È un film strano, anzi straniante
The revenant,
arrivato nelle sale cinematografiche lo scorso fine settimana. Si
fatica a capire come la macchina hollywoodiana abbia voluto puntare
per un ritorno commerciale – vista l’imponente promozione – su
un’opera lugubre, a tratti opprimente, dove i temi della lotta per la
sopravvivenza e della vendetta sono trattati con faticosa lentezza –
l’opposto dell’avvincente libro di Michael Punke, a cui il film si
ispira in modo molto esile – sullo sfondo di un maciullamento di carni,
neve rosso sangue, fango ghiacciato e desolazione umana.
Film senza luce, con una buona fotografia e buoni effetti speciali – ma che stupiscono ormai pochi – con un ricco
soundtrack
di gemiti belluini e grugniti. Sono questioni che lasciamo però ai
critici cinematografici. La vicenda è ambientata nei primi decenni
dell’800, quando, dopo che l’antica e immensa Louisiana fu venduta dai
francesi agli Stati Uniti nel 1803, si aprì una fase di spedizioni nel
Nord-Ovest americano, fra le migliaia di chilometri quadrati che si
aprivano tra St. Louis e le Montagne Rocciose, seguendo il corso del
fiume Missouri. Fu un’epoca di avventure nell’ignoto, di pionieri in
cerca di fama e commercianti senza scrupoli. Fu anche e soprattutto
l’epopea dei
trapper, cacciatori estremi, galvanizzati da una
richiesta di pellicce da parte di americani ed europei che d’un tratto
trasformò gli inermi castori in pepite d’oro ambulanti.
Il
regista Alejandro González Iñárritu ha voluto portare sul grande
schermo l’aspetto atroce di quel mondo, fatto di avida competizione,
del confronto impari con una natura capace di portare al collasso
psichico (Meriwether Lewis, grande esploratore di quegli anni, dopo
un’impresa con cui avrebbe potuto campare di rendita, per denaro e
onori, finì depresso e alcolizzato e si suicidò a 35 anni) e
soprattutto degli infiniti scontri con tribù indiane di cui oggi è
facile dimenticarsi la ferocia: Arikara, Piedi Neri, Mandan, Sioux,
Teste Piatte… la vera spina nel fianco dei cercatori di fortuna.
Ma, appunto, quello fu solo un aspetto. Ce ne fu un altro che il film
tralascia completamente, anche se dà un piccolo appiglio per arrivarci. È
nella scena in cui il protagonista Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) vede
in sogno il figlio – avuto da un’indiana Pawnee e che gli è stato
ucciso dal compagno traditore Fitzgerald – mentre si erge muto fra le
rovine di una chiesa cattolica. Insolito rimando. Perché una chiesa
non sembrerebbe c’entrare nulla con
trapper, pellerossa né con
il personaggio storico di Hugh Glass, realmente esistito. È questo
l’altro grande aspetto dimenticato di quella storia: il ruolo che una
serie di missionari eroici, soprattutto cattolici e in specie gesuiti,
ebbero pressappoco negli stessi anni e lungo gli stessi fiumi e
sentieri battuti dai protagonisti di
The revenant. Sfoderando un coraggio e una fortezza di spirito non inferiore alla loro, anzi.
Con
una differenza: si mossero non in cerca di guadagni materiali, ma per
la salvezza delle anime, e riuscirono a penetrare e conquistare il
mondo indigeno come nessun altro prima. Secondo alcuni storici fu solo
la velocità e la brutalità dell’espansionismo statunitense che impedì il
nascere di esperienze come le
reducciones dell’America del Sud.
I gesuiti Jean de Brébeuf (1593-1649), Isaac Jogues (1607-1646) e
altri sei compagni, uccisi in diverse località di quello che oggi è lo
Stato di New York, erano arrivati dalla Francia come pionieri dello
Spirito in un mondo distante come Marte e compirono un’efficace opera di
evangelizzazione fra gli indiani Uroni: li istruirono, li
allontanarono da costumi disumani, li battezzarono e iniziarono una
paziente inculturazione del Vangelo. Passarono per privazioni e prove
che, se non fosse per le dettagliate relazioni che inviarono
regolarmente ai superiori in Europa, sembrerebbero inverosimili.
Padre
Jogues, catturato da una tribù nemica degli Uroni, i Mohawk, dopo un
anno di prigionia e torture ritornò in patria sfregiato e con le dita
di una mano amputate. Poco dopo volle tornare fra i suoi indiani.
