17 Maggio 2025
Ho sperimentato l’odio e il perdono
Luis Vanella, nato a Córdoba (Argentina). Da anni vive in
Italia, in provincia di Bergamo. È sposato da 46 anni e ha 4 figli.
Un gruppo di volontari italiani in visita fraterna in
Ucraina. Uno dei partecipanti ci racconta quello che ha visto, le riflessioni
che l’esperienza gli ha provocato. E offre la sua personale esperienza di
rifugiato politico come dono di pace.
A marzo è stato in Ucraina con il Movimento Europeo di
Azione Nonviolenta (MEAN): quali erano il motivo e l’obiettivo del vostro
viaggio?
Siamo stati invitati da monsignor Visvaldas Kulbokas, nunzio
apostolico in Ucraina, dopo che ci eravamo conosciuti nel luglio 2024 a una
preghiera ecumenica per la pace e da quell’incontro era nata un’amicizia. Mi ha
colpito molto quello che ci ha detto: «Non importa se non siete tanti, potete
venire anche solo in 10; a me interessa che siate miei amici, perché siete tra
i pochissimi con i quali riesco a parlare e farmi capire», intendendo una
comprensione profonda, che va al di là delle barriere linguistiche.
Abbiamo pensato insieme come concretizzare questo desiderio,
per non rischiare di imporre noi dall’esterno le nostre soluzioni come se la
gente locale non sapesse cosa vuole e di cosa ha bisogno: non c’è cosa più
inutile che rispondere a una richiesta che non è mai stata fatta. Così è nata
l’idea di organizzare un grande evento religioso per il Giubileo, centrato
proprio sull’essere portatori di speranza, coinvolgendo la società civile a più
livelli: dall’ambiente universitario e accademico, a quello artistico,
sportivo, religioso e, se riusciremo, anche imprenditoriale.
Tutto questo si inserisce perfettamente negli obiettivi del
MEAN, un progetto condiviso da associazioni di diversa natura, che mira a
promuovere la «diplomazia tra i popoli» come nuova via verso la pace. Dobbiamo
riconoscere che gli strumenti usati fino ad oggi per risolvere le
incomprensioni internazionali non sono bastati: la forza del diritto non ha
funzionato e nemmeno il diritto alla forza, cioè la violenza, che non fa altro
che approfondire i problemi già esistenti.
La strada perseguita da questi corpi civili di pace europei
è quella dell’ascolto dei bisogni concreti di un popolo attraverso l’incontro
innanzitutto con i civili e, se possibile, anche con il livello istituzionale.
Il punto infatti è che la pace non si fa solo parlando di pace, ma la si fa
costruendo. Una frase che è stata a lungo il motto dell’AVSI diceva:
«Condividere i bisogni per condividere la vita»: è proprio così che si può
essere veramente portatori di pace.
Poi c’è un aspetto successivo del nostro lavoro, ovvero la
giustizia riparativa, cercare cioè di riavvicinare (ovviamente se lo
desiderano) la vittima e il colpevole, che magari si è pentito di ciò che ha
fatto. Quante volte noi ci pentiamo delle stupidaggini e delle cattiverie che
facciamo, è un’esperienza che ho fatto personalmente.
Com’è stato trovarsi faccia a faccia con la distruzione e
il dolore che ci sono oggi in Ucraina?
È stato toccante vedere come molti si emozionavano anche
solo a vederci, prima ancora di sapere il motivo della nostra visita: già il
fatto che fossimo andati lì, dove nessuno vuole andare perché sparano e
bombardano, è stato percepito come un gesto di solidarietà enorme,
sconvolgente. È attraverso questo incontro che noi corpi civili vogliamo
portare la pace.
