venerdì 31 gennaio 2025

Camerun. Il Centro Edimar per bambini e ragazzi senzatetto

 


Camerun. Dalla strada a sarti e falegnami

A Yaoundé il Centro Edimar accoglie bambini e ragazzi senza tetto offrendo assistenza medica, educazione e una seconda possibilità. Con il sostegno di AVSI

 

30.01.2025

Maria Acqua Simi

Yaoundé, capitale del Camerun, è una città complicata, dove migliaia di bambini vivono per strada. Sono minori fuggiti, a volte con le famiglie altre da soli, dalle aree rurali e dalle zone dove infuriano combattimenti e gruppi terroristici. Quando arrivano in città, però, non trovano l’eldorado. Solo altra miseria. Qui, dal 2022, esiste il Centro Edimar, un’opera nata su impulso di un missionario italiano, padre Maurizio Bezzi, che offre rifugio, assistenza medica ed educazione a questi ragazzi. Mireille Yoga, oggi direttrice del Centro, racconta come è nata questa realtà di accoglienza sostenuta da Fondazione AVSI e come continua a crescere «grazie alla Provvidenza».

 

Cosa è, per te, il Centro Edimar?

 

È una vita. Se guardo ai ragazzi che sosteniamo, che ogni giorno incontriamo, posso solo essere piena di gratitudine. L’opera che padre Maurizio ci ha lasciato tra le mani, dopo essere rientrato in Italia anni fa, è maturata e per questo devo ringraziare tanto AVSI che ci ha accompagnato e incoraggiato. Non solo economicamente, ma soprattutto formando i nostri operatori che spesso sono uomini e donne che un tempo vivevano sulla strada e che sono stati sostenuti dal Centro. Li ho in mente tutti, uno per uno: sono persone che hanno fatto un incontro che ha cambiato la loro vita e che ora desiderano restituire agli altri quello che loro per primi hanno avuto come regalo nella vita: un’amicizia, una compagnia umana dove scoprire che tutti siamo al mondo per un motivo e uno scopo. AVSI ha creduto in loro, li ha aiutati a diventare educatori professionisti, strutturati per lavorare in un’opera che sta crescendo. Era necessario, visto l’ingrandirsi del Centro, che l’equipe capisse meglio che direzione prendere. Perché l’amore per l’incontro fatto era ed è il motore di tutto, ma serviva una professionalizzazione e Fondazione AVSI è stata determinante. Ora i nostri dipendenti sanno fare rendicontazioni, scrivere progetti, È un gran passo che abbiamo fatto!

 

 Un passo di maturazione…

 

Sì, perché è così che si costruisce l’uomo. Qui c’è la possibilità di costruire l’umano: non solo avendo cura del piano affettivo e relazionale, ma anche di quello educativo e professionale. Vedere quei ragazzi di strada che oggi sono educatori… è commovente per me. Quest’anno la nostra opera rientra nella Campagna Tende di AVSI ed è importantissimo, perché gli aiuti che stiamo ricevendo ci hanno permesso di fare tanti passi e quindi di godere di più dell’eredità di padre Maurizio. Il Centro Edimar lascerà delle tracce. E quando una opera lascia delle tracce, altri potranno mettere i propri passi su quelle orme perché la strada è segnata. Questo luogo è una storia per tutti! Anche per questo usciamo nel mondo più coraggiosi. Quando andiamo nelle strade – a cercare i più fragili – spesso lavoriamo in sinergia con altre ong e a loro trasmettiamo il nostro metodo educativo: quello dell’uomo al centro con tutto il suo infinito mistero e valore! E questo metodo piace, attrae e gli altri sono contenti di lavorare con noi.

Uno dei vostri primi interventi è a livello sanitario, perché spesso i minori che arrivano al Centro sono molto malati. Come mai? Che tipo di malattie hanno?

 

A livello sanitario le ferite sono tante. Fisiche soprattutto, ma anche psicologiche. Per essere chiari: sono minori che dormono per strada, nella spazzatura, dove contraggono pidocchi, tubercolosi, epatite, aids. Molti sono affetti da malaria o da febbre gialla perché trascorrono le giornate nelle fogne, dove prolificano le zanzare. Per non contare quelli che iniziano a fare uso di droga e si feriscono, ma le ferite non curate diventano infette. Qualcuno addirittura lascia che non si rimarginino per impietosire i passanti e chiedere l’elemosina… In passato abbiamo avuto anche una epidemia di colera, fu terribile. Mi trovai a gridare a Dio perché davanti ai miei occhi quei bambini morivano come mosche. Ecco perché il nostro primo sostegno è sanitario.

 

Un altro aspetto importante però è anche quello educativo.

