CARRÓN
Realismo e speranza
E' possibile ancora, dentro al
mondo ampiamente scristianizzato in cui viviamo, cercare e trovare
Cristo? Nel sovrapporsi di fedi diverse o di nessuna fede,
nell’allargarsi di un inconsapevole nichilismo, nella distratta
lontananza di tanti, è possibile ancora ai cristiani contagiare l’amore
per il loro Dio, e come? Attorno a questa domanda scorrono le duecento
pagine della conversazione di Andrea Tornielli con Julián Carrón Dov’è Dio? La fede cristiana al tempo della grande incertezza
in uscita per Piemme (pagine 216 , euro 15,90) e che sarà presentata
nell’aula magna dell’Università Cattolica di Milano giovedì alle 21.00
dagli autori e da Adolfo Ceretti, Mauro Magatti ed Elisabetta Soglio.
Un dialogo esigente e sincero fra il giornalista che ha da poco
intervistato il Papa e il responsabile di Comunione e Liberazione, teso
a disegnare lo sguardo con cui il Movimento osserva questo momento
storico, la Chiesa e la situazione della fede.
Sguardo che in Carrón è fatto di realismo e di speranza assieme,
antico binomio della forma mentis cristiana. Realismo, perché
niente della realtà sia censurato, e speranza, perché non siamo
stati lasciati soli da Dio in questo mondo. Che poi, osserva Carrón,
è un mondo non molto peggiore da quello in cui nacque Cristo,
quando gli stessi ebrei erano divisi fra farisei, zeloti, esseni e
altre correnti, e l’Impero romano avanzava col suo pantheon di
divinità pagane. Nel multiculturalismo insomma il cristianesimo è
nato, ed è anzi questo tessuto, secondo Carrón, una occasione perché
risalti la radicale diversità del suo annuncio. Siamo molto lontani
dunque da certo tradizionalismo che piange i bei tempi antichi: dalle
risposte a Tornielli esce uno sguardo sul presente fiducioso e denso di
fede viva. Su una fede che ogni giorno può ricominciare.
In che modo? La domanda è l’asse portante del libro. Carrón parte dalla Dei verbum
del Concilio Vaticano II e passa per Benedetto XVI, quando a Fatima
nel 2013 disse che oggi la fede «molto difficilmente potrà toccare i
cuori mediante semplici discorsi o richiami» e invece «ciò che affascina
è soprattutto l’incontro con persone credenti, che mediante la loro
fede attirano verso la grazia di Cristo, rendendo testimonianza di
lui». Dunque, come disse ancora Benedetto e come ripete Francesco, il
cristianesimo «non si fa per proselitismo, ma per attrazione».
L’attrazione di una verità che non ha bisogno se non della sua nuda
bellezza per dimostrarsi, e cui non occorre quindi alcuna egemonia
politica o culturale. Perché, però, al livello dell’Io del singolo, la
provocazione sia recepita, è necessario il gioco della libertà. Occorre
prima di tutto, afferma il sacerdote spagnolo, che un uomo avverta il
dramma della sua incompiutezza, e dunque percepisca dentro di sé una
ferita. Che non la neghi, e non la anestetizzi, che la lasci aperta.
(E viene in mente il Péguy del Portico del mistero della seconda virtù,
che scriveva: c’è qualcosa di peggio di un’anima cattiva, è un’anima
abituata). Occorre essere gente dallo sguardo umile. Carrón: «Il giorno
in cui non ci rendessimo più conto della nostra infermità e della
nostra miseria [...] non avremmo più bisogno di Cristo».
Con quale cifra parlare a gente non più, nel suo humus, cristiana, ma allontanata, dimentica e a volte anche disperata? Sem-È
plicemente con quella della misericordia – cioè l’amore viscerale,
materno di Dio che si china su ciascuno di noi, e tocca veramente il
cuore umano. “Misericordia” è la parola su cui Francesco torna dai primi
giorni del suo pontificato, e a cui ha dedicato un Anno santo di porte
di chiese spalancate, perché chiunque vi si
sentisse convocato. E questo non è che un ritorno al primo
cristianesimo, secondo Carrón, quando Cristo affascinava e convertiva i
pubblicani, i reietti, guardandoli come nessuno li aveva mai guardati.
Affascinava i lontani, che sussultavano alla sua pietà, e
scandalizzava i “giusti”, i farisei. Non è in qualche modo ciò che
vediamo accadere oggi, in aspre divisioni interne alla Chiesa stessa,
mentre un cristianesimo integralista accusa il Papa di eresia?
Borbottando poi contro certa misericordia “buonista”. Buonista per
niente, argomenta Carrón, che annota come solo in quello sguardo di
Cristo la Samaritana e l’adultera rinacquero. Rinacque il pubblicano
Zaccheo, quando, come scrisse magistralmente Agostino, «fu guardato, e
vide».
Nella lunga
conversazione il responsabile di Cl non si sottrae a domande sulla sua
vita, sulla successione a Giussani, sul Movimento e gli interrogativi e
le inquietudini che lo percorrono. Il richiamo a Giussani è sempre
preciso e forte, come a una colonna portante. Anche in certe parole che
alcuni forse hanno dimenticato, come quando, ricorda Tornielli,
riferendosi alla Action français di Maurras, che agli inizi del secolo
scorso voleva rifondare il mondo secondo i valori cristiani, Giussani
disse nel 1982: «Ma non era fede: la fede è solo questo [...]:
l’apertura energica alla presenza di Cristo».
Oltre alle divisioni che si alzano nel mondo cattolico, e che forse in
realtà interessano pochi, il filo conduttore del dialogo è però sempre
teso verso gli “altri”, verso quell’ampia parte di uomini che non sa
più nulla del Dio cristiano. Senza alcun pessimismo Carrón ci ripete
che siamo come ai tempi degli inizi, citando il fondatore di Cl.
Giussani infatti scriveva: «Il mondo di oggi è riportato alla miseria
evangelica: al tempo di Gesù la domanda era come fare a vivere, e non
chi avesse ragione; questo era il problema degli scribi e dei farisei». E
«come si fa a vivere» è la domanda che autenticamente pervade il
nostro tempo: soffocata a volte nella distrazione, o affilata nella
disperazione di chi non trova più un senso. L’occasione, secondo Carrón,
per tornare alle radici vere della fede in Cristo. Per trasmetterla:
non con parole, ma con uno sguardo, “quello” sguardo. Perché, come
profetizzò Emmanuel Mounier e come ricorda Tornielli, «il portiere della
storia non ascolterà i vostri argomenti, guarderà i vostri volti».