venerdì 30 maggio 2025

«Ritrovare il gusto del vivere si può»: incontro tra i ragazzi de L'Imprevisto e Davide Prosperi


 

 

«Ritrovare il gusto del vivere si può»

A Pesaro un dialogo tra i ragazzi della comunità terapeutica L’imprevisto e Davide Prosperi: «Chiedere aiuto è il più grande gesto perché è l’inizio del cambiamento». E vale anche per i genitori

 

30.05.2025

Tino Giardina

«Ai ragazzi bisogna chiedere tanto, chiedere tutto, e se lo fai loro ci stanno e rispondono. Ma bisogna testimoniare e indicare loro qualcosa e qualcuno che è più grande di me e di te». Con queste parole Silvio Cattarina, fondatore della comunità terapeutica educativa per ragazzi con difficoltà L’imprevisto di Pesaro, ha introdotto il dialogo che si è svolto sabato 24 maggio con Davide Prosperi, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Preceduto da una performance teatrale dei ragazzi della comunità maschile che hanno messo in scena, guidati da Gilberto Santini, una poesia di Mariangela Gualtieri, si è avviato un dialogo intenso e struggente iniziato dalle testimonianze di giovani adulti che hanno già da tempo finito il percorso di recupero e dei loro genitori. Esperienze profonde e anche sofferte come quella di Gabriele, che raccontando del proprio attuale momento di difficoltà familiare è giunto a gridare: «Chiedo salvezza, chiedo pietà!».

Marigona ha raccontato la propria storia di ragazza adottata, la rabbia, la ricerca affannata della felicità e l’inaspettata occasione di incontrare la comunità de L’imprevisto. Concluso il percorso sorge la domanda: «Ma questa bellezza sperimentata qui è per sempre?». La risposta di Silvio è l’inizio di un viaggio: «Se guardi dove guardo io vedrai cose grandi, altrimenti finirà tutto». Da questa provocazione la scelta di legarsi agli amici del movimento in università per verificare che questa esperienza e promessa di bene fosse possibile ovunque e sempre. E così il matrimonio, la maternità, l’affronto dei lutti familiari sono circostanze dove emerge la fame di significato della vita: «Mi porto dentro la strada e la speranza per cui riscopro che tutto, anche il dolore vissuto e il mio male, sono per il mio compimento come donna, moglie e madre. Questo mi è possibile solo mantenendo la strada e i rapporti di amicizia che sono un tramite per il Destino».

(…..)

 

Anche per i genitori intervenuti è accaduto un nuovo modo di guardare sé e i propri figli. «“Non ci salviamo da soli”, diceva papa Francesco, ma io non posso salvare me e neanche i miei figli», dice Tiziana, mamma di Lorenzo. Bisogna chiedere aiuto e L’imprevisto è stato un punto di speranza per il figlio come per i genitori, un luogo di educazione e di pace. Ercole, papà di Andrea, ripercorre i passi della sua storia e conclude con due domande: perché il cambiamento di Andrea e nostro è dovuto passare attraverso tanto dolore e fatica? Perché i ragazzi adottati vivono tanta difficoltà a lasciarsi amare e ad affacciarsi alla vita bella a cui tutti siamo chiamati? Sono intervenuti anche due ragazzi che stanno ancora svolgendo il loro percorso, Antonio e Margherita: a L’imprevisto hanno scoperto che c’è qualcosa di diverso in quel luogo, attraverso gli educatori si sono accorti che la vita vale la pena di essere vissuta. Tutto nella giornata assume la sua dignità perché «ci sono persone che mi vogliono bene anche quando sbaglio».

Prosperi è rimasto colpito da questa serie di testimonianze, come ripeterà in serata all’assemblea con tutta la comunità di CL di Pesaro: «È successo anche a me qualcosa che penso abbia a che fare con il nome di questo luogo: proprio questo imprevisto è il filo conduttore di quello che ho sentito, ciò per cui in cuori spaccati si è riaccesa la speranza. Siamo tutti piante storte e senza radici, tutti sperimentiamo la mancanza della totalità». Riflettendo sul significato geniale del nome dell’opera di Cattarina, Prosperi ha ricordato che sarebbe un’ingiustizia se non avessimo la possibilità di incontrare ciò che il cuore reclama, ma questa risposta non possiamo fabbricarla da soli: può soltanto venirci incontro, in maniera imprevista appunto, in un ambito umano. «Il vero, ultimo problema è il significato del vivere», ha aggiunto Prosperi. «L’impotenza a trovare un significato ci porta alla disperazione perché non riusciamo a immaginare che questo significato possa essere veramente un’esperienza e non solo parole. Siamo disperati finché, in maniera imprevedibile, questo significato accade come un fattore nuovo, diverso, che si manifesta nella vita. La sofferenza, se è offerta a Cristo affinché possa aiutare il Suo disegno, comincia ad assumere un significato. Voi avete saputo dire dai segni che è possibile riconoscere questo significato e quindi ritrovare il gusto del vivere».

(….)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/imprevisto-pesaro-dialogo-davide-prosperi#:~:text=SOCIET%C3%80-,%C2%ABRitrovare%20il%20gusto%20del%20vivere%20si%20pu%C3%B2%C2%BB,stata%20un%E2%80%99altra%20strada%20Cristo%20l%E2%80%99avrebbe%20scelta%3A%20invece%20persino%20Lui%20l%E2%80%99ha%20condivisa%C2%BB.,-SOCIET%C3%80


sabato 24 maggio 2025

Luis Vanella: Ho sperimentato l'odio e il perdono (da "La Nuova Europa")

 


17 Maggio 2025

Ho sperimentato l’odio e il perdono

Luis Vanella, nato a Córdoba (Argentina). Da anni vive in Italia, in provincia di Bergamo. È sposato da 46 anni e ha 4 figli.

Un gruppo di volontari italiani in visita fraterna in Ucraina. Uno dei partecipanti ci racconta quello che ha visto, le riflessioni che l’esperienza gli ha provocato. E offre la sua personale esperienza di rifugiato politico come dono di pace.

 

A marzo è stato in Ucraina con il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (MEAN): quali erano il motivo e l’obiettivo del vostro viaggio?

 

Siamo stati invitati da monsignor Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico in Ucraina, dopo che ci eravamo conosciuti nel luglio 2024 a una preghiera ecumenica per la pace e da quell’incontro era nata un’amicizia. Mi ha colpito molto quello che ci ha detto: «Non importa se non siete tanti, potete venire anche solo in 10; a me interessa che siate miei amici, perché siete tra i pochissimi con i quali riesco a parlare e farmi capire», intendendo una comprensione profonda, che va al di là delle barriere linguistiche.

Abbiamo pensato insieme come concretizzare questo desiderio, per non rischiare di imporre noi dall’esterno le nostre soluzioni come se la gente locale non sapesse cosa vuole e di cosa ha bisogno: non c’è cosa più inutile che rispondere a una richiesta che non è mai stata fatta. Così è nata l’idea di organizzare un grande evento religioso per il Giubileo, centrato proprio sull’essere portatori di speranza, coinvolgendo la società civile a più livelli: dall’ambiente universitario e accademico, a quello artistico, sportivo, religioso e, se riusciremo, anche imprenditoriale.