 

Determinante. Le persone che incontriamo, bambini ma anche adulti di strada, sono tutte molto povere, fuggite da contesti di povertà estrema o dalla guerra. Noi al Centro ci occupiamo dei bambini dalla nascita ai 25 anni ma diamo anche la possibilità a persone di età più grande di venire a fare la doccia, lavare i vestiti o curarsi se serve.  Poco tempo fa è arrivato da noi un ragazzo molto malato, ed è morto prima che potessimo portarlo all’ospedale. Per noi è stato un colpo durissimo perché non possiamo sempre aiutare tutti, salvare tutti. Allora la parte educativa diventa fondamentale perché bisogna guardare al futuro, bisogna tenere conto della integralità della persona. L’educazione può salvarli. Molti bambini portano le mucche in giro per vivere, magari sono senza genitori, sono analfabeti e spesso cadono nelle mani di trafficanti o bande armate. Come li strappi da tutto questo? Con l’educazione. Abbiamo avviato corsi per insegnare loro a leggere e scrivere: è venuta fuori una bellezza incredibile. Abbiamo mandato a scuola quest’anno 43 bambini, con l’aiuto di AVSI. Altri sono stati avviati alla formazione professionale per imparare a fare i falegnami o i meccanici o le sarte. Abbiamo anche ideato una scuola di agricoltura e allevamento. Insomma, iniziative non ne mancano. Ogni sabato noi operatori andiamo nelle strade per cercare i ragazzi, non smettiamo di cercare chi ha bisogno.

 

 Gli ultimi che avete incontrato?

 

Ieri ho conosciuto un giovane che è arrivato a Yaoundé a 20 anni per cercare lavoro, ma non lo ha trovato e così dorme per terra. Ha studiato, ha preso anche la maturità che è una cosa rara, ma non ha famiglia né aiuto e così è finito in miseria. Mi ha fatto una tenerezza enorme, perché è stato molto provato ma ha ancora il desiderio di bene. Ecco, noi lavoriamo per ragazzi così, come lui. Spero di poterlo aiutare a studiare…

 

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/camerun-centro-edimar-campagna-tende-2024-2025#:~:text=SOCIET%C3%80-,Camerun.%20Dalla%20strada%20a%20sarti%20e%20falegnami,Non%20perderti%20il%20meglio,-Uno%20sguardo%20curioso


ALMASRI E LA CORTE DELL'AIA

 


ALMASRI/ E Corte dell’Aja: 6 giorni, un errore e 3 domande politiche che attendono risposta

Il mandato di arresto di Almasri emesso dalla CPI è stato corretto sei giorni dopo. Un errore che è tornato utile a qualcuno

Paolo Torricella Pubblicato 31 Gennaio 2025

 

In una fase in cui il multilateralismo internazionale è in profonda crisi, poche istituzioni restano in vita come un retaggio dell’antico sogno della globalizzazione dei diritti. La Corte penale internazionale (CPI) è uno di questi ed ha una sua evocativa forza come espressione della volontà dei Paesi aderenti di sottoporsi al giudizio di quest’organismo laddove si presume vengano compiuti crimini estremamente gravi. Il punto è che rischia di diventare uno strumento di confusione enorme in un panorama di grande difficoltà e rischia anche di diventare strumento, a sua insaputa, per affrontare in maniera collaterale problemi di grande portata. Leggendo il mandato di arresto per il presunto torturatore libico Almasri si scopre che quel mandato era stato già emesso, con il voto contrario di una giudice messicana, in data 18 gennaio 2025 ma viziato da qualche errore formale che al momento non è dato conoscere. Lo stesso mandato è stato poi riemesso il giorno 25.

 

La cosa che fa riflettere è che un organismo così importante possa commettere un errore nell’emettere un mandato di cattura e soprattutto che per correggerlo impieghi più di una settimana. Il fatto è riportato in maniera molto precisa nel documento pubblicato dalla Corte ed è pertanto un elemento non dubitabile. Come chi sa chi è pratico di legge e procure, ma anche che è appassionato di legal thriller, la tempestività di un arresto è tutto ed un errore formale in un mandato è qualcosa di imperdonabile. Si rischia che un criminale scappi perché manca un foglio, o è saltata una virgola, provocando la più profonda delle frustrazioni, perché chi avrebbe dovuto operare in maniera corretta non l’ha fatto. È altrettanto grave che quell’errore venga rilevato e corretto ad una settimana di distanza, quando la sua efficacia rischia di essere estremamente compromessa.

