e non solo. Una canzone che trattava di un dialogo tenero tra padre e figlio e che rivelava a un adolescente irrequieto un modo costumato di vivere i rapporti familiari. Le canzoni di Ron aprono finestre sul mondo. È per questo motivo che ho voluto invitarlo al prossimo Meeting di Rimini per un miniconcerto intervallato da un dialogo sui brani. Al telefono, mi ha comunicato a sorpresa la volontà di ampliare la scaletta: «Dai, cantiamo! È quello che mi piace di più, suonare e cantare». È patrimonio della storia culturale del nostro Paese e messaggero di una fede illuminata dalla grazia, caratteristica spesso ignorata dall’industria discografica e derisa dalla critica musicale. Ron parla della musica come di uno spazio di silenzio e pace, un baluardo contro il frastuono del mondo: «Viviamo in un mondo malato e chiassoso. Io cerco nuove sonorità, specie ora che sto riarrangiando molti brani con l’aiuto di un grande pianista e della mia band. Tutto nasce dal silenzio, dal bisogno di tenermi lontano dal rumore». È la pace, dunque, la condizione indispensabile per ricrearsi. Lo canta in una canzone: «Solo nel silenzio non si è soli mai / Porta fino in fondo là dove c’è Dio / Dove sei te stesso.» (Nel silenzio, dall’album “Adesso” pubblicato nel 1999).

La sua musica è intrecciata alla fragilità della vita. Lo dimostra il legame con Mario Melazzini, medico e già presidente dell‘Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla). Quando a Melazzini fu diagnosticata la sla, la loro amicizia si fece più intensa, segnata da un’autentica condivisione del dolore. Mise a disposizione la sua musica per sostenere l’associazione e consolare. Nel 2016 nacque La forza di dire sì, un album di ventiquattro duetti con artisti italiani – tra cui De Gregori, Jovanotti, Pino Daniele, Lucio Dalla – per raccogliere fondi e ridare slancio alla ricerca. Non un gesto di beneficenza di facciata, ma la fioritura di un’amicizia compassionevole.

Ron parla di Melazzini: «Mario è stato – e lo è ancora – un vero maestro. È una persona che non abbandona mai nessuno. Mi ammalai anch’io. Impedito nel fare il mio lavoro, mi resi conto di quanto stavo perdendo. Poi sono ripartito grazie alla sua vicinanza. In lui ho visto la speranza. Ancora oggi combatte battaglie importanti, torna a casa arrabbiato, indignato, ma con un carico di attese, fiducioso». Un altro incontro decisivo fu quello con padre Silvano Fausti, in un periodo di smarrimento: «Avevo incontrato persone molto lontane da quello che predicavano. Ne ho sofferto tanto. Proprio in quel dolore mi sono aggrappato a padre Silvano. Ero deluso, non avevo più voglia di cantare». Gli ha insegnato la leggerezza, dando spessore spirituale alla sua ricerca di senso: «Ricordo che quando gli dicevo: “Sai, faccio fatica a pregare”, padre Silvano rispondeva: “Va bene, non preoccuparti, pregherà Lui per te”. Era una risposta che mi disarmava e insieme mi sollevava».

Gli chiedo se qualcuno gli abbia mai detto “Sai, quella tua canzone mi ha salvato” e a lui quale canzone lo ha salvato: «Sì, in tanti me lo dicono. E c’è stata una canzone che mi ha aiutato davvero. Non l’ho scritta io ma l’ho cantata e continuerò a suonarla senza stancarmi: si chiama The Road. Penso che l’adattamento di Lucio Dalla, Una città per cantare, sia riuscito ad arrivare ancora più in profondità del brano originale» (The Road è del 1972, di Danny O'Keefe, resa celebre da Jackson Browne, ndr). «Quella canzone mi ha dato una forza enorme. Io sono quella storia. Ricordo che da ragazzino, a tredici anni, camminavo in campagna tra girasoli altissimi che sembravano guardarmi davvero. Mi misi a cantare per loro come se fossero spettatori del mio primo concerto. Da allora quel desiderio non mi ha mai lasciato. Fare dischi è faticoso, ma andare in concerto è come respirare aria nuova, come avere ogni volta una speranza diversa, anche se canto le mie vecchie canzoni».