Tutto questo si inserisce perfettamente negli obiettivi del MEAN, un progetto condiviso da associazioni di diversa natura, che mira a promuovere la «diplomazia tra i popoli» come nuova via verso la pace. Dobbiamo riconoscere che gli strumenti usati fino ad oggi per risolvere le incomprensioni internazionali non sono bastati: la forza del diritto non ha funzionato e nemmeno il diritto alla forza, cioè la violenza, che non fa altro che approfondire i problemi già esistenti.

La strada perseguita da questi corpi civili di pace europei è quella dell’ascolto dei bisogni concreti di un popolo attraverso l’incontro innanzitutto con i civili e, se possibile, anche con il livello istituzionale. Il punto infatti è che la pace non si fa solo parlando di pace, ma la si fa costruendo. Una frase che è stata a lungo il motto dell’AVSI diceva: «Condividere i bisogni per condividere la vita»: è proprio così che si può essere veramente portatori di pace.

Poi c’è un aspetto successivo del nostro lavoro, ovvero la giustizia riparativa, cercare cioè di riavvicinare (ovviamente se lo desiderano) la vittima e il colpevole, che magari si è pentito di ciò che ha fatto. Quante volte noi ci pentiamo delle stupidaggini e delle cattiverie che facciamo, è un’esperienza che ho fatto personalmente.

 

Com’è stato trovarsi faccia a faccia con la distruzione e il dolore che ci sono oggi in Ucraina?

 

È stato toccante vedere come molti si emozionavano anche solo a vederci, prima ancora di sapere il motivo della nostra visita: già il fatto che fossimo andati lì, dove nessuno vuole andare perché sparano e bombardano, è stato percepito come un gesto di solidarietà enorme, sconvolgente. È attraverso questo incontro che noi corpi civili vogliamo portare la pace.

Poi mi ha colpito molto la cura per l’ordine e la bellezza che gli ucraini dimostrano anche in mezzo alla distruzione: mentre eravamo lì alcuni edifici sono stati colpiti, ma le macerie non rimanevano a lungo perché subito la gente si attivava per sgomberare, riparare, ricostruire. Questa è speranza: l’università che prepara i suoi allievi per il giorno in cui la guerra finirà, una enorme cattedrale greco-cattolica piena di vestiti, medicine, sussidi. È un popolo veramente in azione e la sua forza mi ha colpito tantissimo. Viaggiando in treno abbiamo incontrato un soldato in congedo, prima muratore, che ha un figlio autistico e quindi avrebbe potuto essere esonerato dal servizio militare. Invece lui, a 50 anni, ha deciso di andare comunque a combattere, «perché – ci ha detto – io sono già vecchio ma i giovani non devono morire in questa guerra. Se no come può esserci un domani?». Nonostante sia consapevole del prezzo che può pagare per questa scelta, ha deciso di farlo per i suoi figli e per il domani.

Questo pensiero costante al domani, la speranza sempre presente, mi ha molto colpito. Non sto idealizzando, perché nessuno è perfetto, né ucraini, né americani, né russi, né cinesi, però esiste davvero la tensione alla bellezza e la predisposizione alla dignità, e gli ucraini ce l’hanno.

 

Lei nella sua vita ha sperimentato personalmente la conversione dalla violenza al pentimento: come è avvenuto questo cambiamento di prospettiva?

 

Io sono nato in Argentina in una famiglia cattolica, ma già dai 13 anni il cristianesimo non mi era più sufficiente come risposta a una realtà che era molto violenta, fatta di continui colpi di Stato e dittature. A quell’età, non trovando altre vie d’uscita, la cosa più giusta per me era unirmi a chi con le armi si opponeva a queste dittature. Così fino ai 18 anni ho fatto parte di un’organizzazione guerrigliera, arrivando a rendermi conto che non solamente gli altri sono cattivi, ma tu stesso lo diventi.

Quando entri nella logica della violenza non ne può nascere niente di buono: l’unica cosa che può nascere dalla violenza è ulteriore violenza, ulteriore odio, e la storia continua all’infinito. I miei compagni sono stati quasi tutti uccisi e, per moltissimi anni, anche dopo aver lasciato l’Argentina, perdonare per me significava tradire i miei ideali e le persone care che erano morte.

La mia fortuna è stata incontrare mia moglie e i miei suoceri, gente di una semplicità incredibile ma veramente cristiana, senza doppiezze. Io allora ero rifugiato politico in Francia, pulivo i pavimenti e non avevo niente se non uno zaino: loro non si sono fermati ai miei errori ma mi hanno voluto bene davvero e mi hanno mostrato cos’è la bellezza. Quindi bisogna sempre fare attenzione a condannare subito una persona per ciò che fa, anche se ha sbagliato, perché magari dietro all’errore c’è un essere umano che sta male. Non significa giustificare gli sbagli, è bene che si faccia giustizia in ogni ambito e paese, dico semplicemente che bisogna sempre amare l’altro.

L’amore che i miei suoceri mi hanno donato ancora mi commuove perché, quando conosci veramente l’amore, che è molto più del rispetto, è il donarsi totalmente per te e l’augurarti il vero bene, capisci che è qualcosa di incredibilmente profondo e che al tempo stesso raggiunge l’infinito.

 

Dopo quell’incontro, il suo processo di conversione è stato graduale oppure ci sono stati dei momenti precisi che hanno segnato una svolta decisiva?

Ricordo un momento nella mia vita che è stato uno spartiacque. Era il 1990 e dopo aver tentato più volte di riprendere la mia battaglia politica in Argentina, senza successo e rischiando anche la vita, avevo deciso di rientrare in Italia, dato che la situazione stava diventando troppo pericolosa soprattutto per i miei bambini e mia moglie. Ero esausto, convinto che sbagliavo sempre qualcosa e stanco dei miei fallimenti. Stavo male, non volevo più vivere. Quando la forza è tutta tua, prima o poi ti scoppia il fegato, non ce la fai; quando la tua forza è solo la tua volontà, prima o poi vuoi farla finita, perché la capacità di sopportare il dolore si esaurisce. La tua capacità di sopportare le sconfitte può essere enorme, ma arriva a un punto in cui se non hai qualcos’altro che ti sostiene, la tua energia si consuma e sei finito.

In quel periodo, sono andato con mia moglie in Francia, da mio fratello. Eravamo in spiaggia e nel silenzio mi domandavo cosa fare della mia vita, se ricominciare da capo. Improvvisamente ho sentito dentro di me una voce che diceva: «Ce la farai, ma non devi odiare. Ce la farai, ma non devi cercare vendetta». Ho pensato di essere impazzito, malato. Sulla via del ritorno, mentre percorrevamo l’autostrada che passa nei pressi di Lourdes, ho sentito un forte richiamo, un’attrazione simile a quella che mi chiama oggi ad andare in Ucraina. Ho proposto a mia moglie di fermarci: arrivati a Lourdes, mi sembrava di camminare su qualcosa di morbido che non era asfalto, non sentivo il pavimento: temevo sempre più di essere impazzito. Ci siamo inginocchiati e io già percepivo fisicamente una presenza in modo talmente forte da non poterla negare. Ma, testardo come sono, ho chiesto: «Se esisti, se veramente esisti, dammi una prova, e io crederò per sempre».