Poi mi ha colpito molto la cura per l’ordine e la bellezza
che gli ucraini dimostrano anche in mezzo alla distruzione: mentre eravamo lì
alcuni edifici sono stati colpiti, ma le macerie non rimanevano a lungo perché
subito la gente si attivava per sgomberare, riparare, ricostruire. Questa è
speranza: l’università che prepara i suoi allievi per il giorno in cui la
guerra finirà, una enorme cattedrale greco-cattolica piena di vestiti,
medicine, sussidi. È un popolo veramente in azione e la sua forza mi ha colpito
tantissimo. Viaggiando in treno abbiamo incontrato un soldato in congedo, prima
muratore, che ha un figlio autistico e quindi avrebbe potuto essere esonerato
dal servizio militare. Invece lui, a 50 anni, ha deciso di andare comunque a
combattere, «perché – ci ha detto – io sono già vecchio ma i giovani non devono
morire in questa guerra. Se no come può esserci un domani?». Nonostante sia
consapevole del prezzo che può pagare per questa scelta, ha deciso di farlo per
i suoi figli e per il domani.
Questo pensiero costante al domani, la speranza sempre
presente, mi ha molto colpito. Non sto idealizzando, perché nessuno è perfetto,
né ucraini, né americani, né russi, né cinesi, però esiste davvero la tensione
alla bellezza e la predisposizione alla dignità, e gli ucraini ce l’hanno.
Lei nella sua vita ha sperimentato personalmente la
conversione dalla violenza al pentimento: come è avvenuto questo cambiamento di
prospettiva?
Io sono nato in Argentina in una famiglia cattolica, ma già
dai 13 anni il cristianesimo non mi era più sufficiente come risposta a una
realtà che era molto violenta, fatta di continui colpi di Stato e dittature. A
quell’età, non trovando altre vie d’uscita, la cosa più giusta per me era
unirmi a chi con le armi si opponeva a queste dittature. Così fino ai 18 anni
ho fatto parte di un’organizzazione guerrigliera, arrivando a rendermi conto
che non solamente gli altri sono cattivi, ma tu stesso lo diventi.
Quando entri nella logica della violenza non ne può nascere
niente di buono: l’unica cosa che può nascere dalla violenza è ulteriore
violenza, ulteriore odio, e la storia continua all’infinito. I miei compagni
sono stati quasi tutti uccisi e, per moltissimi anni, anche dopo aver lasciato
l’Argentina, perdonare per me significava tradire i miei ideali e le persone
care che erano morte.
La mia fortuna è stata incontrare mia moglie e i miei
suoceri, gente di una semplicità incredibile ma veramente cristiana, senza
doppiezze. Io allora ero rifugiato politico in Francia, pulivo i pavimenti e
non avevo niente se non uno zaino: loro non si sono fermati ai miei errori ma
mi hanno voluto bene davvero e mi hanno mostrato cos’è la bellezza. Quindi
bisogna sempre fare attenzione a condannare subito una persona per ciò che fa,
anche se ha sbagliato, perché magari dietro all’errore c’è un essere umano che
sta male. Non significa giustificare gli sbagli, è bene che si faccia giustizia
in ogni ambito e paese, dico semplicemente che bisogna sempre amare l’altro.
L’amore che i miei suoceri mi hanno donato ancora mi
commuove perché, quando conosci veramente l’amore, che è molto più del
rispetto, è il donarsi totalmente per te e l’augurarti il vero bene, capisci
che è qualcosa di incredibilmente profondo e che al tempo stesso raggiunge
l’infinito.
Dopo quell’incontro, il suo processo di conversione è
stato graduale oppure ci sono stati dei momenti precisi che hanno segnato una
svolta decisiva?
Ricordo un momento nella mia vita che è stato uno
spartiacque. Era il 1990 e dopo aver tentato più volte di riprendere la mia
battaglia politica in Argentina, senza successo e rischiando anche la vita,
avevo deciso di rientrare in Italia, dato che la situazione stava diventando
troppo pericolosa soprattutto per i miei bambini e mia moglie. Ero esausto,
convinto che sbagliavo sempre qualcosa e stanco dei miei fallimenti. Stavo
male, non volevo più vivere. Quando la forza è tutta tua, prima o poi ti scoppia
il fegato, non ce la fai; quando la tua forza è solo la tua volontà, prima o
poi vuoi farla finita, perché la capacità di sopportare il dolore si esaurisce.