Il palco è per lui una soglia: «Cantare e suonare in teatro è una delle cose più belle del mondo. Si respira un’aria speciale, quasi d’altri tempi. Mi emoziona pensare alla storia di quei luoghi. Mi piace il silenzio, il rispetto che bisogna riconoscergli. Mi intristisco invece quando devo cantare in posti inadatti. Ma alla fine è il pubblico che fa la differenza: senza quel contatto non potrei fare questo mestiere». Gli rammento la sua primissima esibizione a Sanremo con Nada: «Me lo ricordo benissimo! Era il mio sogno. Salire su quel palco fu come trasformarmi in un leone. Ho passato i giorni più belli della mia vita, circondato dai miei idoli». Al Festival, anni più tardi, lasciò un segno vincendolo con Tosca: «Vorrei incontrarti tra cent’anni è una canzone diversa. Non ero sicuro che fosse “da Sanremo”. Penso che senza Tosca il Festival non l’avremmo vinto. Ma lavorare con lei fu fantastico. È una grande artista».

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Ron: «La mia musica, tra silenzio e pace»

Il legame con l’amico Mario Melazzini e quello con padre Silvano Fausti, la canzone che «mi ha salvato» e il giudizio sulla musica di oggi. Il cantautore vincitore di Sanremo ’96, che quest’anno suonerà e dialogherà con il pubblico del Meeting di Rimini, si racconta

 

10.07.2025

Massimo Granieri

Sacerdote e insegnante, critico musicale dell’Osservatore Romano, conduce un programma di musica contemporanea su Radio Vaticana

Ron (©Luciano Pascali)

Ron (©Luciano Pascali)

Avevo quattordici anni quando alla radio intercettai Joe Temerario di Ron, singolo inedito incluso in una raccolta di successi. Acquistai quel vinile e lo conservo ancora come una reliquia: memoria di un imprevisto che allargò gli orizzonti musicali e non solo. Una canzone che trattava di un dialogo tenero tra padre e figlio e che rivelava a un adolescente irrequieto un modo costumato di vivere i rapporti familiari. Le canzoni di Ron aprono finestre sul mondo. È per questo motivo che ho voluto invitarlo al prossimo Meeting di Rimini per un miniconcerto intervallato da un dialogo sui brani. Al telefono, mi ha comunicato a sorpresa la volontà di ampliare la scaletta: «Dai, cantiamo! È quello che mi piace di più, suonare e cantare». È patrimonio della storia culturale del nostro Paese e messaggero di una fede illuminata dalla grazia, caratteristica spesso ignorata dall’industria discografica e derisa dalla critica musicale. Ron parla della musica come di uno spazio di silenzio e pace, un baluardo contro il frastuono del mondo: «Viviamo in un mondo malato e chiassoso. Io cerco nuove sonorità, specie ora che sto riarrangiando molti brani con l’aiuto di un grande pianista e della mia band. Tutto nasce dal silenzio, dal bisogno di tenermi lontano dal rumore». È la pace, dunque, la condizione indispensabile per ricrearsi. Lo canta in una canzone: «Solo nel silenzio non si è soli mai / Porta fino in fondo là dove c’è Dio / Dove sei te stesso.» (Nel silenzio, dall’album “Adesso” pubblicato nel 1999).

 

La sua musica è intrecciata alla fragilità della vita. Lo dimostra il legame con Mario Melazzini, medico e già presidente dell‘Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla). Quando a Melazzini fu diagnosticata la sla, la loro amicizia si fece più intensa, segnata da un’autentica condivisione del dolore. Mise a disposizione la sua musica per sostenere l’associazione e consolare. Nel 2016 nacque La forza di dire sì, un album di ventiquattro duetti con artisti italiani – tra cui De Gregori, Jovanotti, Pino Daniele, Lucio Dalla – per raccogliere fondi e ridare slancio alla ricerca. Non un gesto di beneficenza di facciata, ma la fioritura di un’amicizia compassionevole.

 

Ron parla di Melazzini: «Mario è stato – e lo è ancora – un vero maestro. È una persona che non abbandona mai nessuno. Mi ammalai anch’io. Impedito nel fare il mio lavoro, mi resi conto di quanto stavo perdendo. Poi sono ripartito grazie alla sua vicinanza. In lui ho visto la speranza. Ancora oggi combatte battaglie importanti, torna a casa arrabbiato, indignato, ma con un carico di attese, fiducioso». Un altro incontro decisivo fu quello con padre Silvano Fausti, in un periodo di smarrimento: «Avevo incontrato persone molto lontane da quello che predicavano. Ne ho sofferto tanto. Proprio in quel dolore mi sono aggrappato a padre Silvano. Ero deluso, non avevo più voglia di cantare». Gli ha insegnato la leggerezza, dando spessore spirituale alla sua ricerca di senso: «Ricordo che quando gli dicevo: “Sai, faccio fatica a pregare”, padre Silvano rispondeva: “Va bene, non preoccuparti, pregherà Lui per te”. Era una risposta che mi disarmava e insieme mi sollevava».