La prova era incontrare mio fratello proprio lì a Lourdes, cosa quasi impossibile visto l’affollamento e soprattutto visto che lui era totalmente estraneo a quei luoghi e pensavo che non si sarebbe mai fermato lì in vita sua. Ma nell’uscire l’abbiamo incontrato veramente, con sua moglie e i miei nipotini: da quel momento per me non c’è stato più nulla da discutere. Non era solo una storiella, una favola inventata dagli esseri umani per dominare la popolazione incolta, come avevo pensato per tanto tempo: questa presenza mi si è mostrata, e non posso più tornare indietro.

Avevo vissuto moltissimi anni convinto che la religione fosse uno strumento di potere – e in alcuni casi di fatto lo è – ma la fede è un’altra cosa. La presenza di Dio, riconoscere di essere fatti costantemente da Dio è un’altra cosa. Da lì è cominciato il mio vero incontro. Anche se la voglia di vendetta non mi è passata subito.

 

Come ha affrontato poi l’odio e desiderio di vendetta? Diceva che all’inizio vedeva il perdono come un tradimento, ma alla fine ci è arrivato a perdonare?

 

Non ci sono arrivato per una mia ricerca. Ho avuto una vera grazia – adesso me ne rendo conto – sono stato fortunato, graziato. La parte più difficile della vita di chi desidera la vendetta è l’odio che ti fa vivere tutto male. Puoi avere una moglie, dei figli che ti vogliono bene ma non ne hai consapevolezza, non riconosci la profondità e il valore che questo ha per te. C’è qualcosa di molto sottile che ti sfugge nell’amicizia, nel rapporto con i tuoi genitori, in tutto, perché tutto gira intorno all’odio.

C’è una frase molto bella di Jorge Luis Borges, che dice: «No nos une el amor, sino el espanto» (Non siamo uniti dall’amore, ma dalla paura), cioè la paura mischiata con l’odio, con il ribrezzo: questo fa vivere tutto male sia a te che a chi ti sta intorno. Io ho iniziato a vedere più in profondità da grande, quando ero stanco di odiare e non riuscivo più a vivere con questo peso dentro di me. Io non auguro a nessuno la disperazione, ma per me è stata un bene, è stata come la spina nel fianco di cui parla san Paolo:

c’è sempre un momento nella vita di tutti in cui ti guardi allo specchio e ti rendi conto che da solo non ce la puoi fare, anche se sei un uomo d’azione, uno che non si tira mai indietro, o una donna forte, in verità tu non sei proprio nulla, sei solo un mendicante, in ginocchio, che chiede che qualcuno ti aiuti sul serio.

E lì ho sentito di essere amato veramente da Gesù. È stato un click, non un processo logico, un ragionamento, è stata un’esperienza a cambiarmi, quella di riconoscermi amato da Lui. Questo a me è capitato con Cristo ed è il cammino che mi ha portato a riconoscere che anche l’altro è un poveraccio come me e che anche lui è amato da Gesù.

 

Pensa che questa sua esperienza di violenza e di superamento dell’odio legati alla dittatura possa servire anche agli ucraini oggi, soprattutto a coloro che piangono le vittime della guerra? Oppure trattandosi di un’aggressione esterna è una situazione troppo diversa?

 

Io credo che possa servire, pur in un contesto geopolitico molto diverso, perché la violenza è sempre violenza, la persecuzione sempre persecuzione. Qualcuno sarà aiutato dall’esperienza che racconto, altri penseranno che io sia un traditore, che avrei dovuto continuare a combattere e vendicarmi.

Anche molti argentini ancora non capiscono come io, che ho sofferto in prima persona l’uccisione dei miei cari, possa ora dire che bisogna perdonare perché altrimenti non possiamo vivere. Per tanti di loro, bravissime persone a cui voglio bene, sono una specie di traditore. Questo però non significa che si debba dire a chi sta difendendo il proprio paese che deve perdonare, perché sarebbe una forzatura. Se uno fosse venuto da me quando avevo 18, 30, 40, e pure 50 anni, a dirmi che dovevo perdonare, l’avrei cacciato via a pedate.

Allo stesso modo non si può dire agli ucraini oggi che devono perdonare mentre sono in piena battaglia, sta suonando l’allarme antiaereo e muoiono i loro cari. Quello che dobbiamo fare è essere portatori di pace.

Io non ho seguito il consiglio di qualcun altro, ho seguito un incontro, un fatto concreto. Preoccupiamoci di essere portavoce di questo fatto concreto, portatori di Gesù, chiediamo a Lui che ci usi come intermediari per arrivare fino a loro.

 

Secondo lei alla fine della guerra come si potrà stare di fronte all’ingiustizia che la Russia ha commesso, sia da parte degli ucraini che saranno accesi dal desiderio di vendetta di cui abbiamo parlato, sia da parte dei russi che dovranno rendersi conto del male che hanno fatto? Se la pace si fa in due, come si potrà arrivare davvero alla pace tra i due popoli?

 

Potrebbe essere che i russi non se ne renderanno mai conto.

La pace non si fa in due: per non disturbarsi e non aggredirsi più occorre mettersi d’accordo in due. Ma la pace, quella del cuore, non la si fa in due, la puoi fare tu.

È come quando discuti con tuo marito, con la fidanzata, con tua madre: se continui a rispondere e a urlare contro l’altro, finisce in una bomba atomica. Tu lavori molto più per la pace tra due persone se dici «ok, sto zitto» mentre l’altro magari continua a saltarti addosso e a dirti cose ingiuste, sciocchezze una dietro l’altra, ma tu hai capito che sta sbagliando.

E così la pace la fai tu, la vivi tu, la pace è la libertà, e la libertà della pace è tua, non è dell’altro. Non c’è bisogno di reciprocità: quante volte si aspetta una mossa dall’altro e si battibecca per niente? Se tu cerchi la reciprocità nella pace, vai dritto alla guerra.

(…) https://lanuovaeuropa.org/testimoni/2025/05/17/ho-sperimentato-lodio-e-il-perdono/#:~:text=17%20Maggio%202025,ha%204%20figli.


mercoledì 21 maggio 2025

Scuola e comunità di pensiero. Il suggerimento di Arendt


 

SCUOLA. Il suggerimento di Arendt (1906-1975)

In un mondo narcisista e algoritmico, in cui il sapere è l’insieme delle nozioni, la conoscenza nasce dalle ferite. Il compito della scuola

Nora Terzoli Pubblicato 21 Maggio 2025

 

La crisi della complessità, di cui si parla da tempo, interessa tutte le istituzioni, scuola compresa. Numerose sono le sfide che porta con sé: cambiamenti sempre più rapidi, fragilità delle nuove generazioni, ma anche del mondo adulto, difficoltà a costruire un rapporto significativo tra le generazioni, affermazione e ruolo dell’intelligenza artificiale (AI).