 

Ora, nel caso in questione, la già pessima figura della Corte, che testimonia una sua profonda inefficienza che essa stessa denuncia nei propri atti, si intreccia con un particolare non secondario. La settimana prima del 25 gennaio, data in cui sono accaduti i famosi fatti oggetto dell’avviso di indagine spedito martedì 28 gennaio a mezzo governo Meloni, il torturatore libico era in un altro Paese, la Germania, e guarda caso l’errore è stato corretto il giorno stesso in cui Almasri è arrivato in Italia. Le coincidenze esistono e sono parte della vita, ma crederci è un atto di fede molto più grande che farsi invece molte domande e cercare di avere risposte.

 

La prima domanda è quali provvedimenti sono stati assunti dalla CPI al proprio interno per un errore così grave, che essa stessa denuncia, ovvero l’emissione di un ordine di arresto errato e soprattutto la sua correzione a ben sette giorni di distanza. La seconda è chiedere se l’emissione di quest’ordine di arresto sia stata procedimentalizzato in maniera corretta o se il suo iter abbia subito dei ritardi o delle accelerazioni e chi le abbia eventualmente gestite. La terza domanda è chiedersi che cos’avrebbe fatto la Germania se vi fosse stato l’ordine di arresto emesso dalla Corte quando Almasri era sul suo territorio.

 

In questa storia i tempi contano, ma conta ancor di più il fatto che le decisioni di un organo internazionale impattano in maniera completamente diversa sugli interessi nazionali dei Paesi che dovrebbero applicare il contenuto dei provvedimenti emessi. Molti personaggi politici sono stati fatti oggetto di richieste di arresto da parte di questo organismo e molti Paesi negli anni hanno deciso di attuare o meno, con vari stratagemmi legati ai meccanismi interni, gli ordini provenienti dalla CPI. Sia ben chiaro che quando parliamo di questi giudici non parliamo di magistrati come li intendiamo nel nostro ordinamento. Sono giuristi individuati dai singoli Paesi aderenti e che poi successivamente svolgono le funzioni in maniera turnaria a seconda delle vicende da seguire. Detto con chiarezza, non hanno fatto un concorso e non sono strutturati all’interno di un sistema statuale; sono e restano emanazione più o meno diretta dei Paesi a cui appartengono.

(…..)

https://www.ilsussidiario.net/news/almasri-e-corte-dellaja-6-giorni-un-errore-e-3-domande-politiche-che-attendono-risposta/2796608/#:~:text=ESTERI-,ALMASRI/%20E%20Corte%20dell%E2%80%99Aja%3A%206%20giorni%2C%20un%20errore%20e%203%20domande,se%20non%20vincolato%20dal%20segreto%2C%20su%20come%20siano%20andate%20le%20cose.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94


mercoledì 15 gennaio 2025

Eugenia Scabini, L'amore inaspettato. La famiglia

 


Eugenia Scabini. L’amore inaspettato

Il suo significato, le cause della crisi, la cura dei legami, l’importanza del perdono: alle radici della famiglia. La psicologa: «Un’avventura di comprensione affettiva che dura tutta la vita»

 

01.01.2025

Paola Bergamini

Eugenia Scabini (© Paola Cuppoletti)

1 | Gennaio 2025

«È stato per le spiegazioni di mio marito che mi sono appassionata alla pittura di William Congdon», mi dice Eugenia Scabini, professore emerito di Psicologia sociale e presidente del comitato scientifico del Centro di ateneo studi e ricerche sulla famiglia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, vedendomi ferma davanti al quadro del pittore americano appeso nel suo salotto. «L’amore genera anche questo: la scoperta di qualcosa di inaspettato». E proprio il verbo “generare” sarà il punto nevralgico del nostro dialogo.

 

Proviamo a raccontare la famiglia.

La famiglia è un corpo sociale, non una forma sociale qualunque: l’espressione corpo rende l’idea di un’appartenenza fra persone. Diciamo meglio: la famiglia è quel corpo sociale che, unico, ha la funzione di generare e lo fa attraverso il legame tra uomo e donna, che a loro volta sono stati generati: generare ed essere generati non si possono scindere nell’umano. Tutti noi siamo figli, non siamo degli “io” autonomi. Questo è un punto importante: il piccolo dell’uomo acquisisce la sua identità a partire dal riconoscimento di essere generato da quel padre e da quella madre e di occupare un posto nella storia familiare. La famiglia è un luogo generativo. Da questo punto di vista, le odierne tecnologie riproduttive, specie eterologhe, rendendo anonimo uno o entrambi i generanti, rappresentano un serio rischio nello sviluppo della identità del bambino. La famiglia genera al bene per eccellenza, di ciò che sta all’origine: il bene della vita, che si accompagna al bene della cura dell’altro da un punto di vista affettivo ed etico, nello sviluppo della persona. In questo senso, come dice bene don Giussani ne Il rischio educativo, la funzione dei genitori «è originatrice; per il fatto di essere tale, essa è immissione in un modo di concepire la realtà, in un flusso di pensiero e di civiltà». Nel mondo animale questo non sussiste, si parla di riproduttività, perché unico scopo è il proseguimento della specie. Il cucciolo di tigre è uno dei tanti e non è in grado di risalire agli antenati; il piccolo dell’uomo, invece, è un unicum, una persona insostituibile.