 

Gli chiedo se qualcuno gli abbia mai detto “Sai, quella tua canzone mi ha salvato” e a lui quale canzone lo ha salvato: «Sì, in tanti me lo dicono. E c’è stata una canzone che mi ha aiutato davvero. Non l’ho scritta io ma l’ho cantata e continuerò a suonarla senza stancarmi: si chiama The Road. Penso che l’adattamento di Lucio Dalla, Una città per cantare, sia riuscito ad arrivare ancora più in profondità del brano originale» (The Road è del 1972, di Danny O'Keefe, resa celebre da Jackson Browne, ndr). «Quella canzone mi ha dato una forza enorme. Io sono quella storia. Ricordo che da ragazzino, a tredici anni, camminavo in campagna tra girasoli altissimi che sembravano guardarmi davvero. Mi misi a cantare per loro come se fossero spettatori del mio primo concerto. Da allora quel desiderio non mi ha mai lasciato. Fare dischi è faticoso, ma andare in concerto è come respirare aria nuova, come avere ogni volta una speranza diversa, anche se canto le mie vecchie canzoni».

 

Il palco è per lui una soglia: «Cantare e suonare in teatro è una delle cose più belle del mondo. Si respira un’aria speciale, quasi d’altri tempi. Mi emoziona pensare alla storia di quei luoghi. Mi piace il silenzio, il rispetto che bisogna riconoscergli. Mi intristisco invece quando devo cantare in posti inadatti. Ma alla fine è il pubblico che fa la differenza: senza quel contatto non potrei fare questo mestiere». Gli rammento la sua primissima esibizione a Sanremo con Nada: «Me lo ricordo benissimo! Era il mio sogno. Salire su quel palco fu come trasformarmi in un leone. Ho passato i giorni più belli della mia vita, circondato dai miei idoli». Al Festival, anni più tardi, lasciò un segno vincendolo con Tosca: «Vorrei incontrarti tra cent’anni è una canzone diversa. Non ero sicuro che fosse “da Sanremo”. Penso che senza Tosca il Festival non l’avremmo vinto. Ma lavorare con lei fu fantastico. È una grande artista».

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/intervista-ron-ospite-meeting-rimini-2025#:~:text=Inevitabile%20un%20giudizio%20sulla%20musica%20italiana%20di%20oggi%3A%20%C2%ABHo%20sempre%20avuto%20curiosit%C3%A0%20verso%20i%20giovani.%20La%20musica%20cerca%20sempre%20nuove%20strade.%20A%20volte%20manca%20un%20po%E2%80%99%20di%20sostanza%20nei%20testi%2C%20ma%20%C3%A8%20normale%20perch%C3%A9%20gli%20autori%20sono%20giovani.%20Non%20voglio

mercoledì 2 luglio 2025

Accolti e accompagnati

 



Accolti e accompagnati

Da più di trent’anni Famiglie in cammino offre un’ipotesi di speranza a genitori feriti dalla perdita prematura di un figlio. Don Giancarlo Greco ripercorre gli inizi e l’origine di un metodo

 

Nel marzo del 1991 a Rimini alcuni genitori, segnati dalla perdita prematura dei figli, si incontrano casualmente durante gli Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione. Dialogano, si raccontano le difficoltà di convivere con un dolore così grande. Soprattutto esprimono il desiderio di aiutarsi. Racconta don Giancarlo Greco: «In quei giorni incontrai a colazione in albergo Giorgio Targa, Giorgio Macchi e Marcello Crolla. Da poco tempo avevano perso drammaticamente i loro figli. Iniziammo un dialogo che continuò nei mesi successivi. Cominciammo a ritrovarci a Busto Arsizio, dove ero parroco. Ricordo i primi incontri: erano sfogo, rabbia, pianti. Poi pian piano si chiarì lo scopo del nostro ritrovarci e stare insieme: vivere il dolore alla luce dell’esperienza cristiana. Quindi partendo da un’ipotesi positiva: la speranza di chi non si rassegna alla perdita».

Ne nasce una piccola fraternità, benedetta anche da don Giussani l’anno successivo. Scriverà infatti il sacerdote brianzolo il 17 febbraio del 1992, in una lettera autografa a loro indirizzata: «Io mi sento piccolo di fronte al cuore grande con cui voi, accettando da Dio una ferita che non si rimargina se non in Cielo, volete farne per la terra un solco di seminagione buona, da testimoniare e per confortare. Dio vi benedica, attraverso le trame misteriose del Suo Volere». Ancora: «Ritengo, il vostro, il modo più profondo e rasserenante per risentire la presenza delle persone carissime che sono già penetrate nel Mistero di Cristo che è eterna felicità».

