Filoni: «È la loro terra: i cristiani devono restarci»
Luca Geronico
10 agosto 2014
«Sono
convinto che, in questo momento, non ci sia luogo della Terra dove i
nostri fedeli non abbiano a cuore la difficile situazione di questi
fratelli e sorelle sradicati ed espulsi dalle loro case, dalle loro
terre, dai luoghi dove vivevano da secoli». Tra pochi giorni il
cardinale Fernando Filoni, nominato “inviato personale” di papa
Bergoglio per l’Iraq, sarà in Kurdistan. Per il prefetto di Propaganda
Fide un ritorno nel Paese dove, dal 2001 al 2006, è stato nunzio
apostolico.
Cardinale Filoni, un viaggio per scongiurare il «rischio di genocidio» dei cristiani iracheni denunciato dal patriarca di Baghdad Louis Sako. Quali gli obiettivi di questa importante missione diplomatica?
Parto come «inviato personale » del Santo Padre, che non può recarsi personalmente in quei luoghi, per manifestare la solidarietà del Papa e di tutta la Chiesa universale. Poi, per quanto sarà possibile, bisogna dire una parola di incoraggiamento e di apprezzamento per l’accoglienza che le autorità curde locali danno a questi cristiani. Sono convinto che non mancherà, su questo punto, la solidarietà internazionale o per lo meno di tutte le nostre Chiese.
Come si intende manifestare questa «sollecitudine»? Oltre alla prima accoglienza avete già abbozzato qualche piano di intervento umanitario?
Non credo si possano fare piani dall’esterno. Sarà anche per me un’occasione di vedere i vescovi locali, il patriarca caldeo, e con loro studiare quali ipotesi si possano portare avanti. Accanto alla prima emergenza, alla quale occorre far fronte, bisognerà pure considerare quale futuro avrà questo territorio, quale sarà l’assetto dal punto di vista civile e politico. Noi, però, non agiremo senza consultare e valutare i progetti della Chiesa locale: è un aspetto importante.
Avete dei dati precisi sulla dimensione dell’emergenza umanitaria?
Non ci sono statistiche, ma conoscendo bene l’entità dei villaggi che sono stati occupati, e quindi il numero delle persone mandate via, credo che la cifra di 100mila in fuga sia assai attendibile. Naturalmente alcuni sono andati nella parte del Nord rispetto alla piana di Ninive, altri più a sud-est, verso la zona di Erbil.
Prima ha accennato alla crisi politica, che si estende a tutto il Medio Oriente. Si è parlato nei giorni scorsi di una riunione dei nunzi della regione con papa Francesco per analizzare la situazione. Conferma? Quali sono le priorità per il Vaticano?
Per quanto riguarda i nunzi, il Santo Padre, giustamente, sente di voler fare delle valutazioni anche con i rappresentanti dell’area. Guardi, la questione centrale è che i nostri cristiani hanno il diritto nativo di stare in queste terre dove loro vivono da sempre: questa è anche la visione della Chiesa caldea e delle altre Chiese “sui iuris” della zona, una visione che vale anche pensando alla Siria e ad altre nazioni della regione. Dunque non tocca a noi dire: «Andatevene, cercatevi un altro rifugio». Certamente molti di loro, dopo tante difficoltà, dopo tante guerre, dopo tante fughe dai propri territori, è comprensibile che sentano il desiderio di trovare un luogo stabile dove poter vivere. Tuttavia molti altri sono consapevoli che questa è la loro terra, che altrove potrebbero essere ospiti anche ben accolti, ma quella non sarebbe la loro terra. Noi non dobbiamo sostituirci a quelle che sono le responsabilità civili: questo non spetta a noi. Noi difendiamo quel diritto originario, primitivo, della gente locale di dire: «Qui possiamo vivere, qui possiamo convivere con tutte le altre realtà del Paese, con musulmani, yazidi, altre minoranze che esistono». Come è già avvenuto nel corso del tempo, purché ci sia una volontà comune, oltre che politica, anche civile di stare insieme. Noi difendiamo questo diritto, e mi pare che su questo punto dovremmo trovare una convergenza
tutti.