 

Dove affonda la crisi antropologica della famiglia?

È in crisi la coppia. All’origine dell’incontro tra uomo e donna c’è un “trasporto” che ha le potenti caratteristiche emotive dell’innamoramento, che fisiologicamente con gli anni possono venir meno e allora si dice “basta”. È quello che accade oggi, ci si lascia dicendo: “Non ci amiamo più”. Ma l’amore consiste in questo? Il legame di coppia ha caratteristiche non solo affettive, ma anche di impegno, di promessa, di patto ed è cruciale l’importanza di mantenerlo. Possiamo dire, un patto che interroga quotidianamente ognuno dei coniugi, che richiede di essere continuamente alimentato e anche rinnovato e che vive stagioni diverse di affetto (passione, tenerezza, pura condivisione…).

 

In proposito, nel suo discorso alla Curia romana del dicembre 2012, Benedetto XVI disse: «C’è innanzitutto la questione della capacità dell’uomo di legarsi oppure della sua mancanza di legami. Può l’uomo legarsi per tutta la vita? Corrisponde alla sua natura? Non è forse in contrasto con la sua libertà e con l’ampiezza della sua autorealizzazione?». È il “per sempre” che fa paura?

L’uomo moderno ha una difficoltà strutturale ad accettare i vincoli. Viviamo in una società liquida dove l’ideale è entrare e uscire dai legami a proprio piacimento. La parola “legame” viene vissuta in senso negativo. Aggiungiamo un tassello che fa meglio comprendere: l’etica degli affetti. Significa che accanto all’affetto c’è una promessa – è nella formula del matrimonio –, un patto di fedeltà. In questa promessa, dai tutto te stesso, compresa la tua fragilità. Il legame di coppia diventa un affidamento totale di te all’altro. Per questo dico che in esso c’è sacralità. Sempre in quel testo, Benedetto XVI aggiunge: «Con il rifiuto di questo legame scompaiono anche le figure fondamentali dell’esistenza umana: il padre, la madre, il figlio; cadono le dimensioni essenziali dell’esperienza dell’essere persona umana». Nel matrimonio cristiano il rapporto di coppia è suggellato da un Altro, rimanda alla Relazione trinitaria: l’abbraccio tra il Padre, il Figlio e lo Spirito.

 

E quando, dolorosamente, avviene la separazione?

Si tratta di una grande prova. È importante che dentro il dramma e il dolore si riesca a intravedere anche quel che di positivo la relazione ha dato e si mantenga a tutti i costi l’alleanza tra i genitori. Se invece ci si ferma a dire “è andato tutto male”, si fuggiranno tutti i tipi di legami significativi. O peggio, si diventerà schiavi dei legami e si sarà portati a ripetere lo stesso copione della relazione precedente.

 

(….)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/eugenia-scabini-lamore-inaspettato#:~:text=SOCIET%C3%80-,Eugenia%20Scabini.%20L%E2%80%99amore%20inaspettato,forse%20non%20del%20tutto%20espresso%2C%20mostrandomi%20come%20lui%20li%20stava%20guardando.,-SOCIET%C3%80

 


martedì 14 gennaio 2025

Letture: Parvus, l'uomo dietro la rivoluzione di Lenin

 


LETTURE/ Enigma Alexander “Parvus”, chi era l’uomo dietro la rivoluzione di Lenin. Lorenzo Somigli, “L’essenza dell’oggi nei fatti di ieri. 1924-2024: Parvus un secolo dopo”, ed. Artverkaro

Si sono appena conclusi i 100 anni dalla morte di Parvus, ovvero Izrail’ Lazarevič Gel’fand. Gli ha dedicato un saggio Lorenzo Somigli

Max Ferrario Pubblicato 12 Gennaio 2025

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Trockij, Lenin e Kamenev nel 1919 (Foto dal web)

 