Famiglie in cammino prende così forma. Nel corso degli anni, il gruppo si struttura in modo spontaneo, diventando riferimento per centinaia di famiglie in Italia. Oggi sono circa 150 i nuclei familiari coinvolti, che si ritrovano regolarmente per momenti di preghiera, dialogo, convivenze, scambi di esperienze. Gli incontri, mensili o periodici a seconda delle città, sono accompagnati da sacerdoti e amici del movimento di Comunione e Liberazione, ma aperti a chiunque si senta interpellato da un dolore così acuto.

«Quello che divenne poi un metodo», racconta ancora don Giancarlo, «fu iniziare a giudicare e a condividere il dolore nell’ottica della speranza cristiana. Non fu difficile accorgersi, nel tempo, che nel nostro ritrovarci non c’era solo il dolore da mettere a tema, bensì la totalità della vita». Le testimonianze sono tante. Come quella di Marisa e Marcello, genitori di Mirko, morto a 15 anni. Le loro parole sono diventate quasi una sorta di manifesto per tutti loro. «Noi abbiamo il dovere e il diritto di continuare ad avere speranza. Chiuderci in un cuore arrugginito sarebbe come far morire di nuovo i nostri figli. Invece è più umano e più saggio aprire il nostro cuore e chiedere aiuto al Signore perché possiamo, giorno dopo giorno, continuare a guardare alla nostra realtà. La vita deve continuare ad avere un senso, nutrito dalla speranza».

Quando Stefano – dopo la morte improvvisa del figlio adolescente – si chiude in sé stesso, un collega di lavoro gli parla di questo «gruppo di amici che vive una cosa simile. Perché non provi a incontrarli?». Lui non ne vuole sapere. Il dolore è una cosa privata, da gestire da soli. Figurarsi poi se di mezzo c’è la Chiesa, il luogo più lontano da lui. Ma le settimane passano, il vuoto resta. E una domanda inizia a farsi spazio. «Se loro avessero trovato davvero il modo di sopravvivere a questa atrocità?». Così decide di conoscerli. Una cena semplice, ma è l’inizio di un cammino nuovo. «La condivisione è fondamentale, perché partiamo tutti da un dolore talmente straziante da sembrare unico e inconsolabile. Ma poi il tempo passa e il desiderio, tutto umano, è quello di una quotidianità che non sia disperata. Io ho incontrato dentro Famiglie in cammino una compagnia di amici che sa di cosa parlo quando dico che mio figlio mi manca; una compagnia che ha raccolto i cocci della mia umanità e mi ha insegnato a riconoscere che mio figlio non era una cosa mia, creata da me, ma un dono».

 

(….)

Don Giancarlo Greco ne è convinto: «Cosa c’è più grande di un figlio? Il sentimento lo vorrebbe sempre con sé, dimenticando però che il figlio non è una proprietà. La ragione, illuminata dalla fede, ci dice che non siamo i creatori della vita; siamo depositari di doni e di compiti. E quando qualcosa ci è tolto dobbiamo farne memoria. Questi anni di accompagnamento a Famiglie in cammino sono stati per me una grazia, quella di vedere il dolore non più vissuto come castigo o punizione, ma come possibilità di trasfigurazione in bene». Quando dice così, pensa a tanti esempi concreti. Come la famiglia di Francesca, mancata a 12 anni per un grave incidente d’auto. I genitori, distrutti, incrociano casualmente Famiglie in cammino e ne nasce un percorso di fede che li ha portati ad aprirsi all’adozione di altri due figli.

Agli inizi di questa storia ci sono state alcune famiglie toccate da eventi particolarmente difficili, come i genitori di Lidia Macchi (uccisa il 5 gennaio del 1987), le famiglie Targa, Colombo, Varrà e anche Pietro Molla, marito di Santa Gianna Beretta Molla e padre di Mariolina, morta a sei anni. Scrisse Pietro in una lettera: «Sono parte anche io di Famiglie in cammino. A tutti voi carissimi il mio affettuosissimo augurio di vivere la certezza che i nostri figli in Paradiso ci accompagnano sempre con il loro amore, la loro protezione e ci chiedono di essere sereni e sicuri che li incontreremo ancora visibilmente e per sempre».