La scuola, pur all’interno dell’attuale complessità e con le sue criticità, resta comunque nella società, fosse solo per la sua finalità istituzionale, un luogo di presidio dell’umanità. Quali azioni e quali attenzioni possono fare da bussola, per assolvere questo compito?

Direi innanzitutto la cura per la crescita della persona e quindi per l’avventura della conoscenza, espressione del dinamismo di un io che, interpellato dalla presenza della realtà, esce da sé, dai confini del suo solitario narcisismo, per andare incontro al dato della realtà che sospinge sempre oltre, in quella passione inquieta espressione propria della natura umana.

Quali le condizioni, le caratteristiche di questo dinamismo?

Lo ricorda Hannah Arendt in risposta a una delle lettere a Martin Heidegger (H. Arendt, M. Heidegger, Lettere 1925-1975, Edizioni di Comunità, 1998), in cui il filosofo le chiedeva a che cosa stesse lavorando: “Ora sto lavorando al testo sulle origini del totalitarismo ma, per parlarne, voglio partire dal personale, dal mio vissuto, poiché prima si viene feriti, poi si inizia a pensare”. Si tratta di un’affermazione molto originale e certamente singolare, non facilmente rintracciabile nel sentire comune del nostro tempo.

La ferita che apre al pensiero, a cui fa riferimento la Arendt, si esplicita nella domanda incessante, nel contraccolpo che la vita, la realtà pone alla persona che ne accetta la sfida. Nell’avventura della conoscenza, di cui la scuola è chiamata a farsi tramite, solo l’apertura al reale garantisce la genesi del pensiero.

Le discipline sono il tramite di questo incontro e il docente è l’adulto testimone di questa possibilità.

Lo ricorda ancora la Arendt nella prosecuzione della stessa lettera: “Decisiva è la differenza tra sapere e sapere con tutta l’anima, cioè tra sapere come accumulo di conoscenze e di nozioni e quella forma di comprensione o di conoscenza che va alla ricerca del senso”.

Nell’attuale contesto culturale l’espressione “sapere con tutta l’anima” suona inusuale e potrebbe essere interpretata come una concessione al sentimentalismo. In realtà si tratta di non ridurre la conoscenza all’astratto dell’accumulo di informazioni, di non perdere mai di vista la dimensione del senso.

Molta della noia degli studenti, la disaffezione allo studio, la demotivazione sono causate dalla difficoltà della scuola a salvaguardare questa dimensione essenziale della conoscenza, senza la quale restano solo un sapere astratto e un accumulo di informazioni destinati a svanire in breve tempo e a non lasciare alcun segno nella maturazione della persona.

 

Nell’era del digitale e dell’AI diventa irrinunciabile comprendere che la conoscenza è un processo non identificabile con l’accumulo di informazioni. L’algoritmo è per sua natura un fenomeno quantitativo, mentre la conoscenza, se così si potesse dire, è un fenomeno qualitativo e singolare.

“Bisogna rendersi conto che le macchine, il funzionamento algoritmico, non danno conto della complessità del mondo, poiché mancano dell’attrito che sta alla base della relazione del vivente con ciò che resiste del mondo” (M. Benasayag, ChatGPT non pensa (e il cervello neppure), Jaca Book, 2024, p. 43). Il narcisismo, che segna profondamente la concezione dell’io nella nostra società, non solo nega che sia possibile interrogarsi sulla verità, ma cerca di evitare anche l’impatto con la realtà.

Resta dunque essenziale il compito della scuola nella genesi di una conoscenza che restituisca la complessità del reale attraverso l’attrito con il mondo.

(….)

La Arendt, diversi anni fa, ricordava atteggiamento e attenzioni da avere verso la tecnologia e le sue parole non hanno certo perso di attualità. Rispondendo all’amica Mary in una lettera scriveva: “Ma, mi chiedo, accanto alla tecnologia, cresce anche il pensiero? Gli uomini e le donne sanno, come al tempo dei greci, pensare insieme? Vi è un luogo, un’Agorà, per questo? O si tende a delegare agli specialisti della politica la linea da scegliere?” (H. Arendt, M. McCarthy, Tra amiche. La corrispondenza tra Hannah Arendt e Mary McCarthy. 1949-1975, Sellerio, 1999).

Nelle nostre scuole si pensa-insieme? Sono un’agorà in cui si ha cura per la generazione del pensiero e di un pensiero comune che cresca attraverso il dialogo? Si ha stima per un pensiero capace di uscire dal narcisismo individualista, prendendo in considerazione il contributo dell’altro?

Il dialogo è per sua natura un luogo d’incontro, dove è possibile conoscere l’altro, incontrare un differente punto di vista. È un dinamismo che offre possibilità di crescita, di arricchimento, un’opportunità per uscire dalla bolla di un io solitario che, come Narciso, guarda solo a sé. È un esercizio di democrazia, in assenza del quale si rischia di affidare ad altri la linea da scegliere, come ricorda la Arendt, o in alternativa di restare caparbiamente ancorati al proprio modo di vedere le cose in una posizione sterile e irrazionale.

L’educazione al dialogo è l’antidoto alla dialettica esasperata dei talk show, dove la finalità non sta nella condivisione di diverse prospettive, ma nell’affermazione di sé, nel sovrastare l’altro.

“…il narcisismo cognitivo, che spinge l’individuo a preferire la sua verità piuttosto che a cercarne una in maniera collaborativa. L’individuo ha ormai trovato altre comunità di fiducia, strutturate per esempio intorno agli influencer: comunità affettive formate da coloro che la pensano come lui e provano le sue stesse cose” (M. Hunyadi, Credere nella fiducia, Vita e Pensiero, 2025, p. 115).

(…..)

 

“L’odierna crisi dell’agire comunicativo può essere ricondotta al metalivello per cui l’altro è in sparizione. La scomparsa dell’altro implica la fine del discorso perché sottrae all’opinione la razionalità comunicativa. L’espulsione dell’altro rafforza la costrizione auto-propagandistica a indottrinare sé stessi con le proprie idee. Questo auto-indottrinamento produce bolle informatiche autistiche, che rendono più complesso l’agire comunicativo. Se la costrizione all’auto-propaganda si accresce, gli spazi discorsivi vengono progressivamente sostituiti da echo-chambers, nelle quali sento parlare soprattutto me stesso” (Byung-Chul Han, Infocrazia, Einaudi, 2023, pp. 38-39)

(…)

 

La cura del pensiero non è un lusso intellettuale, qualcosa che riguardi gli specialisti o che si riferisca ad aspetti marginali della vita, quelli ascrivibili a persone che hanno interessi particolari per la cultura. È un’attenzione di tutti ed è un compito fondamentale della scuola.