Di date, ricorrenze, anniversari è scandito il nostro tempo. Alcuni anniversari sono più sentiti, altri meno. Alcune ricorrenze entrano nella carne viva, altre appartengono a un passato sentito più remoto e distante. Per esempio, a gennaio 2024 un nutrito gruppo di aficionados si sono ritrovati, per citare una dolce perifrasi degli Offlaga Disco Pax, “nel paese dove è nata Orietta Berti” per commemorare il “compagno Lenin”, nel primo centenario dalla scomparsa. Ebbene, nell’anno appena trascorso, tra un tentativo di golpe e la guerra lampo dei ribelli siriani, c’è stato anche l’anniversario – cento anni anche in questo caso – dalla morte di un uomo “piccolo” e grande. Alexander Helphand si firmava “Parvus”: grande nel fisico, grande mente, grandissima impronta nella storia ma quasi sconosciuto. Soprattutto a sinistra. Ma a sinistra talvolta dicono e non dicono e allora Parvus, ovvero Izrail’ Lazarevič Gel’fand o Helphand (1867-1924) è stato vittima di quella che alcuni hanno definito “la congiura del silenzio”. Perché Parvus ha reso possibile la Rivoluzione d’ottobre, prima di tutto con le idee – lo sciopero generale politico –, ma anche con i finanziamenti.

 

Ma Parvus non è stato solo questo. Ha anticipato la necessità del mercato comune europeo, per superare la “frammentazione in staterelli”: dal suo punto di vista l’unica soluzione per un’Europa devastata dalla guerra. C’è una grande profondità in questo enorme enigma storico-politico e, anche per questo, una giovane realtà editoriale come Artverkaro Edizioni ha deciso di dedicare a Parvus, nel centenario dalla sua scomparsa, una delle sue pubblicazioni. Se ne è occupato Lorenzo Somigli, giornalista, corrispondente con esperienze in Libano e Turchia che ha unito il respiro geopolitico al rigore della ricostruzione storica. Proprio nel groviglio di Istanbul, a Galata, Parvus ha intessuto quelle relazioni che si riveleranno decisive per imprimere alla storia il corso che i rivoluzionari di professione volevano, ma non erano in grado di imprimere. Senza Parvus, naturalmente. Sì, perché è Parvus a costruire un rapporto tra i rivoluzionari e le alte sfere della Germania guglielmina, così da far passare il “treno piombato” di Lenin, che appare in Russia al momento giusto.

 

(…)

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-enigma-alexander-parvus-chi-era-luomo-dietro-la-rivoluzione-di-lenin/2789624/#:~:text=Di%20date%2C%20ricorrenze,per%20citare%20una


sabato 11 gennaio 2025

Borgna, il primato dell'ascolto


 

Borgna. Il primato dell’ascolto

Lo psicanalista Enrico Ferrari ricorda, a poco più di un mese dalla scomparsa, l’umanità del grande psichiatra, suo maestro: «Domandava insieme a te»

 

10.01.2025

Matteo Rigamonti

Enrico Ferrari

La passione per l’umano, la cura della sofferenza. Sono due ambiti all’interno dei quali la figura del grande psichiatra Eugenio Borgna, mancato il 4 dicembre a 94 anni, lascia un’eredità preziosa e consistente. Non solo per i professionisti dei servizi psichiatrici. Ad aiutarci a coglierne il valore è Enrico Ferrari, psichiatra e psicanalista junghiano che di Borgna è stato allievo e con il quale ha condiviso momenti importanti, mantenendo sempre i contatti per la stima dell’uomo e del professionista che è stato. Tanto che, ancora oggi, propone i suoi libri agli studenti della scuola di psicoterapia dove insegna, a Milano, all’interno del Cipa, il Centro italiano di psicologia analitica, di cui è vicepresidente nazionale.

 

 

 

Che ricordo ha del suo primo incontro con Eugenio Borgna?

 

Era la prima metà degli anni Ottanta, quando aveva lasciato Milano per ritornare in provincia ed era direttore dell’Ospedale psichiatrico femminile di Novara, lui che fu tra i primi promotori dell’attuazione della legge Basaglia, avviando la chiusura del manicomio di Novara, e contribuì al sorgere della psichiatria territoriale. All’epoca era impegnato anche in politica, nel comune di Borgomanero, dove aveva svolto il primo mandato come sindaco. Io, invece, ero studente di Medicina e stavo attraversando un periodo difficile nel percorso di studi, perché non lo vedevo conciliarsi con il mio retroterra “umanistico”. Fu allora che lessi un suo articolo sulla rivista di bioetica dell’Università Cattolica, Medicina e morale, che mi aprì uno squarcio completamente nuovo: scoprii la possibilità di una fondazione culturale della psichiatria che, pur appoggiandosi alle scienze biologiche, potesse partire da una visione più profonda dell’uomo, quand’anche all’interno di una condizione di disagio.

 

 

 

E cos’è successo?