(…)

Anche Serena e il marito Teodoro sono in ricerca. Conoscevano già Famiglie in cammino, ma la loro adesione è diventata totale con la morte del figlio Misael. In questi anni, hanno trasformato il loro dolore in arte e poesia, e in testimonianza viva per altri genitori. «Ecco, in cammino. Non è certo facile pensare di andare avanti dopo la morte di un figlio. Misa è mancato nel 2016 per un glioblastoma, dopo tante sofferenze. Come si fa ad accettare e capire le ragioni di certe malattie, degli incidenti, del suicidio o addirittura di insensati omicidi? Accettare la croce, come l’ha accettata Gesù, non è un fatto semplice. Le domande sono aperte ma ora abbiamo una strada, tanti amici che sono con noi». Quando questi genitori si riuniscono, recitano insieme: “Adesso ci sei vicino in modo diverso da prima ma infinitamente più di prima. E ci guardi con la stessa pietà e con lo stesso sguardo di Colui in cui sei”. Chiosa Serena: «Vogliamo che tutti i genitori colpiti da questa sofferenza possano vivere questa certezza. Vogliamo che sappiano che esiste un luogo dove questo dolore si può consegnare, può essere accolto e accompagnato». Ecco perché Famiglie in cammino è ancora una realtà viva, dopo oltre trent’anni. Per la fedeltà a una storia, cristiana, che ha saputo trasformare il dolore nella più alta forma di carità.

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/famiglie-in-cammino-don-giancarlo-greco#:~:text=CHIESA,forma%20di%20carit%C3%A0.


martedì 1 luglio 2025

Eredità. Gli ultimi mesi di vita di Antonio Rosmini tra fede, filosofia e memoria

 


Eredità. Gli ultimi mesi di vita di Antonio Rosmini tra fede, filosofia e memoria

Ludovico Maria Gadaleta martedì 1 luglio 2025

 

Tra gli amici che arrivano a Stresa per l’ultimo incontro, si ritrovano alcune tra le voci più alte dell’Italia culturale dell’Ottocento, da Manzoni a Tommaseo e Bonghi

   

«È già il quarto mese che sono ammalato d’incomodi intestinali e passo la mia vita oziando tra il letto ed il lettuccio», lamenta Antonio Rosmini in una lettera all’amico Gustavo Cavour nell’aprile 1855.

 

Dall’ottobre precedente si trova nuovamente a Stresa, ristabilito dal grave malessere che lo ha colpito dopo la famigerata cena a Rovereto, in cui ha scoperto di essere stato avvelenato. Gli antichi problemi di stomaco e di fegato, troppo trascurati, si sono riacutizzati. E se fino all’inizio del 1855 la salute gli ha consentito di rispondere alle lettere, governare l’Istituto e persino proseguire la stesura della Teosofia, adesso deve sospendere e mettersi a letto. Brevi e occasionali miglioramenti lo illudono che si tratti di una recrudescenza momentanea, ma a maggio la diagnosi è chiara: «I medici non danno alcuna speranza», comunica laconico il segretario don Francesco Paoli.

 

La notizia si diffonde rapidissima e comincia un profluvio di lettere. Tutti vogliono notizie, promettono preghiere e suggeriscono rimedi medici e spirituali. Poi iniziano ad arrivare a Stresa gli amici per l’ultimo incontro. Fra i primi c’è don Paolo Orsi, antico amico di famiglia, che da Rovereto giunge per restare fino all’ultimo con lui. Da Torino ecco Pier Alessandro Paravia, altro compagno di gioventù, adesso affermato docente universitario. Con lui è il giovane Ruggero Bonghi, destinato a promettente carriera politica, in passato ospite più volte della comunità religiosa di Stresa: ha trascritto per i posteri le Stresiane, i preziosi dialoghi di cui era stato testimone, fra don Antonio e Alessandro Manzoni.

 

Anche quest’ultimo piomba di corsa a Stresa, in compagnia del figlio Stefano e di don Alessandro Pestalozza, energico difensore della filosofia rosminiana nel seminario di Milano e maestro, tra gli altri, di Antonio Stoppani. Pestalozza singhiozza di nascosto, mentre vede i due amici abbracciarsi. «Rosmini è sempre Rosmini!», dice don Lisander. «E Manzoni è sempre Manzoni, e lo sarà anche dopo la mia morte», risponde l’infermo. «Speriamo che Dio la voglia ancora conservare tra noi, e darle tempo da condurre a termine tante belle opere, che ha incominciato!», lo incalza lo scrittore. «No, no; le opere che Dio ha incominciato, sarà Lui a compierle con i mezzi che sono nelle sue mani, che sono moltissimi e che noi non conosciamo!» ribatte il filosofo. Arriva anche il Tommaseo, ormai cieco. Prega con fervore il rosario a fianco di Manzoni. «Cerca di essere fedele a Dio e di avere sempre presente il grande affare dell’anima. Se salverai la tua anima, avrai salvato tutto», gli raccomanda Rosmini.

 

Gli ultimi pensieri di don Antonio sono per l’Istituto della Carità, la congregazione da lui stabilita nel 1828. Chiede carta, pennino e calamaio e di suo pugno verga un foglio con cui nomina il vicario che dovrà governare dopo la sua morte in attesa di eleggere un successore. «Che il precetto del Signore», ossia la carità di Dio e del prossimo, «risplenda sulla terra di quella gloria di cui risplende in cielo», comincia il testo. Dopo un centinaio di opere, è l’ultimo suo scritto autografo.