Saper pensare è la condizione per un agire morale, umano, è esercizio di democrazia, lo ricorda ancora la Arendt in riferimento a Eichmann, uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei durante il nazismo: “Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente collegata a un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva (ipotesi che fino alla fine tenne in dubbio i giudici), ma perché le parole e la presenza degli altri, quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano” (H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 1993, p. 57).

https://www.ilsussidiario.net/news/scuola-realta-vs-narcisismo-algoritmi-come-seguire-la-arendt-e-liberarsi-di-eichmann/2836277/#:~:text=Direi%20innanzitutto%20la,della%20natura%20umana.


martedì 20 maggio 2025

Salone del libro Torino 2025: qualche suggerimento di lettura

 



SALONE DEL LIBRO DI TORINO 2025/ Quelle “perle” nascoste oltre la cortina fumogena dei soliti noti

A Salone del libro sono sfilati personaggi famosi, ma la letteratura vera arranca. Nonostante alcuni saggi, come quello di Scafoglio

Gianfranco Lauretano Pubblicato 20 Maggio 2025

 

Si sono chiusi ieri i battenti del Salone del Libro di Torino 2025, la seconda edizione diretta da Annalena Benini. Anche quest’anno i numeri sono imponenti e i risultati sono narrati dalla direzione con toni trionfalistici.

Alla conferenza stampa finale svolta all’Arena Bookstock, lo spazio più grande del Salone dedicato ai giovani e alle scuole (dai nidi alle secondarie di secondo grado), implementato in questa edizione, hanno partecipato, tra gli altri, Silvio Viale, presidente dell’Associazione Torino-Città del Libro, Claudia Porchietto, sottosegretario alla presidenza di Regione Piemonte, Annalena Benini, direttrice editoriale, Piero Crocenzi, amministratore delegato del Salone, raccontando di “231mila persone che hanno incontrato ospiti da tutto il mondo e case editrici in un’atmosfera di gioia e partecipazione, per tracciare parole nuove, sguardi sul mondo e per festeggiare l’appartenenza a una grande e variegata comunità di lettrici e lettori”, attraverso 977 spazi espositivi, 70 sale, oltre 2.500 eventi al Lingotto e 800 in città. Quantità da capogiro.

(…….)

Attivisti che hanno animato manifestazioni sfociate in scontri con la polizia cercando di sfondare con la forza i cancelli della fiera (si sa che i grandi eventi pubblici sono spazi ideali per far sentire la propria voce, come insegnava Che Guevara). Gli stessi attivisti hanno duramente contestato il dibattito tra il presidente della Comunità ebraica torinese Dario Disegni e lo storico Claudio Vercelli, spingendoli a rinunciare; altri hanno spiegato una bandiera palestinese di fronte alla sala dove si presentava il libro del Nathan Greppi (storico e giornalista che si è occupato di antisemitismo) La cultura dell’odio, titolo quanto mai azzeccato per questi strani pacifisti che intendono la democrazia come impedimento all’altro di esprimersi.

Essendo il Salone del Libro, però, forse occorrerebbe occuparsi del suo protagonista: il libro più venduto in Fiera in questi giorni è L’amore mio non muore di Roberto Saviano (Einaudi), che ha toccato un record di vendite, mentre tra i libri Mondadori molto ricercato è Spera, l’autobiografia di Papa Francesco, oltre ai romanzoni fantasy americani, i veri leoni dell’editoria, come ad esempio L’alba sulla mietitura.

Hunger Games di Suzanne Collins, tanto per dirne uno; la Rizzoli ha visto il successo di Maurizio De Giovanni e del suo thriller Il pappagallo muto, trainato naturalmente dalla serie Sara in onda su Netflix, la Piemme si gode i proventi di L’orso bianco era nero di Roberto Vecchioni, la Feltrinelli l’evento sold out di Antonio Albanese con il romanzo La strada giovane e Concita De Gregorio con Di madre in figlia.

È evidente che per trainare il libro e le sue vendite occorre ciò che libro non è, né letteratura: solo i volumi connessi con lo spettacolo, i social, la televisione, lo sport hanno qualche speranza di successo. Per vedere la letteratura vera e propria occorre arrivare ad Adelphi e al buon successo, anche se quantitativamente incommensurabile, di Portnoy di Philip Roth.

Il Salone ha saputo stare al passo con certi temi d’attualità, compreso quello più gettonato dell’intelligenza artificiale, a cui sono stati dedicati affollati incontri. Perciò alla fine di queste note e di cinque giornate passate a mollo del pianeta rombante, faticoso, fascinoso e caotico del Salone, ci sembra doveroso consigliare anche noi un libro, stavolta di un piccolo volenteroso editore, presentato al padiglione Oval sabato 17 maggio.

Si tratta di “Intelligenza criminale” di Giovanni Scafoglio (CartaCanta edizioni), che ha svolto un’indagine molto documentata: l’autore ritiene “che le IA generative siano una risorsa straordinaria” e che “non saperle usare oggi è come non saper scrivere nell’Ottocento”.

 

(……) https://www.ilsussidiario.net/news/salone-del-libro-di-torino-2025-quelle-perle-nascoste-oltre-la-cortina-fumogena-dei-soliti-noti/2835926/#:~:text=CULTURA-,SALONE%20DEL%20LIBRO%20DI%20TORINO%202025/%20Quelle%20%E2%80%9Cperle%E2%80%9D%20nascoste%20oltre%20la,in%20modo%20pi%C3%B9%20fecondo%20e%20meno%20commerciale%20le%20edizioni%20a%20venire.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

 

Il volume è corredato di esempi pratici di chat con l’IA che dimostrano, ad esempio, che essa mente e la spingono a confessare, o dal divertente racconto del prefatore, Renzo Casadei, il quale dice: “Ho impiegato dieci minuti per far assolvere a ChatGPT il Fascismo”. Forse queste perle, presentate nelle mille nicchie del Salone, sono la sua vera ricchezza a cui occorrerebbe guardare per organizzare in modo più fecondo e meno commerciale le edizioni a venire.


sabato 17 maggio 2025

Un gesto di popolo per i cristiani perseguitati


 

È cominciato tutto a Rimini, nel 2014. Il Comitato Nazarat da dieci anni, ogni 20 del mese, si riunisce nelle piazze di varie città italiane a pregare per i fratelli vessati a causa della loro fede. Con testimonianze e  incoraggiamenti preziosi. «Come quello arrivato, quella volta, da papa Francesco...»

 

15.05.2025

Marco Ferrini

Comitato Nazarat

Nell’estate 2014, poche settimane dopo la proclamazione del Califfato, l’Isis prende il controllo di un ampio territorio fra Siria e Iraq. Nella piana di Ninive, nella notte fra il 6 e il 7 agosto 125mila cristiani iracheni sono costretti ad abbandonare le loro terre e abitazioni dirigendosi verso il Kurdistan interno, mentre altri 110mila restano come rifugiati nella zona di Erbil. Le case delle famiglie cristiane vengono segnate dai miliziani islamici con la lettera nūn iniziale della parola Nazarat, cioè Nazareno. Con alcuni amici ci sentiamo interrogati da quella terribile situazione perché educati dal Movimento ad amare la realtà tutta, a far proprio il dramma dell’uomo, a esprimere un giudizio su quello che ci sta intorno. Così nasce l’iniziativa di porre un gesto di preghiera per tutti i cristiani perseguitati, inizialmente in Medio Oriente, poi allargato a tutti i perseguitati ovunque nel mondo e negli ultimi anni per la pace. Il 20 agosto 2014 a Rimini, nella piazza centrale della città, alcune centinaia di persone si riuniscono a recitare il rosario; si canta, si prega, si ascoltano testimonianze degli avvenimenti, si raccolgono denari per aiuti. All’aperto di fronte a tutti e non nel chiuso di luoghi di culto: “la Chiesa in uscita” come sollecitato da papa Francesco. Da allora in poi, ogni 20 del mese, l’iniziativa prosegue non solo a Rimini, ma allargandosi ad altre tredici città italiane e alcune estere, con il coinvolgimento di monasteri e clausure d’Italia e d’Europa.  Un “appello all’umano” - questo il sottotitolo dato alla preghiera - che cerca di recuperare, con l‘intercessione della Vergine Maria, le ragioni per una convivenza, appunto, umana in questo mondo percorso da divisioni etnico-religiose, violenze, guerre, oggi purtroppo ancora più gravi e apparentemente insanabili.