 

Chiesi di potergli parlare, lui mi aprì le porte del suo studio. Dovevo scegliere la tesi di laurea ma, frequentando l’università a Torino, non potevo averlo come docente all’interno del corso, solo della scuola di specializzazione. Così mi accordai con l’ordinario per poter essere seguito presso il reparto di Psichiatria a Novara: iniziò un rapporto professionale che mi ha segnato per tutta la vita. Anche quando, nel mezzo del mio percorso, insegnai religione per alcuni anni, rimanemmo in contatto. Fu un fatto che incuriosì moltissimo il professore. Poi tornai alla psichiatria, vinsi il concorso a Ivrea, passai a Borgomanero e, infine, a Novara. I nostri contatti non si sono mai interrotti nemmeno quando, anni dopo, mi indirizzai alla psicoanalisi.

 

 

 

Cosa la colpì immediatamente di Borgna?

 

Conservo una memoria molto viva di quel primo incontro. Aveva un’attenzione speciale dove coglieva un’autenticità. Invece con chi riteneva superficiale non amava intrattenersi a lungo. In particolare mi colpì la sua capacità di ascolto: al di là delle parole, aveva uno sguardo penetrante, che all’inizio poteva anche intimidirti, ma alla lunga no. Coglieva ciò che eri con una profondità inusuale. Arrivava al cuore prima che alla mente. Oltre alla disponibilità ad ascoltarmi, mi colpì il suo saper domandare e guardare le cose insieme a te. Era interessato, voleva conoscerti e, nel mio caso, era compiaciuto, quasi con un sorriso da fanciullo, che avessi apprezzato quel suo articolo.

 

In reparto come si comportava?

 

Impostava la giornata intorno al “rituale” del giro-visite. E curava molto le riunioni di equipe. Momenti dove, insieme alla ricchezza di riferimenti teorici, voleva soprattutto che il gruppo conoscesse a fondo ogni paziente, nella sua patologia così come nelle sue condizioni di vita generali, nella sua realtà familiare o lavorativa. Con lui tutti avevano diritto di parola: medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali… e se, durante la riunione, capitava che entrasse un suo paziente, non veniva mai allontanato, ma ascoltato. Anche se stava delirando. Su ogni singolo caso si poteva discutere per ore. Cose inimmaginabili nella psichiatria “aziendalistica” odierna. Ricordo anche i silenzi di Borgna, che in quelle circostanze diventavano il silenzio di tutti, a conferma della precedenza accordata all’ascolto.

 

 È stato maestro di molti?

 

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha dedicato molto tempo alle scuole di specialità in psichiatria. Le frequentavano studenti da tutto il Piemonte, anche non iscritti alla specialità. Qualche volta io ci andai anche quando già lavoravo. Erano lezioni a braccio, dove chiunque poteva intervenire. Borgna non aveva nessun problema a interrompersi per seguire una nuova direzione alla luce di quello che gli veniva chiesto. Anche lì capitava che entrassero in aula i suoi pazienti. Non li invitava mai a uscire ma li ascoltava e tutti noi, insieme a lui, li ascoltavamo. Era come se la sua priorità fosse sempre la considerazione dell’umano. Del resto, aveva una grande passione per l’interiorità della persona, più ancora che per le teorie, sebbene fosse uomo di una cultura sterminata.

 

 Nonché uomo di fede profonda.

 

Diverse volte ebbi modo di apprezzare la sua spiritualità. Aveva una formazione religiosa frutto di un’educazione ricevuta fin da bambino. Ed è sempre stato un cattolico convinto, dichiarato, tanto che la sua fede ha improntato tutta la sua vita professionale, oltre che gli interessi culturali. Era un cattolico praticante, non mancava mai una Messa e ogni tanto, sul lavoro, citava omelie ascoltate anche anni prima. Aveva una memoria omerica, veramente rara. Anche questo dice molto della sua capacità di ascolto. Poi amava i luoghi di spiritualità e silenzio. Se doveva intervenire nell’ambito di un convegno organizzato nei pressi di un monastero, era molto felice di farlo. In particolare, aveva un rapporto speciale con il monastero benedettino di clausura sull’isola di San Giulio nel Lago d’Orta, dov’è stato anche per scrivere un libro sulla solitudine. Amava poi le letture dei mistici.

 

 Cosa ricorda, invece, del suo rapporto con don Giussani?

 

Era molto affascinato dalla sua figura, me ne ha parlato più volte. Già nel 1983, al ritorno dal Meeting di Rimini in occasione della sua prima partecipazione, me ne aveva parlato con entusiasmo. Di don Giussani lo colpivano innanzitutto la speranza, unita alla grande passione per l’umanesimo vissuto nella concretezza delle circostanze della vita, qualcosa che anche Borgna provava a portare in reparto. Poi era colpito dalla sua capacità di smuovere i giovani, da questa sua fiducia nelle nuove generazioni. Da ultimo, era ammirato dalla sua personale spiritualità.

 

 In che modo la religiosità di Borgna abbracciava il lavoro?