 

Quando riceve il Viatico, mezza Stresa è presente, si accalca in corridoio e sulle scale, commossa. Rizzatosi sul letto, il malato recita a chiara voce il Confiteor e si fa leggere ad alta voce dal Paoli la professione di fede. Si sforza di accompagnarla parola per parola a voce sostenuta; poi, non reggendo alla fatica, continua sommesso. Vuole rendere davanti a tutti una nuova e solenne testimonianza del suo attaccamento alla fede cattolica e alla Chiesa, che ha sempre professato con gli scritti, con la predicazione e con le opere, ma che negli ultimi anni è stato messo in dubbio da malevoli avversari.

 

Vengono i maestri rosminiani a congedarsi. «Vedete, miei cari Figli, come tutto passa, e svanisce… è il tempo del raccolto. Il contadino che ha sudato e faticato, si conforta alla fine per la messe che raccoglie: così è di chi serve Dio e lavora per Lui», li conforta. E li invita: «Sforzatevi di diventare sempre più perfetti e fedeli. Vivete non secondo la carne, ma secondo lo spirito. Io non vi dimenticherò mai». Nel ricevere poi l’estrema unzione, chiede perdono ai confratelli «dei difetti commessi nel suo uffizio; ripete di averli sempre amati come figli; li esorta all’orazione, alla mortificazione… benedice tutto l’Istituto della Carità. La scena è commoventissima: molti piangono a calde lacrime, tutti hanno il dolore e la tenerezza dipinta sul volto», riporta un testimone.

 

I giorni passano e le condizioni sono sempre più critiche. Per lettera giunge la benedizione apostolica di Pio IX. I vescovi di Novara e di Ivrea, Castelli e Moreno, vengono a benedire e ringraziare Rosmini «per le sante fatiche per noi sostenute». «Ricordatevi di noi quando sarete in paradiso e pregate per me, per la mia diocesi e per tutta la Chiesa!» gli raccomanda mons. Moreno. «Grazie, grazie! Lo farò, lo farò!», mormora il malato, confuso da tante lodi e ormai impacciato nella parola.

 

(….)

https://www.avvenire.it/agora/pagine/rosmini-tra-fede-filosofia-e-memoria#:~:text=Eredit%C3%A0.%20Gli,Diego%20Motta

 


lunedì 23 giugno 2025

PERCHE' LA GUERRA DI TRUMP E ISRAELE E' FUORI DALLE REGOLE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

 



USA vs IRAN/ “Perché la guerra di Trump e Israele è fuori dalle regole del diritto internazionale”

Int. Pasquale De Sena Pubblicato 23 Giugno 2025 - Aggiornato alle ore 06:40

Trump, Iran

 

La guerra preventiva di Israele contro l’Iran e l’attacco Usa sono illegali e rappresentano un nuovo colpo alla credibilità dell’Occidente

 

Israele e Stati Uniti hanno scatenato una guerra preventiva contro l’Iran in assenza di una minaccia nucleare concreta e presente. Un’azione contraria alle regole del diritto internazionale, spiega al Sussidiario Pasquale De Sena, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Palermo e già presidente della SIDI. “Se ammettessimo la possibilità di difendersi con le armi dinanzi a un pericolo astratto, come in questo caso, dovremmo ritenere lecito anche l’attacco armato russo all’Ucraina”. La reazione armata da parte dell’iran, invece, per le ragioni specularmente opposte, è legittima, afferma il giurista.

 

Stiamo assistendo a una situazione nella quale l’Occidente euroatlantico ha totalmente assorbito la logica del doppio standard prodotta da trent’anni di “New World Order”, l’ordine mondiale neoliberale, e non vede più la differenza tra verità e menzogna politica, aggressore e aggredito. Ma soprattutto, di questo doppio standard censura le contraddizioni e gli effetti paradossali e distruttivi. “L’attacco statunitense – continua De Sena – è un colpo inferto non solo all’Iran, ma alla credibilità dell’Occidente e alla sua civiltà giuridica”.

 

Nella notte di domenica gli Stati Uniti hanno attaccato i siti nucleari iraniani. Come definirebbe l’operazione americana?

L’azione militare statunitense costituisce una violazione grave del divieto dell’uso della forza armata nei rapporti internazionali, dal momento che gli Stati Uniti non hanno subìto alcun attacco dall’Iran. Si tratta di un attacco armato, sferrato a titolo di complicità nell’azione di Israele – illecita anch’essa – e volta, per di più, alla distruzione di infrastrutture che non costituiscono obiettivi militari dal punto di vista del diritto umanitario.

