Il prossimo beato
Paolo VI e l'Italia, quel bene speciale
Carlo Cardia
14 ottobre 2014
Paolo VI è stato il Papa che meglio ha coniugato l’universalità del
pontificato con le proprie radici e identità italiane. Ha impresso al
papato la svolta universalista del secondo Novecento, ponendo le basi
dei pontificati successivi, ma s’è anche immerso come pochi nella
temperie culturale dell’epoca, aperto alle correnti di pensiero europee,
anzitutto francesi. La sua percezione s’è trasfigurata in sentimenti di
vicinanza, amicizia, partecipazione appassionata alle vicende del
nostro Paese, leggendole sempre con lo sguardo rivolto al futuro, alle
sue trasformazioni, alle grandi tragedie come quella del rapimento di
Aldo Moro che ha segnato la conclusione del pontificato.
Paolo VI ha vissuto più fasi della storia italiana del Novecento, ma non è mai rimasto legato al passato, ha avuto più di altri il senso dell’evoluzione e del cambiamento. Formatosi nella Brescia che superava l’intransigentismo ottocentesco, Montini inizia la vita sacerdotale tra l’impegno diplomatico, a Varsavia, e nella Segreteria di Stato, svolge l’attività pastorale nella Fuci che attraversa le tempeste della guerra e del fascismo. Nell’impegno di quegli anni, Montini porta con sé un tratto che non verrà mai meno: la fede incrollabile nella Chiesa e l’attenzione al nuovo, la solidità delle convinzioni e la disponibilità al rinnovamento culturale e pastorale, fino a divenire, per unanime riconoscimento uno dei massimi protagonisti della formazione della nuova classe dirigente cattolica che sarà chiamata a dirigere lo Stato sulle macerie della dittatura e del secondo conflitto mondiale.
Nel decennio montiniano, fino al 1934, la Fuci assolve, con l’Azione Cattolica, a una funzione di radicamento creativo nella società. Riporta la Chiesa nelle Università, con l’inaugurazione di Sant’Ivo alla Sapienza in Roma e l’istituzione delle cappelle universitarie, e Montini giudica il rapporto tra i cattolici, la cultura, l’università, assai «sintomatico per l’orientamento di tante intelligenze nei riguardi della fede nostra». Essa resiste a vessazioni e violenze del regime che vede nelle leve universitarie cattoliche l’avversario naturale della propria visione del mondo. E s’impegna a dare al pensiero cristiano un assetto nuovo, con l’apertura alle conoscenze e ai risultati della scienza, con l’indirizzo cristiano della vita, lavorando per una società più giusta. La democrazia italiana resta debitrice per il lavoro di Montini alla Fuci, capace di formare una classe intellettuale capace di dirigere una società che respinge il totalitarismo.
Montini è accostato spesso, con ragione, al pensiero di Jacques Maritain, e alle correnti del cattolicesimo democratico europee, e su queste basi contribuisce a porre le basi dell’unità europea – nella quale molti oggi non credono purtroppo più – che annovera tra i fondatori grandi cristiani come Adenauer, Schumann, De Gasperi. Ma accompagna anche, dalla Segreteria di Stato a servizio di Pio XII, da arcivescovo di Milano, infine da Pontefice, la vita italiana come un riferimento sicuro, rassicurante, nelle trasformazioni del dopoguerra che conoscono il radicamento della democrazia, l’apertura alle classi subalterne, l’incontro tra culture diverse e, a volte, contrapposte. Compie la sua opera limando, stemperando, arricchendo i protagonisti, fiducioso che la possibilità di cambiamento è per tutti. Coglie la necessità che l’Italia attui i principi costituzionali di libertà ed eguaglianza religiosa, modifichi i Patti lateranensi nelle parti storicamente superate, apra le porte ad altre religioni. Sul finire del pontificato, la revisione del Concordato è già pronta, tarderà a concludersi per motivi parlamentari, ma impulso e basi della riforma sono sue, perché spinge, incoraggia, favorisce intese per attuare gli articoli 7 e 8 della Costituzione.
La vicenda del rapimento di Moro è la più drammatica della storia repubblicana, Paolo VI fa l’impossibile per giungere a un esito positivo, e quando ogni tentativo risulta vano eleva la sua parola a Dio con un dolore che riassume la sofferenza dell’Italia intera. Ma il rapporto con l’Italia, la partecipazione di Paolo VI alla vita del nostro Paese, prima e dopo l’elezione al pontificato, è ricco, ha un valore spirituale, culturale, unico nel suo genere.
Resta insuperata la sintesi che propone nella visita al Quirinale nel 1964: «Vogliamo bene, un bene tutto spirituale, tutto pastorale, oltre che naturale, a questo magnifico e travagliato Paese; né dimentichiamo i secoli durante i quali il papato ha vissuto la sua storia, difeso i suoi confini, custodito il suo patrimonio culturale e spirituale, educato a civiltà, a gentilezza, a virtù morale e sociale le sue generazioni, associazione alla propria missione universale la sua coscienza romana e i suoi figli migliori». In queste parole è tutta la sensibilità di Paolo VI, la sua raffinatezza culturale, il rispetto dell’autonomia dei poteri e la vicinanza speciale, quasi familiare, tra nazione italiana e cattolicesimo.
Questa sensibilità aveva raggiunto l’apice nel 1962 in Campidoglio dove l’allora cardinale Giovanni Battista Montini parla degli eventi del 1870, li pone in una prospettiva meta-storica, e considera la fine del potere temporale un evento provvidenziale: infatti, lo scontro tra opposte intransigenze raggiunge il culmine, ma «la Provvidenza aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando sugli avvenimenti». È vero che il Papa usciva glorioso dal Vaticano I per la definizione delle sue potestà nella Chiesa di Dio, e umiliato per la perdita del potere temporale in Roma, ma, «come noto, fu allora che il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimone del Vangelo, così da risalire a tanta altezza nel governo della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai». Sono parole definitive che chiudono l’epoca del conflitto con l’amicizia per l’Italia che il grande Pontefice ha saputo manifestare e sviluppare in tutta la sua vita.
