SCUOLA. Il suggerimento di Arendt (1906-1975)
In un mondo narcisista e algoritmico, in cui il sapere è
l’insieme delle nozioni, la conoscenza nasce dalle ferite. Il compito della
scuola
Nora Terzoli Pubblicato 21 Maggio 2025
La crisi della complessità, di cui si parla da tempo,
interessa tutte le istituzioni, scuola compresa. Numerose sono le sfide che
porta con sé: cambiamenti sempre più rapidi, fragilità delle nuove generazioni,
ma anche del mondo adulto, difficoltà a costruire un rapporto significativo tra
le generazioni, affermazione e ruolo dell’intelligenza artificiale (AI).
La scuola, pur all’interno dell’attuale complessità e con le
sue criticità, resta comunque nella società, fosse solo per la sua finalità
istituzionale, un luogo di presidio dell’umanità. Quali azioni e quali
attenzioni possono fare da bussola, per assolvere questo compito?
Direi innanzitutto la cura per la crescita della persona e
quindi per l’avventura della conoscenza, espressione del dinamismo di un io
che, interpellato dalla presenza della realtà, esce da sé, dai confini del suo
solitario narcisismo, per andare incontro al dato della realtà che sospinge
sempre oltre, in quella passione inquieta espressione propria della natura
umana.
Quali le condizioni, le caratteristiche di questo dinamismo?
Lo ricorda Hannah Arendt in risposta a una delle lettere a
Martin Heidegger (H. Arendt, M. Heidegger, Lettere 1925-1975,
Edizioni di Comunità, 1998), in cui il filosofo le chiedeva a che cosa
stesse lavorando: “Ora sto lavorando al testo sulle origini del totalitarismo
ma, per parlarne, voglio partire dal personale, dal mio vissuto, poiché prima
si viene feriti, poi si inizia a pensare”. Si tratta di un’affermazione molto
originale e certamente singolare, non facilmente rintracciabile nel sentire
comune del nostro tempo.
La ferita che apre al pensiero, a cui fa riferimento la
Arendt, si esplicita nella domanda incessante, nel contraccolpo che la vita, la
realtà pone alla persona che ne accetta la sfida. Nell’avventura della
conoscenza, di cui la scuola è chiamata a farsi tramite, solo l’apertura al
reale garantisce la genesi del pensiero.
Le discipline sono il tramite di questo incontro e il
docente è l’adulto testimone di questa possibilità.
Lo ricorda ancora la Arendt nella prosecuzione della stessa
lettera: “Decisiva è la differenza tra sapere e sapere con tutta l’anima, cioè
tra sapere come accumulo di conoscenze e di nozioni e quella forma di
comprensione o di conoscenza che va alla ricerca del senso”.
Nell’attuale contesto culturale l’espressione “sapere con
tutta l’anima” suona inusuale e potrebbe essere interpretata come una
concessione al sentimentalismo. In realtà si tratta di non ridurre la
conoscenza all’astratto dell’accumulo di informazioni, di non perdere mai di
vista la dimensione del senso.
Molta della noia degli studenti, la disaffezione allo
studio, la demotivazione sono causate dalla difficoltà della scuola a
salvaguardare questa dimensione essenziale della conoscenza, senza la quale
restano solo un sapere astratto e un accumulo di informazioni destinati a
svanire in breve tempo e a non lasciare alcun segno nella maturazione della
persona.
Nell’era del digitale e dell’AI diventa irrinunciabile
comprendere che la conoscenza è un processo non identificabile con l’accumulo
di informazioni. L’algoritmo è per sua natura un fenomeno quantitativo, mentre
la conoscenza, se così si potesse dire, è un fenomeno qualitativo e singolare.
“Bisogna rendersi conto che le macchine, il funzionamento
algoritmico, non danno conto della complessità del mondo, poiché mancano
dell’attrito che sta alla base della relazione del vivente con ciò che resiste
del mondo” (M. Benasayag, ChatGPT non pensa (e il cervello neppure), Jaca Book,
2024, p. 43). Il narcisismo, che segna profondamente la concezione dell’io
nella nostra società, non solo nega che sia possibile interrogarsi sulla
verità, ma cerca di evitare anche l’impatto con la realtà.