Una Chiesa senza martiri è una Chiesa senza Gesù. Loro con il loro martirio, la loro testimonianza, con la loro sofferenza, anche dando la vita seminano cristiani per il futuro

 Ma che c’entra Rimini con tutto questo? Rimini è una città a vocazione internazionale e con proiezioni anche verso Oriente; storicamente e geograficamente è un centro d’accoglienza e d’incontro; non potevamo non muoverci - nell’assistere alla tragedia delle popolazioni che parlano la lingua stessa di Gesù, l‘aramaico, e che vivevano in quelle terre da duemila anni, ben prima della nascita dell’Islam. Le persecuzioni contro i cristiani e contro altre minoranze religiose nell'ultimo decennio sono emerse, terribilmente, non solo nel Medio Oriente ma anche in altre zone dell’Asia e in Africa: pertanto il momento di preghiera in piazza ogni mese è servito a conoscere e a prendere coscienza di queste situazioni.

 «Una Chiesa senza martiri è una Chiesa senza Gesù. Loro con il loro martirio, la loro testimonianza, con la loro sofferenza, anche dando la vita seminano cristiani per il futuro». (Papa Francesco, Santa Marta 30 gennaio 2017). I martiri oggi sono in numero maggiore di quelli dei primi secoli e a molti di loro è riservata la stessa crudeltà patita dai cristiani dell’origine. Questa particolare e continua attenzione che la Chiesa rivolge ai martiri testimoni della fede in Gesù fino alla morte non ci ha lasciato indifferenti. È la condizione a cui noi tutti siamo chiamati: rendere ragione a noi stessi ed al mondo dell’incontro vivo e vero che abbiamo fatto con Gesù. Se Cristo è la risposta adeguata alla nostra domanda di felicità, di pienezza, di verità non possiamo non gridarlo al mondo. In questi anni abbiamo scoperto che la preghiera è veramente l’affermare la Signoria di Cristo su ognuno di noi ed è l’inizio innanzitutto del nostro cambiamento. I nostri fratelli perseguitati alla domanda «di che cosa avete più bisogno?” rispondono “della vostra preghiera”. Il vescovo siro-cattolico di Mosul, monsignor Yohanna Petros Mouche ebbe a dire: «Abbiamo conservato la nostra fede e non abbiamo appena salvato la nostra vita ma la fede che ci permette di vivere».

 Il potere, di qualunque natura sia, perseguiterà sempre. È la legge della storia. Come dice San Paolo: perseguitati, riviviamo, sempre schiacciati e sempre vivi

 Siamo grati alla Fraternità di Comunione e Liberazione che con un messaggio di Davide Prosperi per il decennale ci ha scritto: «Mi unisco alle vostre preghiere nella certezza che è proprio nella nostra unità anzitutto che possiamo dare gioiosa testimonianza al mondo della nostra appartenenza a Cristo, sostenendoci come fratelli e sorelle anche nella persecuzione». E citando don Giussani (Una rivoluzione di sé): «È attraverso me, te, ma attraverso me in quanto unito a te in nome Suo, cioè un quanto uniti a Lui, è attraverso noi, è attraverso la nostra unità, che la morte e la risurrezione di Cristo investono il mondo. Dobbiamo smarrirci o, come dire, stupirci perché ci perseguiteranno sempre?! Il potere, di qualunque natura sia, perseguiterà sempre. È la legge della storia. Come dice san Paolo: perseguitati, riviviamo, sempre schiacciati e sempre vivi».

(…) https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/nazarat-rimini-ferrini#:~:text=CHIESA-,Un%20gesto%20di%20popolo%20per%20i%20cristiani%20perseguitati,possa%20gustare%20il%20pane%20della%20comunione%20e%20la%20letizia%20de%20solidariet%C3%A0%C2%BB.,-CHIESA


domenica 11 maggio 2025

L'omelia di Leone XIV alla Missa Pro Ecclesia con i Cardinali nella Cappella Sistina

 



«Sparire, perché rimanga Cristo»

L'omelia di Leone XIV alla Missa Pro Ecclesia con i Cardinali nella Cappella Sistina

 

I will begin with a word in English, and the rest is in Italian.

 

But I want to repeat the words from the Responsorial Psalm: “I will sing a new song to the Lord, because he has done marvels.”

 

And indeed, not just with me but with all of us. My brother Cardinals, as we celebrate this morning, I invite you to recognize the marvels that the Lord has done, the blessings that the Lord continues to pour out on all of us through the Ministry of Peter.

 

You have called me to carry that cross, and to be blessed with that mission, and I know I can rely on each and every one of you to walk with me, as we continue as a Church, as a community of friends of Jesus, as believers to announce the Good News, to announce the Gospel.

 

Da qui, in italiano.

 

«Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Con queste parole Pietro, interrogato dal Maestro, assieme agli altri discepoli, circa la sua fede in Lui, esprime in sintesi il patrimonio che da duemila anni la Chiesa, attraverso la successione apostolica, custodisce, approfondisce e trasmette.

 

Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, cioè l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre.

 

In Lui Dio, per rendersi vicino e accessibile agli uomini, si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo (cfr Conc. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes, 22), fino ad apparire ai suoi, dopo la risurrezione, con il suo corpo glorioso. Ci ha mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla promessa di un destino eterno che invece supera ogni nostro limite e capacità.

 

Chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al Primo degli Apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, col suo aiuto, ne sia fedele amministratore a favore di tutto il Corpo mistico della Chiesa

 

Pietro, nella sua risposta, coglie tutte e due queste cose: il dono di Dio e il cammino da percorrere per lasciarsene trasformare, dimensioni inscindibili della salvezza, affidate alla Chiesa perché le annunci per il bene del genere umano. Affidate a noi, da Lui scelti prima che ci formassimo nel grembo materno (cfr Ger 1,5), rigenerati nell’acqua del Battesimo e, al di là dei nostri limiti e senza nostro merito, condotti qui e di qui inviati, perché il Vangelo sia annunciato ad ogni creatura (cfr Mc 16,15).

 

In particolare poi Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al Primo degli Apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, col suo aiuto, ne sia fedele amministratore (cfr 1Cor 4,2) a favore di tutto il Corpo mistico della Chiesa; così che Essa sia sempre più città posta sul monte (cfr Ap 21,10), arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo. E ciò non tanto grazie alla magnificenza delle sue strutture e per la grandiosità delle sue costruzioni – come i monumenti in cui ci troviamo –, quanto attraverso la santità dei suoi membri, di quel «popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,9).