La tua capacità di sopportare le sconfitte può essere enorme, ma arriva a un
punto in cui se non hai qualcos’altro che ti sostiene, la tua energia si
consuma e sei finito.
In quel periodo, sono andato con mia moglie in Francia, da
mio fratello. Eravamo in spiaggia e nel silenzio mi domandavo cosa fare della
mia vita, se ricominciare da capo. Improvvisamente ho sentito dentro di me una
voce che diceva: «Ce la farai, ma non devi odiare. Ce la farai, ma non devi
cercare vendetta». Ho pensato di essere impazzito, malato. Sulla via del
ritorno, mentre percorrevamo l’autostrada che passa nei pressi di Lourdes, ho
sentito un forte richiamo, un’attrazione simile a quella che mi chiama oggi ad
andare in Ucraina. Ho proposto a mia moglie di fermarci: arrivati a Lourdes, mi
sembrava di camminare su qualcosa di morbido che non era asfalto, non sentivo
il pavimento: temevo sempre più di essere impazzito. Ci siamo inginocchiati e
io già percepivo fisicamente una presenza in modo talmente forte da non poterla
negare. Ma, testardo come sono, ho chiesto: «Se esisti, se veramente esisti,
dammi una prova, e io crederò per sempre».
La prova era incontrare mio fratello proprio lì a Lourdes,
cosa quasi impossibile visto l’affollamento e soprattutto visto che lui era
totalmente estraneo a quei luoghi e pensavo che non si sarebbe mai fermato lì
in vita sua. Ma nell’uscire l’abbiamo incontrato veramente, con sua moglie e i
miei nipotini: da quel momento per me non c’è stato più nulla da discutere. Non
era solo una storiella, una favola inventata dagli esseri umani per dominare la
popolazione incolta, come avevo pensato per tanto tempo: questa presenza mi si
è mostrata, e non posso più tornare indietro.
Avevo vissuto moltissimi anni convinto che la religione
fosse uno strumento di potere – e in alcuni casi di fatto lo è – ma la fede è
un’altra cosa. La presenza di Dio, riconoscere di essere fatti costantemente da
Dio è un’altra cosa. Da lì è cominciato il mio vero incontro. Anche se la
voglia di vendetta non mi è passata subito.
Come ha affrontato poi l’odio e desiderio di vendetta?
Diceva che all’inizio vedeva il perdono come un tradimento, ma alla fine ci è
arrivato a perdonare?
Non ci sono arrivato per una mia ricerca. Ho avuto una vera
grazia – adesso me ne rendo conto – sono stato fortunato, graziato. La parte
più difficile della vita di chi desidera la vendetta è l’odio che ti fa vivere
tutto male. Puoi avere una moglie, dei figli che ti vogliono bene ma non ne hai
consapevolezza, non riconosci la profondità e il valore che questo ha per te.
C’è qualcosa di molto sottile che ti sfugge nell’amicizia, nel rapporto con i
tuoi genitori, in tutto, perché tutto gira intorno all’odio.
C’è una frase molto bella di Jorge Luis Borges, che dice:
«No nos une el amor, sino el espanto» (Non siamo uniti dall’amore, ma dalla
paura), cioè la paura mischiata con l’odio, con il ribrezzo: questo fa vivere
tutto male sia a te che a chi ti sta intorno. Io ho iniziato a vedere più in
profondità da grande, quando ero stanco di odiare e non riuscivo più a vivere
con questo peso dentro di me. Io non auguro a nessuno la disperazione, ma per
me è stata un bene, è stata come la spina nel fianco di cui parla san Paolo:
c’è sempre un momento nella vita di tutti in cui ti guardi
allo specchio e ti rendi conto che da solo non ce la puoi fare, anche se sei un
uomo d’azione, uno che non si tira mai indietro, o una donna forte, in verità
tu non sei proprio nulla, sei solo un mendicante, in ginocchio, che chiede che
qualcuno ti aiuti sul serio.