Lei è uno dei massimi conoscitori della “Chiesa nella terra di Abramo”, per citare il titolo di un suo libro. In recenti dichiarazioni ha fatto riferimento ad antiche persecuzioni che questa Chiesa ha subito. Alzando uno sguardo sulla storia quale insegnamento si intuisce?
Se leggiamo un po’ la storia di quest’area geografica così travagliata ci viene la tentazione di dire che la lezione non è stata compresa, non è stata tenuta in considerazione. Nello scorso secolo ci sono stati molti travagli, a cominciare da quando l’impero Ottomano è stato smembrato e sono sorte nuove realtà fra cui l’Iraq, la Giordania, la Siria. Tutta la geografia della regione è stata ridisegnata come attualmente la vediamo. Quelle divisioni, quelle lotte, hanno portato tanta sofferenza ai cristiani che come minoranza hanno subito. Se questa lezione vale ancora, pensiamo in questo momento alla Siria e all’Iraq, dovremmo poi trarne delle conseguenze perché questa popolazione, questa gente possa vivere in pace e sia riconosciuto il loro diritto a vivere lì.
Undici anni fa lei accoglieva, come nunzio apostolico a Baghdad, il cardinale Roger Etchegaray inviato di Giovanni Paolo II per tentare una mediazione che scongiurasse la seconda guerra del Golfo. Ora ritorna a Baghdad, come inviato del Papa: cosa è cambiato in Iraq dal 2003 al 2014?
Con il cardinale Etchegaray ho avuto questa esperienza di condivisione in un momento terribile, con una guerra che era ormai alle porte e che si aveva difficoltà a far capire che non era opportuna, anzi che era errata. Da quel momento la situazione non è mai migliorata, anzi si può dire che è sotto tanti aspetti peggiorata. L’Iraq, sebbene dal punto di vista politico abbia cercato una qualche soluzione, vive continuamente attentati, vede gente in fuga... Credo avesse ragione Giovanni Paolo II quando, alzando il dito, ammoniva i responsabili politici di quel momento a ritrovare le vie di una pace che, purtroppo, non c’è stata e per cui, oggi, soffriamo queste conseguenze.
Cardinale Filoni, un viaggio per scongiurare il «rischio di genocidio» dei cristiani iracheni denunciato dal patriarca di Baghdad Louis Sako. Quali gli obiettivi di questa importante missione diplomatica?
Parto come «inviato personale » del Santo Padre, che non può recarsi personalmente in quei luoghi, per manifestare la solidarietà del Papa e di tutta la Chiesa universale. Poi, per quanto sarà possibile, bisogna dire una parola di incoraggiamento e di apprezzamento per l’accoglienza che le autorità curde locali danno a questi cristiani. Sono convinto che non mancherà, su questo punto, la solidarietà internazionale o per lo meno di tutte le nostre Chiese.
Come si intende manifestare questa «sollecitudine»? Oltre alla prima accoglienza avete già abbozzato qualche piano di intervento umanitario?
Non credo si possano fare piani dall’esterno. Sarà anche per me un’occasione di vedere i vescovi locali, il patriarca caldeo, e con loro studiare quali ipotesi si possano portare avanti. Accanto alla prima emergenza, alla quale occorre far fronte, bisognerà pure considerare quale futuro avrà questo territorio, quale sarà l’assetto dal punto di vista civile e politico. Noi, però, non agiremo senza consultare e valutare i progetti della Chiesa locale: è un aspetto importante.
Avete dei dati precisi sulla dimensione dell’emergenza umanitaria?
Non ci sono statistiche, ma conoscendo bene l’entità dei villaggi che sono stati occupati, e quindi il numero delle persone mandate via, credo che la cifra di 100mila in fuga sia assai attendibile. Naturalmente alcuni sono andati nella parte del Nord rispetto alla piana di Ninive, altri più a sud-est, verso la zona di Erbil.