 

Quali potrebbero essere le possibili implicazioni dell’iniziativa americana?

Sul piano giuridico, un attacco di questa portata rende lecita una reazione armata da parte dell’Iran.

 

In quali modalità, secondo lei?

Stante il divario delle forze in campo e la lontananza geografica degli USA, è ipotizzabile che tale reazione non avverrà in forme uguali e contrarie – come sta avvenendo per Israele –, ma tramite azioni volte a colpire basi militari statunitensi che si trovano nel territorio di Stati terzi, o navi e basi navali.

 

Vuol dire che la guerra è destinata ad allargarsi.

Speriamo che queste azioni non si traducano in attentati idonei a provocare morti fra i cittadini di quegli Stati. E, ancor di più, auguriamoci che non vi siano attentati terroristici veri e propri, perché questa sembra una conseguenza probabile.

 

Diamo uno sguardo alle reazioni che ci sono state nella comunità internazionale all’intervento americano.

Il Consiglio di Sicurezza deve ancora riunirsi, ma due Stati che ne fanno parte, Cina e Russia, hanno già apertamente condannato l’intervento. La presidente della Commissione europea von der Leyen, nella breve nota diramata stamane (ieri, nda) sui social, non ha espresso alcuna condanna. Si tratta di un atteggiamento criticabile.

 

Per quale ragione?

Perlomeno per due motivi. Sul piano politico, la scelta di von der Leyen mina significativamente la credibilità dell’atteggiamento intransigente assunto nei confronti della Russia per l’aggressione all’Ucraina, visto il chiaro doppio standard di cui è espressione.

 

E l’altro motivo?

Sul piano giuridico, contribuisce ad indebolire il divieto consuetudinario dell’uso della forza. Nella misura in cui una sua chiara violazione non viene contestata a chi l’ha effettuata, viene indebolito un cardine dell’ordinamento internazionale post seconda guerra mondiale. Tecnicamente, si contribuisce a un possibile processo di caduta in desuetudine della norma, perlomeno nella sua attuale configurazione.

 

Abbiamo visto Cina, Russia e UE. E gli altri Stati?

Si può presumere che gran parte degli Stati dell’Asia centro-meridionale, dell’America latina, dei Paesi arabi e africani condannino l’intervento statunitense, com’è già avvenuto con l’attacco israeliano.

 

Con quali effetti politici?

Il risultato sarebbe quello di una sorta di isolazionismo euro-statunitense non particolarmente positivo.

 

Andiamo all’attacco di Israele all’Iran cominciato nella notte del 13 giugno. Fonti ufficiali dell’IDF lo hanno definito “attacco preventivo storico per eliminare questa minaccia esistenziale contro lo Stato di Israele”. Cosa dice il diritto internazionale?

La legittima difesa preventiva non è permessa dal diritto internazionale, né in concreto – dinanzi, cioè, a un pericolo imminente –, né dinanzi a un pericolo astratto o, per meglio dire, erroneamente presunto, come in questo caso. Infatti, a stare alle ultime dichiarazioni rese dal direttore dell’IAEA alla CNN, la preparazione di un ordigno nucleare da parte dell’Iran non sarebbe alle viste.

 

Ma perché un’azione di difesa, appunto, “preventiva” è illegittima?

Perché l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, di cui Iran e Israele sono parti, ammette l’uso della forza armata solo in risposta a un attacco armato già sferrato; e tale norma corrisponde anche al diritto internazionale generale, nel senso che quest’ultimo non si è evoluto nel senso di una deroga più ampia rispetto al fondamentale divieto dell’uso della forza. C’è una considerazione ulteriore da fare a questo proposito.

 

Prego.

Se ammettessimo la possibilità di difendersi con le armi dinanzi a un pericolo astratto, come in questo caso, dovremmo ritenere lecito anche l’attacco armato russo all’Ucraina, perlomeno nella misura in cui questo è stato espressamente giustificato con la necessità della Russia di reagire alla prospettiva dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, specificamente prescritta da una norma della Costituzione di quel Paese.

Qui occorre sottolineare due aspetti. Il primo è che il regime degli ayatollah si propone di cancellare quella che definisce “entità sionista”. Il secondo è che l’arricchimento dell’uranio attuato dall’Iran è ritenuto preliminare alla realizzazione dell’arma atomica. Cosa risponde?

Una cosa sono le affermazioni, altra le possibilità effettive e i comportamenti concreti: l’Iran non ha la benché minima possibilità di “cancellare” Israele. Primo, perché non ne ha la capacità militare, dato che quest’ultimo dispone, probabilmente, dell’arma atomica. Secondo, perché sarebbe immediatamente attaccato – e probabilmente distrutto – dagli Stati Uniti. Ciò accadrebbe anche nel momento in cui l’Iran si procurasse una bomba nucleare e dovesse usarla: un minuto dopo sarebbe esposto a una devastante rappresaglia americana. A Teheran lo sanno benissimo, perciò le loro intemerate contro Israele sono essenzialmente propagandistiche.