E lì ho sentito di essere amato veramente da Gesù. È stato
un click, non un processo logico, un ragionamento, è stata un’esperienza a
cambiarmi, quella di riconoscermi amato da Lui. Questo a me è capitato con
Cristo ed è il cammino che mi ha portato a riconoscere che anche l’altro è un
poveraccio come me e che anche lui è amato da Gesù.
Pensa che questa sua esperienza di violenza e di
superamento dell’odio legati alla dittatura possa servire anche agli ucraini
oggi, soprattutto a coloro che piangono le vittime della guerra? Oppure
trattandosi di un’aggressione esterna è una situazione troppo diversa?
Io credo che possa servire, pur in un contesto geopolitico
molto diverso, perché la violenza è sempre violenza, la persecuzione sempre
persecuzione. Qualcuno sarà aiutato dall’esperienza che racconto, altri
penseranno che io sia un traditore, che avrei dovuto continuare a combattere e
vendicarmi.
Anche molti argentini ancora non capiscono come io, che ho
sofferto in prima persona l’uccisione dei miei cari, possa ora dire che bisogna
perdonare perché altrimenti non possiamo vivere. Per tanti di loro, bravissime
persone a cui voglio bene, sono una specie di traditore. Questo però non
significa che si debba dire a chi sta difendendo il proprio paese che deve
perdonare, perché sarebbe una forzatura. Se uno fosse venuto da me quando avevo
18, 30, 40, e pure 50 anni, a dirmi che dovevo perdonare, l’avrei cacciato via
a pedate.
Allo stesso modo non si può dire agli ucraini oggi che
devono perdonare mentre sono in piena battaglia, sta suonando l’allarme
antiaereo e muoiono i loro cari. Quello che dobbiamo fare è essere portatori di
pace.
Io non ho seguito il consiglio di qualcun altro, ho seguito
un incontro, un fatto concreto. Preoccupiamoci di essere portavoce di questo
fatto concreto, portatori di Gesù, chiediamo a Lui che ci usi come intermediari
per arrivare fino a loro.
Secondo lei alla fine della guerra come si potrà stare di
fronte all’ingiustizia che la Russia ha commesso, sia da parte degli ucraini
che saranno accesi dal desiderio di vendetta di cui abbiamo parlato, sia da
parte dei russi che dovranno rendersi conto del male che hanno fatto? Se la
pace si fa in due, come si potrà arrivare davvero alla pace tra i due popoli?
Potrebbe essere che i russi non se ne renderanno mai conto.
La pace non si fa in due: per non disturbarsi e non
aggredirsi più occorre mettersi d’accordo in due. Ma la pace, quella del cuore,
non la si fa in due, la puoi fare tu.
È come quando discuti con tuo marito, con la fidanzata, con
tua madre: se continui a rispondere e a urlare contro l’altro, finisce in una
bomba atomica. Tu lavori molto più per la pace tra due persone se dici «ok, sto
zitto» mentre l’altro magari continua a saltarti addosso e a dirti cose
ingiuste, sciocchezze una dietro l’altra, ma tu hai capito che sta sbagliando.
E così la pace la fai tu, la vivi tu, la pace è la libertà,
e la libertà della pace è tua, non è dell’altro. Non c’è bisogno di
reciprocità: quante volte si aspetta una mossa dall’altro e si battibecca per
niente? Se tu cerchi la reciprocità nella pace, vai dritto alla guerra.
(…) https://lanuovaeuropa.org/testimoni/2025/05/17/ho-sperimentato-lodio-e-il-perdono/#:~:text=17%20Maggio%202025,ha%204%20figli.