Padre De Brébeuf, catturato dagli Irochesi, anche loro nemici giurati
degli Uroni, subì un supplizio lento: venne ustionato con acqua bollente
e carboni ardenti, gli furono spezzate una a una le articolazioni,
quindi tagliati uno dopo l’altro naso, lingua, orecchie, gli furono
cavati gli occhi.
Non essendo riusciti a strappargli urla di
dolore, né a impedirgli fino all’ultimo di bisbigliare «Gesù, abbi
pietà di loro», i suoi carnefici dopo averlo ridotto a un tronco senza
vita gli mangiarono il cuore e ne bevvero il sangue: segno di
ammirazione per il suo coraggio e un modo per impossessarsene. E
qualcosa del genere effettivamente accadde.
Fu proprio un gruppo di
Irochesi che finì a Ovest, fra le Montagne Rocciose, a tramandare
l’ammirato ricordo di Brébeuf e compagni. Così, 150 anni dopo, venuti a
conoscenza della presenza di gesuiti nell’avamposto di St. Louis,
quegli indiani compirono quattro spericolate spedizioni, di migliaia
di chilometri, per chiedere con insistenza che uno dei grandi «veste
nera» andasse ad abitare fra loro.
All’appello rispose
Pierre-Jean De Smet (18011873), gesuita belga, sorriso paterno e tempra
d’acciaio, che divenne in breve, tra infiniti viaggi a piedi o in canoa
su e giù per il Missouri, e altri fiumi come il Platte e lo
Yellowstone, uno dei maggiori conoscitori di quelle terre. Imparò a
dormire in mezzo alla neve, a cavarsela in condizioni proibitive, scalò
montagne, si addentrò da solo, munito di breviario e del suo amato
clarinetto, un po’ come il gesuita del film
Mission, in mezzo ad accampamenti dove altri sarebbero stati presi immediatamente a colpi di
tomahawk.
Ma per gli indiani era l’uomo bianco che parlava «senza lingua
biforcuta», che li difendeva dai soprusi dei cacciatori, dei trafficanti
di whisky, vera e propria droga di allora. Il successo che riscosse lo
rese il diplomatico di punta del governo federale – non certo
simpatetico a quei tempi verso i papisti spesso francofoni – nel
trattare con i pellerossa. E così fu assoldato e portato in palmo di
mano da generali dell’esercito come William Harney e William Sherman.
Convertì con il suo esempio e anche con la sua prestanza. Uno degli
indiani che battezzò cercò di ucciderlo in un’imboscata: De Smet riuscì
a disarcionarlo da cavallo, a sopraffarlo nel combattimento corpo a
corpo e a strappargli l’ascia di guerra: la prova della sua abilità e
la pietà che mostrò verso il vinto conquistarono quest’ultimo al Dio
forte e misericordioso dei cattolici.
De Smet lasciò una
traccia profonda, su cui poi altri si inserirono altri confratelli.
Nel 1862, a Mankota, furono impiccati 38 Sioux, catturati in seguito a
una sollevazione nel Minnesota che aveva causato centinaia di morti fra
gli americani. Al momento della sentenza, il colonnello in capo alla
prigione disse ai condannati che potevano scegliere un accompagnamento
spirituale alla morte: un santone della loro tribù, i due pastori
protestanti presenti o un sacerdote cattolico, il gesuita francese
Augustin Ravoux (1815-1906). I missionari protestanti conoscevano la
lingua indigena perfettamente, erano in missione da 25 anni fra i
Sioux, mentre padre Ravoux da 18 aveva lasciato l’apostolato fra di
loro per gli scarsi risultati e pochi sacerdoti cattolici avevano
stabilito altri contatti.
Per la sorpresa di tutti, 33 tra i
condannati scelsero di seguire il «veste nera». Ravoux rimase con loro
quattro giorni, spiegando i fondamenti della fede. Impararono a
recitare il Credo, il Padre Nostro, l’Ave Maria, l’atto di contrizione.
Di fronte alla loro serietà e pietà «le lacrime mi bagnavano il viso»,
scrisse il gesuita nel suo diario. I nuovi battezzati spesero l’ultima
notte serenamente, mentre i due indiani animisti si agitarono
nervosamente fino all’alba. La mattina seguente, i 33 si avviarono al
patibolo «senza mormorii di resistenza… animati da una grande speranza
per il futuro». Un anno dopo, trecento famiglie Sioux chiesero di
essere visitate da Ravoux e duecento indiani si fecero battezzare.