Resta dunque essenziale il compito della scuola nella genesi
di una conoscenza che restituisca la complessità del reale attraverso l’attrito
con il mondo.
(….)
La Arendt, diversi anni fa, ricordava atteggiamento e
attenzioni da avere verso la tecnologia e le sue parole non hanno certo perso
di attualità. Rispondendo all’amica Mary in una lettera scriveva: “Ma, mi
chiedo, accanto alla tecnologia, cresce anche il pensiero? Gli uomini e le
donne sanno, come al tempo dei greci, pensare insieme? Vi è un luogo, un’Agorà,
per questo? O si tende a delegare agli specialisti della politica la linea da
scegliere?” (H. Arendt, M. McCarthy, Tra amiche. La corrispondenza tra
Hannah Arendt e Mary McCarthy. 1949-1975, Sellerio, 1999).
Nelle nostre scuole si pensa-insieme? Sono un’agorà in cui
si ha cura per la generazione del pensiero e di un pensiero comune che cresca
attraverso il dialogo? Si ha stima per un pensiero capace di uscire dal
narcisismo individualista, prendendo in considerazione il contributo
dell’altro?
Il dialogo è per sua natura un luogo d’incontro, dove è
possibile conoscere l’altro, incontrare un differente punto di vista. È un
dinamismo che offre possibilità di crescita, di arricchimento, un’opportunità
per uscire dalla bolla di un io solitario che, come Narciso, guarda solo a sé.
È un esercizio di democrazia, in assenza del quale si rischia di affidare ad
altri la linea da scegliere, come ricorda la Arendt, o in alternativa di
restare caparbiamente ancorati al proprio modo di vedere le cose in una posizione
sterile e irrazionale.
L’educazione al dialogo è l’antidoto alla dialettica
esasperata dei talk show, dove la finalità non sta nella condivisione di
diverse prospettive, ma nell’affermazione di sé, nel sovrastare l’altro.
“…il narcisismo cognitivo, che spinge l’individuo a
preferire la sua verità piuttosto che a cercarne una in maniera collaborativa.
L’individuo ha ormai trovato altre comunità di fiducia, strutturate per esempio
intorno agli influencer: comunità affettive formate da coloro che la pensano
come lui e provano le sue stesse cose” (M. Hunyadi, Credere nella fiducia, Vita
e Pensiero, 2025, p. 115).
(…..)
“L’odierna crisi dell’agire comunicativo può essere
ricondotta al metalivello per cui l’altro è in sparizione. La scomparsa
dell’altro implica la fine del discorso perché sottrae all’opinione la
razionalità comunicativa. L’espulsione dell’altro rafforza la costrizione
auto-propagandistica a indottrinare sé stessi con le proprie idee. Questo
auto-indottrinamento produce bolle informatiche autistiche, che rendono più
complesso l’agire comunicativo. Se la costrizione all’auto-propaganda si
accresce, gli spazi discorsivi vengono progressivamente sostituiti da
echo-chambers, nelle quali sento parlare soprattutto me stesso” (Byung-Chul
Han, Infocrazia, Einaudi, 2023, pp. 38-39)
(…)
La cura del pensiero non è un lusso intellettuale, qualcosa
che riguardi gli specialisti o che si riferisca ad aspetti marginali della
vita, quelli ascrivibili a persone che hanno interessi particolari per la
cultura. È un’attenzione di tutti ed è un compito fondamentale della scuola.
Saper pensare è la condizione per un agire morale, umano, è
esercizio di democrazia, lo ricorda ancora la Arendt in riferimento a Eichmann,
uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei durante il nazismo:
“Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di
esprimersi era strettamente collegata a un’incapacità di pensare, cioè di
pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era
impossibile, non perché mentiva (ipotesi che fino alla fine tenne in dubbio i
giudici), ma perché le parole e la presenza degli altri, quindi la realtà in
quanto tale, non lo toccavano” (H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a
Gerusalemme, Feltrinelli, 1993, p. 57).
https://www.ilsussidiario.net/news/scuola-realta-vs-narcisismo-algoritmi-come-seguire-la-arendt-e-liberarsi-di-eichmann/2836277/#:~:text=Direi%20innanzitutto%20la,della%20natura%20umana.