Gli esperti ritengono che l’arricchimento dell’uranio oltre il 60% sia un chiaro indizio della volontà di Teheran di costruire l’arma nucleare. Nessun reattore civile usa combustibile così arricchito e arrivare al 90% richiede un lavoro nettamente inferiore a quello già realizzato. Come mai l’IAEA non ha approvato all’unanimità la relazione sull’ultima ispezione dei siti iraniani, sempre renitente ai controlli e scarsamente collaborativo ?

Certamente il comportamento iraniano non è in linea con gli obblighi derivanti dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), a stare a quanto emerge dall’ultimo rapporto IAEA. Ma di qui a ritenere che ci sia l’intenzione di pervenire alla fabbricazione di una bomba al fine di usarla contro Israele, ce ne corre. Beninteso: essendo l’Iran parte del TNP, esso è obbligato a usi esclusivamente civili del nucleare; dunque, costruire ordigni nucleari costituirebbe una violazione del Trattato. Ma, come ho appena detto, escludo che ciò sarebbe fatto nella prospettiva di distruggere Israele.

 

E con quale finalità avverrebbe, invece?

Semmai nella prospettiva di dissuadere qualsiasi attacco israeliano, dunque in una prospettiva difensiva. Ammesso e non concesso che effettivamente gli iraniani stessero procedendo in questa direzione, mi pare poi che la reazione israeliana sia la più plastica dimostrazione del fatto che armarsi a fini difensivi alimenta escalation che finiscono per generare null’altro che guerre.

 

Che cosa bisogna fare?

Il problema vero è lavorare per ricreare fiducia, non per accrescere diffidenza.

 

In sintesi: TNP, Israele e Iran, come stanno le cose?

Come ho appena detto, l’Iran è parte del TNP, Israele no; e Israele, probabilmente, possiede l’atomica. Ma neppure se fosse parte del TNP Israele sarebbe titolato a reagire con la forza alle violazioni del Trattato, commesse, in ipotesi, dall’Iran. Figuriamoci non essendone parte!

 

Eppure “l’Iran non deve avere l’atomica” è un assunto politico consolidato in Occidente. Lo ripetono tutti.

Giuridicamente non ha alcun valore. Anzi esso rappresenta un disvalore, nella misura in cui esprime la chiara propensione, da parte dell’Occidente euroatlantico, a usare doppi standard. Va detto che la maggior parte degli Stati non europei – con alcune eccezioni fra cui Argentina e India – si sono apertamente schierati contro l’intervento israeliano, dunque contro la posizione espressa dal G7, che ha sostanzialmente ratificato l’intervento israeliano, incongruamente definendolo difensivo.

 

Come commenta quanto ha dichiarato lo storico israeliano Benny Morris al Corriere della Sera? Il possesso di armi nucleari da parte di Israele è legittimo “Perché noi siamo una società democratica occidentale e loro sono un regime fanatico messianico islamico”.

Si tratta di affermazioni che si commentano ampiamente da sole. Sono però istruttive, perché dimostrano che la guerra all’Iran riscuote consenso diffuso in Israele e perché, nella sua brutalità, Morris dice il vero quando osserva che Netanyahu non fa altro che quello che, da anni – senza un’idea o uno straccio di strategia in testa –, vorrebbero fare USA ed europei con l’Iran. Lo dimostra la recente dichiarazione di Merz sul “lavoro sporco” che Israele starebbe facendo.

 

Quanto accaduto a Gaza dopo il 7 Ottobre riguarda in qualche modo anche la guerra tra Israele e Iran?

Direi che nella strategia di liquidazione della questione palestinese manu militari, e in completo disprezzo per il principio di autodeterminazione, l’attacco all’Iran si inserisce piuttosto bene. Non vi è nessuna prova che l’operazione terroristica del 7 Ottobre sia stata condotta sotto il controllo e la direzione iraniana, e credo che l’idea di arrivare a uno showdown con l’Iran fosse già parte dei piani israeliani da anni.

 

(….)

https://www.ilsussidiario.net/news/usa-vs-iran-perche-la-guerra-di-trump-e-israele-e-fuori-dalle-regole-del-diritto-internazionale/2848875/#:~:text=USA-,USA%20vs%20IRAN/%20%E2%80%9CPerch%C3%A9%20la%20guerra%20di%20Trump%20e%20Israele%20%C3%A8,(Federico%20Ferra%C3%B9),-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

(Federico Ferraù)