Prima ha accennato alla crisi politica, che si estende a tutto il Medio Oriente. Si è parlato nei giorni scorsi di una riunione dei nunzi della regione con papa Francesco per analizzare la situazione. Conferma? Quali sono le priorità per il Vaticano?
Per quanto riguarda i nunzi, il Santo Padre, giustamente, sente di voler fare delle valutazioni anche con i rappresentanti dell’area. Guardi, la questione centrale è che i nostri cristiani hanno il diritto nativo di stare in queste terre dove loro vivono da sempre: questa è anche la visione della Chiesa caldea e delle altre Chiese “sui iuris” della zona, una visione che vale anche pensando alla Siria e ad altre nazioni della regione. Dunque non tocca a noi dire: «Andatevene, cercatevi un altro rifugio». Certamente molti di loro, dopo tante difficoltà, dopo tante guerre, dopo tante fughe dai propri territori, è comprensibile che sentano il desiderio di trovare un luogo stabile dove poter vivere. Tuttavia molti altri sono consapevoli che questa è la loro terra, che altrove potrebbero essere ospiti anche ben accolti, ma quella non sarebbe la loro terra. Noi non dobbiamo sostituirci a quelle che sono le responsabilità civili: questo non spetta a noi. Noi difendiamo quel diritto originario, primitivo, della gente locale di dire: «Qui possiamo vivere, qui possiamo convivere con tutte le altre realtà del Paese, con musulmani, yazidi, altre minoranze che esistono». Come è già avvenuto nel corso del tempo, purché ci sia una volontà comune, oltre che politica, anche civile di stare insieme. Noi difendiamo questo diritto, e mi pare che su questo punto dovremmo trovare una convergenza
tutti.
Lei è uno dei massimi conoscitori della “Chiesa nella terra di Abramo”, per citare il titolo di un suo libro. In recenti dichiarazioni ha fatto riferimento ad antiche persecuzioni che questa Chiesa ha subito. Alzando uno sguardo sulla storia quale insegnamento si intuisce?
Se leggiamo un po’ la storia di quest’area geografica così travagliata ci viene la tentazione di dire che la lezione non è stata compresa, non è stata tenuta in considerazione. Nello scorso secolo ci sono stati molti travagli, a cominciare da quando l’impero Ottomano è stato smembrato e sono sorte nuove realtà fra cui l’Iraq, la Giordania, la Siria. Tutta la geografia della regione è stata ridisegnata come attualmente la vediamo. Quelle divisioni, quelle lotte, hanno portato tanta sofferenza ai cristiani che come minoranza hanno subito. Se questa lezione vale ancora, pensiamo in questo momento alla Siria e all’Iraq, dovremmo poi trarne delle conseguenze perché questa popolazione, questa gente possa vivere in pace e sia riconosciuto il loro diritto a vivere lì.
Undici anni fa lei accoglieva, come nunzio apostolico a Baghdad, il cardinale Roger Etchegaray inviato di Giovanni Paolo II per tentare una mediazione che scongiurasse la seconda guerra del Golfo. Ora ritorna a Baghdad, come inviato del Papa: cosa è cambiato in Iraq dal 2003 al 2014?
Con il cardinale Etchegaray ho avuto questa esperienza di condivisione in un momento terribile, con una guerra che era ormai alle porte e che si aveva difficoltà a far capire che non era opportuna, anzi che era errata. Da quel momento la situazione non è mai migliorata, anzi si può dire che è sotto tanti aspetti peggiorata. L’Iraq, sebbene dal punto di vista politico abbia cercato una qualche soluzione, vive continuamente attentati, vede gente in fuga... Credo avesse ragione Giovanni Paolo II quando, alzando il dito, ammoniva i responsabili politici di quel momento a ritrovare le vie di una pace che, purtroppo, non c’è stata e per cui, oggi, soffriamo queste conseguenze.