 

Tuttavia, a monte della conversazione in cui Pietro fa la sua professione di fede, c’è anche un’altra domanda: «La gente – chiede Gesù –, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Non è una questione banale, anzi riguarda un aspetto importante del nostro ministero: la realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni.

 

«La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Pensando alla scena su cui stiamo riflettendo, potremmo trovare a questa domanda due possibili risposte, che delineano altrettanti atteggiamenti.

 

C’è prima di tutto la risposta del mondo. Matteo sottolinea che la conversazione fra Gesù e i suoi circa la sua identità avviene nella bellissima cittadina di Cesarea di Filippo, ricca di palazzi lussuosi, incastonata in uno scenario naturale incantevole, alle falde dell’Hermon, ma anche sede di circoli di potere crudeli e teatro di tradimenti e di infedeltà. Questa immagine ci parla di un mondo che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire. E così, quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama, questo “mondo” non esiterà a respingerlo e a eliminarlo.

 

C’è poi l’altra possibile risposta alla domanda di Gesù: quella della gente comune. Per loro il Nazareno non è un “ciarlatano”: è un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele. Per questo lo seguono, almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti. Però lo considerano solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi.

 

Colpisce, di questi due atteggiamenti, la loro attualità. Essi incarnano infatti idee che potremmo ritrovare facilmente – magari espresse con un linguaggio diverso, ma identiche nella sostanza – sulla bocca di molti uomini e donne del nostro tempo.

 

Anche oggi non sono pochi i contesti in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere.

 

Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito. Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco.

 

Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto.

 

Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Cristo Salvatore

 

Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Cristo Salvatore. Perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

 

È essenziale farlo prima di tutto nel nostro rapporto personale con Lui, nell’impegno di un quotidiano cammino di conversione. Ma poi anche, come Chiesa, vivendo insieme la nostra appartenenza al Signore e portandone a tutti la Buona Notizia (cfr Conc. Vat. II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 1).

 

Dico questo prima di tutto per me, come Successore di Pietro, mentre inizio questa mia missione di Vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamata a presiedere nella carità la Chiesa universale, secondo la celebre espressione di Sant’Ignazio di Antiochia (cfr Lettera ai Romani, Saluto). Egli, condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: «Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1). Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo – e così avvenne –, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo.

 

Dio mi dia questa grazia, oggi e sempre, con l’aiuto della tenerissima intercessione di Maria Madre della Chiesa.


venerdì 9 maggio 2025

PAPA LEONE XIV: la chiarezza del dogma, l'anima del pastore

 


PAPA LEONE XIV/ La chiarezza del dogma, l’anima del pastore

Papa Leone XIV ha inaugurato non solo un pontificato, ma una nuova stagione nella vita della Chiesa. E si intuisce il suo programma

Federico Pichetto Pubblicato 9 Maggio 2025

 

“La pace sia con tutti voi!”. Con queste parole, le prime del Risorto ai discepoli, le stesse scelte da lui, Papa Leone XIV ha inaugurato non solo un pontificato, ma una nuova stagione nella vita della Chiesa. Una stagione che si annuncia fin da ora come l’incontro fecondo tra la tenerezza pastorale di Francesco e la profondità dottrinale di Benedetto XVI. Missionario in America Latina, teologo canonista, uomo di frontiera e uomo di Regola, Robert Francis Prevost ha scelto un nome che non è neutro.

 

Non Giovanni Paolo. Non Francesco II. Ma Leone: il nome di chi ha custodito l’unità della fede nella tempesta del V secolo, Leone Magno, il papa del Tomo a Flaviano, il vescovo che difese l’umanità e la divinità di Cristo nella chiarezza del dogma, senza mai perdere l’anima del pastore.

 

È in questo solco che Leone XIV sembra volersi muovere: una Chiesa che non contrappone dottrina e misericordia, ma le riunifica come corpo e respiro. Nel suo primo discorso dalla loggia delle benedizioni, le sue parole sono state semplici, ma essenziali: “Il mondo ha bisogno della luce di Cristo. L’umanità necessita di Lui come il ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore. Aiutateci anche voi a costruire i ponti, con il dialogo, con l’incontro… unendo per essere un solo popolo, sempre in pace”.

 

“Ponte” è la parola chiave. Non nel senso vago del buonismo, ma ponte come ciò che unisce rive diverse mantenendole integre. E la prima riva da riunire, per Leone XIV, è quella tra Roma e l’Oriente cristiano. Il prossimo 23 maggio 2025 la Chiesa celebrerà i 1700 anni dal Concilio di Nicea (325), il primo concilio ecumenico riconosciuto da tutte le Chiese, il luogo della fede comune prima della frattura del 1054. Nicea definì la divinità del Figlio, la consustanzialità con il Padre. Nicea è linguaggio condiviso, origine visibile della nostra comunione.

 

La grande intuizione di Leone XIV sarà ripartire proprio da lì: dal simbolo che unisce, dal dogma che non divide. Un’unità che non è uniformità, ma verità condivisa. La stessa che Benedetto XVI, da teologo e poi da papa, ha sempre cercato come strada della ragione aperta alla fede.

 

Il nuovo Papa non rinnegherà le aperture pastorali di Francesco, soprattutto verso i migranti, i poveri, le famiglie ferite, le periferie esistenziali. Ma cercherà di offrire una cornice più definita, più stabile, più chiara. Non per tornare indietro, ma per riscoprire che la misericordia senza la verità si dissolve, e la verità senza la misericordia si irrigidisce.

(….) https://www.ilsussidiario.net/news/papa-leone-xiv-la-chiarezza-del-dogma-lanima-del-pastore/2832160/#:~:text=CHIESA-,PAPA%20LEONE%20XIV/%20La%20chiarezza%20del%20dogma%2C%20l%E2%80%99anima%20del%20pastore,partire%20da%20Nicea.%20A%20partire%20da%20Cristo.%20A%20partire%20dalla%20pace,-.


domenica 4 maggio 2025

"Mi ami tu più di costoro?": la vera domanda del Conclave


 

“Mi ami più di costoro?”

I media alimentano retroscena e tatticismi e non aiutano a capire. Il cuore del conclave è in una domanda, che non lascia scampo, di Gesù a Pietro

Simone Riva Pubblicato 4 Maggio 2025

 

E se fosse azzardato partire dalle analisi? Se fosse fuorviante affidarsi ai pronostici? Se distraesse immaginare doppioni o strappi? Il Vangelo di questa domenica ci aiuta a tagliare corto con le innumerevoli parole inutili di questi giorni. I cardinali, da mercoledì, si chiuderanno nella Sistina per eleggere il successore di Pietro, prima ancora che di uno dei papi della storia. E l’unica caratteristica che Gesù verifica in Pietro, prima di affidargli la cura del suo gregge, riguarda l’amore.

Converrà riascoltare quelle parole drammatiche: “Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: ‘Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?’.

Gli rispose: ‘Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene’. Gli disse: ‘Pasci i miei agnelli’. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: ‘Simone, figlio di Giovanni, mi ami?’. Gli rispose: ‘Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene’. Gli disse: ‘Pascola le mie pecore’. Gli disse per la terza volta: ‘Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?’.

Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: ‘Mi vuoi bene?’, e gli disse: ‘Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene’. Gli rispose Gesù: ‘Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi’. Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: ‘Seguimi’” (Gv 21, 15-19).

Non stupisce che il mondo non capisca, che i mass media si accaniscano rubando appena possibile qualsiasi dichiarazione dei cardinali all’ingresso o all’uscita delle congregazioni, che la mentalità di tanti si accontenti della reazione e dell’emotività e che si tenti di appiccicare alla Chiesa le categorie della politica.

Apre qualche domanda, invece, il fatto che questo modo di pensare, e di vivere l’attesa del nuovo Papa, sia di fatto anche quello di molti cristiani, tra i quali si distinguono illustri e televisivamente ben piazzati sacerdoti. Quando la sfida non è più alla persona, quando la risposta non è più la nostra, allora inizia il tempo delle analisi e delle opinioni che, come sempre, lasciano ciascuno esattamente nella posizione in cui si trova.

Papa Francesco l’aveva ricordato proprio ai cardinali il 22 febbraio 2014: “Quando si pensa in modo mondano, qual è la conseguenza? Dice il Vangelo: ‘Gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni’ (Mc 10, 41). Si sdegnarono. Se prevale la mentalità del mondo, subentrano le rivalità, le invidie, le fazioni…”. È inevitabile che inizi il tifo da stadio, che ci si fermi ai dettagli dell’apparenza, che si tratti il Conclave – esperienza realmente unica al mondo – come se fosse una corrida. E noi? Fermi al nostro posto, immersi nei nostri commenti, trincerati dietro ai nostri post sui social o agli slogan da bar.

Per questo Gesù chiama in disparte Pietro e gli rivolge la domanda più terribile della storia: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Il Signore non indaga le opinioni dell’apostolo per verificare che siano adeguate all’epoca che stavano vivendo. Non lo sottopone a una prova di fedeltà per accertarsi che non avrebbe più ceduto. Nemmeno si preoccupa di quello che gli altri pensavano di Pietro, della sua età, del suo carattere, del suo passato. Quello di Cristo è un radicale atto di preferenza mosso solo dall’amore per quell’uomo che arrivava sempre per ultimo e che, perciò, ha ritenuto adatto a essere il primo.

 

Chissà che non si tratti anche adesso della stessa mossa del Mistero. Prima ancora di elencare tutte le sfide della Chiesa soffermandosi su ciò che manca, prima ancora di capire cosa è bene che continui e cosa è opportuno che sia corretto, prima di chiedere alla gente che Papa vorrebbe, occorre lasciare il protagonismo a quella identica e drammatica domanda di Cristo, che non lascia scampo a nessuno: “Mi ami più di costoro?”.

(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/5/4/mi-ami-piu-di-costoro/2830071/#:~:text=CHIESA-,%E2%80%9CMi%20ami%20pi%C3%B9%20di%20costoro%3F%E2%80%9D,ilsussidiario.net,-Checco%20Zalone%20dopo


giovedì 1 maggio 2025

San Giuseppe, il lavoro costruisce l’anima

 



San Giuseppe, il lavoro costruisce l’anima

Giuseppe era falegname, ma imparò da Maria una cura per il lavoro altrimenti sconosciuta. Il lavoro ci aiuta a scoprire l’utilità del vivere

Simone Riva Pubblicato 1 Maggio 2025

 

La giornata iniziava molto presto. Giuseppe usciva di casa, senza fare rumore, alle prime luci dell’alba, quando il caldo non mostrava ancora tutta la sua irruenza, per raggiungere la bottega. Analizzando il termine che usano gli evangelisti per descrivere il suo lavoro, “carpentiere”, possiamo ipotizzare che facesse parte di un gruppo di operai dediti alle costruzioni commerciali, ben retribuiti e con la possibilità di mantenere la famiglia.

Di giorno si dedicava al lavoro che gli veniva chiesto, mentre alla sera, quando la stanchezza glielo consentiva, si dilettava nel creare qualcosa di nuovo, di diverso dal solito, di più bello del solito. Aveva iniziato a dedicare del tempo all’inventiva, e non solo all’esecuzione, guardando il modo con cui Maria faceva le solite cose di tutti i giorni.

Erano sempre le solite cose, le noiose cose di ogni casa, eppure le faceva come se ogni giorno fosse la prima volta. Per esempio al mattino, quando lui si alzava, Maria era già al lavoro da tempo per preparare il pranzo che lui avrebbe portato con sé per affrontare la giornata. Non passava giorno che i suoi amici non si accorgessero della bellezza e del profumo del suo pasto. E lui, stupito, non poteva abituarsi a quella cura di sua moglie, tanto che, nel tempo, divenne anche la sua cura nel fare tutte le cose.

Imparò a lavorare gustando il suo pasto ogni giorno. Come scrive Jan Dobraczyński nel suo romanzo L’ombra del Padre: “Il lavoro delle sue mani era preghiera. Ogni colpo d’ascia, ogni truciolo che cadeva, era offerto in silenzio. Così Giuseppe costruiva non solo mobili, ma anche la sua anima”.

Già, perché se il lavoro non ci aiuta a costruire l’anima, a scoprire l’utilità del vivere, a rivelare il motivo del nostro esistere, diventerà il disperato tentativo di affermare noi stessi e i nostri diritti, corrompendo persino lo strumento che il Creatore ha messo nelle nostre mani per collaborare alla Sua opera, corresponsabili della creazione.

Don Giussani, spiazzando come sempre, in Si può vivere così? spiega il termine “corresponsabilità”, spesso sbandierato di qua e di là, in modo commovente: “Corresponsabilità, responsabilità cosciente, risposta cosciente alla morte di Cristo: ‘Tu, Cristo, muori per me. Io aderisco a te nel tuo morire’. Come? Attraverso i sacrifici che mi fa fare. ‘La mia vita accetta i sacrifici che mi fai compiere come adesione alla tua morte’. Per questo si chiama anche offerta: offerta a Cristo del proprio vivere, come partecipazione alla sua morte. Allora, anche il mio sacrificio di alzarmi al mattino, di tollerare mio padre, mia madre, mia moglie, mio marito, i figli… anche quello, diventa bene”.

La bottega di Giuseppe vedrà presto il giovane figlio imparare il mestiere del padre. Quel ragazzo, che aveva addosso una misteriosità indecifrabile, deve imparare come tutti, vuole imparare come tutti. Una vita famigliare con il legno, dalla mangiatoia alla croce, passando attraverso l’arte di saperlo lavorare. Il Figlio di Dio, non a caso, ha voluto essere riconosciuto come il figlio del carpentiere: “Non è egli forse il figlio del carpentiere?” (Mt 13, 55).

(…) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/5/1/san-giuseppe-il-lavoro-costruisce-lanima/2829233/#:~:text=LAVORO-,San%20Giuseppe%2C%20il%20lavoro%20costruisce%20l%E2%80%99anima,attimo%2C%20il%20tocco%20delle%20nostre%20mani.%20Torniamo%20a%20guardarle%20con%20stupore.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94