Paolo VI ha vissuto più fasi della storia italiana del Novecento, ma non è mai rimasto legato al passato, ha avuto più di altri il senso dell’evoluzione e del cambiamento. Formatosi nella Brescia che superava l’intransigentismo ottocentesco, Montini inizia la vita sacerdotale tra l’impegno diplomatico, a Varsavia, e nella Segreteria di Stato, svolge l’attività pastorale nella Fuci che attraversa le tempeste della guerra e del fascismo. Nell’impegno di quegli anni, Montini porta con sé un tratto che non verrà mai meno: la fede incrollabile nella Chiesa e l’attenzione al nuovo, la solidità delle convinzioni e la disponibilità al rinnovamento culturale e pastorale, fino a divenire, per unanime riconoscimento uno dei massimi protagonisti della formazione della nuova classe dirigente cattolica che sarà chiamata a dirigere lo Stato sulle macerie della dittatura e del secondo conflitto mondiale.
Nel decennio montiniano, fino al 1934, la Fuci assolve, con l’Azione Cattolica, a una funzione di radicamento creativo nella società. Riporta la Chiesa nelle Università, con l’inaugurazione di Sant’Ivo alla Sapienza in Roma e l’istituzione delle cappelle universitarie, e Montini giudica il rapporto tra i cattolici, la cultura, l’università, assai «sintomatico per l’orientamento di tante intelligenze nei riguardi della fede nostra». Essa resiste a vessazioni e violenze del regime che vede nelle leve universitarie cattoliche l’avversario naturale della propria visione del mondo. E s’impegna a dare al pensiero cristiano un assetto nuovo, con l’apertura alle conoscenze e ai risultati della scienza, con l’indirizzo cristiano della vita, lavorando per una società più giusta. La democrazia italiana resta debitrice per il lavoro di Montini alla Fuci, capace di formare una classe intellettuale capace di dirigere una società che respinge il totalitarismo.
Montini è accostato spesso, con ragione, al pensiero di Jacques Maritain, e alle correnti del cattolicesimo democratico europee, e su queste basi contribuisce a porre le basi dell’unità europea – nella quale molti oggi non credono purtroppo più – che annovera tra i fondatori grandi cristiani come Adenauer, Schumann, De Gasperi. Ma accompagna anche, dalla Segreteria di Stato a servizio di Pio XII, da arcivescovo di Milano, infine da Pontefice, la vita italiana come un riferimento sicuro, rassicurante, nelle trasformazioni del dopoguerra che conoscono il radicamento della democrazia, l’apertura alle classi subalterne, l’incontro tra culture diverse e, a volte, contrapposte. Compie la sua opera limando, stemperando, arricchendo i protagonisti, fiducioso che la possibilità di cambiamento è per tutti. Coglie la necessità che l’Italia attui i principi costituzionali di libertà ed eguaglianza religiosa, modifichi i Patti lateranensi nelle parti storicamente superate, apra le porte ad altre religioni. Sul finire del pontificato, la revisione del Concordato è già pronta, tarderà a concludersi per motivi parlamentari, ma impulso e basi della riforma sono sue, perché spinge, incoraggia, favorisce intese per attuare gli articoli 7 e 8 della Costituzione.
La vicenda del rapimento di Moro è la più drammatica della storia repubblicana, Paolo VI fa l’impossibile per giungere a un esito positivo, e quando ogni tentativo risulta vano eleva la sua parola a Dio con un dolore che riassume la sofferenza dell’Italia intera. Ma il rapporto con l’Italia, la partecipazione di Paolo VI alla vita del nostro Paese, prima e dopo l’elezione al pontificato, è ricco, ha un valore spirituale, culturale, unico nel suo genere.
Resta insuperata la sintesi che propone nella visita al Quirinale nel 1964: «Vogliamo bene, un bene tutto spirituale, tutto pastorale, oltre che naturale, a questo magnifico e travagliato Paese; né dimentichiamo i secoli durante i quali il papato ha vissuto la sua storia, difeso i suoi confini, custodito il suo patrimonio culturale e spirituale, educato a civiltà, a gentilezza, a virtù morale e sociale le sue generazioni, associazione alla propria missione universale la sua coscienza romana e i suoi figli migliori». In queste parole è tutta la sensibilità di Paolo VI, la sua raffinatezza culturale, il rispetto dell’autonomia dei poteri e la vicinanza speciale, quasi familiare, tra nazione italiana e cattolicesimo.
Questa sensibilità aveva raggiunto l’apice nel 1962 in Campidoglio dove l’allora cardinale Giovanni Battista Montini parla degli eventi del 1870, li pone in una prospettiva meta-storica, e considera la fine del potere temporale un evento provvidenziale: infatti, lo scontro tra opposte intransigenze raggiunge il culmine, ma «la Provvidenza aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando sugli avvenimenti». È vero che il Papa usciva glorioso dal Vaticano I per la definizione delle sue potestà nella Chiesa di Dio, e umiliato per la perdita del potere temporale in Roma, ma, «come noto, fu allora che il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimone del Vangelo, così da risalire a tanta altezza nel governo della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai». Sono parole definitive che chiudono l’epoca del conflitto con l’amicizia per l’Italia che il grande Pontefice ha saputo manifestare e sviluppare in tutta la sua vita.
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