 

La speranza ha sempre connotato il suo approccio alla sofferenza e alla malattia. Una speranza che non escludeva affatto la croce, pur senza cedere alla disperazione. Per lui, infatti, speranza non significava conseguimento di un risultato. Non ambiva a cancellare la sofferenza, ma cercava sempre un’apertura di senso anche all’interno delle situazioni che non si risolvono del tutto, come di fronte a certe patologie. Amava citare una frase di un poeta del romanticismo tedesco, Clemens Brentano, secondo cui la follia è la sorella sfortunata della poesia. Aveva, infatti, questo approccio alla sofferenza, anche quella psichica, intesa come cifra dell’umano, non come rottura, anomalia o guasto da riparare. Era molto distante da un certo modo di vivere la fiducia nella tecnica e le neuroscienze, da quella forma di ottimismo che non è speranza, ma vorrebbe depennare la sofferenza e la morte. Per lui, invece, i malati psichiatrici erano i testimoni più radicali, più autentici della condizione umana. Perché toccano più alla radice l’umano.

 

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/eugenio-borgna-intervista-enrico-ferrari#:~:text=CULTURA,perderti%20il%20meglio

venerdì 10 gennaio 2025

Da Klingenbeck a Maria Terwiel, martiri cristiani nei tempi bui del nazismo

 


Da Klingenbeck a Maria Terwiel, martiri cristiani nei tempi bui del nazismo

 

La linea della memoria che stiamo percorrendo sulla scorta del libro di Francesco Comina La lama e la croce lascia ora Sankt Radegund, il paese sul confine austriaco di Franz e Franziska Jägerstätter, per varcare la Salzach ed entrare in Germania, poi piega a ovest, verso Monaco di Baviera, dove nel 1942 i fratelli Hans e Sophie Scholl e gli altri giovani della Rosa Bianca lanciarono la loro sfida al regime distribuendo volantini contro la guerra e dove anche altri ragazzi, perfino più giovani, avevano avviato già un anno prima la loro campagna di controinformazione con le notizie intercettate da Radio Vaticana e dalla BBC: questi giovanissimi facevano capo a Walter Klingenbeck, un apprendista meccanico diciottenne che, con Daniel von Recklinghausen, l’artigiano Hans Haberl e il meccanico aeronautico Erwin Eidel, progettò di lanciare dei volantini da un piccolo aereo telecomandato e perfino di realizzare una radio clandestina. Walter fu ghigliottinato a Stadelheim il 5 agosto 1943, nello stesso carcere nel quale in febbraio furono condotti a morire i ragazzi della Rosa Bianca. Gli amici di Walter furono risparmiati, ma condannati a otto anni di carcere.

 

Il nostro pellegrinaggio sulle vie del martirio sale ora più a nord, a Meitingen, dove è sepolto Max Josef Metzger, alias fratel Paulus, già cappellano militare volontario nella Grande Guerra: divenuto pacifista convinto, fondò nel 1938 la Fraternità interconfessionale per la pace “Una Sancta”. Incarcerato, lasciò scritto: “Chi è consapevole che la morte non è soltanto ‘fine’, ma anche – e molto di più – ‘inizio’, una porta della vera vita ‘eterna’, uno così, senza essere ‘stanco della vita’, può amare e salutare la morte con le parole: ‘Salve, sorella morte’”. Fu ghigliottinato nell’aprile del ’44, all’età di 57 anni, dopo un processo farsa. Nel ’34 Metzger aveva scritto una poesia:

 

“Sono e rimango un uomo libero / mi si possa anche incatenare / la verità continua a sventolare / ed io continuerò ad annunciarla con coraggio / e se mi verrà tagliata la lingua / allora io parlerò col mio silenzio”.

 

Lo scorso 17 novembre “fratel Paulus” è stato proclamato beato da papa Francesco.

 

Berlino è l’ultima meta del viaggio per molti dei testimoni della coscienza cristiana ricordati nel libro di Comina, che nella capitale del Reich trovarono la morte. Qui agirono anche due coraggiose donne cattoliche, la ventiduenne Eva-Maria Bruch e la trentatreenne Maria Terwiel, che diffuse clandestinamente le omelie del vescovo di Münster Clemens August von Galen, di denuncia delle reiterate violazioni dei diritti umani. Queste due donne scelsero un impegno militante contro il nazismo che le portò a coinvolgersi con la Rote Kapelle (“Orchestra Rossa”), una rete di resistenza clandestina che univa socialisti, comunisti, cattolici e protestanti. Come già molti altri militanti dell’organizzazione, entrambe morirono a testa alta nel carcere di Berlino-Plötzensee, il 5 agosto 1943, pochi giorni prima dell’esecuzione di Jägerstätter. L’avvocato difensore di Marie aveva provveduto a fornire egli stesso all’accusa le prove che mancavano per la sua condanna a morte. Tra i militanti di Orchestra Rossa vi era anche un cugino del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, Arvid Harnack, giustiziato nel dicembre del ’42 e seguito due mesi dopo nella stessa sorte dalla moglie Mildred Elizabeth.

 

La breve carrellata, che sulla scorta del libro di Francesco Comina abbiamo qui compiuto attraverso l’inferno dell’apparato repressivo nazista, mette in luce come anche nell’inferno, per parafrasare un’espressione di Italo Calvino, abbiano potuto brillare fatti e persone che inferno non erano. Tra queste persone, molte delle quali non potevano neppure conoscersi tra loro, troviamo spesso parole e comportamenti simmetrici, provenienti da cuori nutriti da una profonda fede cristiana, non delegata ad altri. Queste persone vissero misteriosamente in una profonda comunione di intenti un vero e proprio ecumenismo del martirio.

 

È questa dunque una prima risposta alla domanda che ha guidato dall’inizio queste nostre riflessioni: se Franz Jägerstätter fosse davvero solo nel far fronte al conformismo totalitario dilagante. Colpisce ad esempio, la profonda sintonia che si può riscontrare tra alcune espressioni del teologo Metzger e un’analoga riflessione di questo semplice contadino, tanto da far pensare che Franz, grazie anche ai suoi viaggi in moto al di là del vecchio confine austro-tedesco, avesse molte più fonti a disposizione di quanto possa sembrare a prima vista. Scriveva Metzger, già nel 1924: “Io cerco cristiani che sappiano perché sono cristiani e che perciò antepongano le realtà eterne a quelle temporali: Dio allo stato, la verità alla patria, la giustizia ai propri interessi. Io cerco credenti che credano nell’amore, nella pace, nel Cristo, nel suo Regno”. E Franz, negli anni 40, gli faceva eco: “Vorrei trovare dei cristiani che sanno resistere nei tempi bui […], che stanno in perfetta pace, letizia e spirito di servizio là dove non ci sono né pace, né gioia […]. Che non sono come una canna sbattuta dal vento, che non stanno a guardare cosa fanno i camerati e gli amici, ma che si chiedono che cosa insegnano Cristo e la Chiesa e che cosa dice la loro coscienza”.

 

Questa prima risposta, che ridimensiona l’apparente solitudine di molti testimoni, apre tuttavia a sua volta nuove domande, sulla scorta della densa riflessione di Dietrich Bonhoeffer, che il 5 aprile 1943 fu internato a Tegel, nel medesimo carcere berlinese di Reinisch e di Jägerstätter, e che dopo diversi trasferimenti finì impiccato nel lager di Flossenburg il 9 aprile 1945. Di Bonhoeffer, il libro di Francesco Comina riporta una frase degna di essere meditata: “Chi cerca di sfuggire alla terra non trova Dio, trova solo una altro mondo, il suo mondo, più bello, più tranquillo, un mondo ai margini, ma non il Regno di Dio, che comincia in questo mondo” (p. 117). Altrove Bonhoeffer precisa questa sua posizione, che lo portò a non accontentarsi di una resistenza passiva e soltanto soggettiva – peraltro la sola forma che alcuni martiri, nelle loro diverse situazioni, potessero realizzare –, per partecipare in prima persona alla congiura contro Hitler dell’ammiraglio Wilhelm Canaris. Scrive infatti Bonhoeffer, in un piccolo saggio lasciato agli amici nel Natale del 1942:

 

“Chi, sapendo che la corresponsabilità per il corso della storia gli viene imposta da Dio, non permette che nulla di quanto accade lo privi di essa, costui saprà individuare un rapporto fruttuoso con gli eventi storici, al di là della sterile critica e del non meno sterile opportunismo. Chi parla di soccombere eroicamente davanti a un’inevitabile sconfitta fa un discorso in realtà molto poco eroico, perché non osa levare lo sguardo al futuro. Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti”. Si tratta cioè, per la generazione che verrà, di saper riconoscere “se si agisce solo in base a un principio o in base ad una responsabilità vitale; perché in questo si gioca il suo stesso futuro” (Dieci anni dopo, Pazzini, 2024, pp. 25-26).

(…)

https://www.ilsussidiario.net/news/storia-da-klingenbeck-a-maria-terwiel-martiri-cristiani-nei-tempi-bui-del-nazismo/2788897/#:~:text=La%20linea%20della,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

 

 

 

sabato 4 gennaio 2025

Introduzione guidata alla lettura

 


Taranto, 3-1-2025

Introduzione guidata alla lettura del libro di Luigi Giussani , "Una rivoluzione di sè, la vita come comunione (1968-1970)", a cura di Gemma Barulli