Carrón: «Vicini alle ferite dell'uomo»
di Giorgio Paolucci02/10/2014 - Alla vigilia del Sinodo sulla famiglia, il presidente della Fraternità di CL spiega perché la prossima assemblea dei vescovi sarà occasione «per tornare all’essenziale, alla novità che il cristianesimo ha portato nel mondo»
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Don Julián Carrón.
Pochi giorni fa, all’apertura dell’anno sociale di Comunione e Liberazione a Milano davanti a 19mila persone e con altre 34mila che lo seguivano in videocollegamento da molte città d’Italia, ha invitato le comunità di Comunione e Liberazione a pregare «affinché il prossimo Sinodo dei vescovi possa aumentare in tutti la consapevolezza del carattere sacro e inviolabile della famiglia e della sua bellezza nel progetto di Dio». E a unirsi alla preghiera convocata per sabato in piazza San Pietro e nelle rispettive città. Julián Carrón, presidente della Fraternità di Cl, vede nell’assemblea che tra pochi giorni si apre in Vaticano una grande occasione «per tornare all’essenziale, alla novità che il cristianesimo ha portato nel mondo per offrire a ciascuno una vita umanamente più conveniente».
Cosa c’è alla radice della crisi del matrimonio e della famiglia?
Siamo di fronte a una crisi che è anzitutto di natura antropologica. Prima ancora che un problema di rapporto tra uomo e donna, c’è il modo con cui ogni persona risponde alla domanda antica e sempre nuova: chi sono io? Quando c’è confusione sull’io, anche i legami diventano problematici. In un rapporto amoroso autentico, l’altro è vissuto come un bene talmente grande che viene percepito come qualcosa di divino. Per questo Leopardi scriveva «raggio divino al mio pensiero apparve, donna, la tua beltà». La donna desta nell’uomo un desiderio di pienezza, ma nello stesso tempo si trova nell’impossibilità di compierlo, suscita un’attesa a cui non riesce a dare risposta. Rimanda a qualcosa di più grande per cui ognuno è fatto. Pavese lo ha colto in maniera geniale: «Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità». L’altro non può compiere la promessa che ha acceso, e questo genera insoddisfazione e delusione. Siamo fatti per qualcosa di più grande dell’altro, e se non ce ne rendiamo conto le difficoltà che nascono dentro un rapporto possono diventare soffocanti. Per questo è venuto Cristo, come risposta autentica a questa incapacità dell’uomo di soddisfare il desiderio dell’altro.
Ideali come l’indissolubilità del matrimonio e un amore che duri “per sempre” sembrano appartenere a un’altra epoca. Come possono tornare a essere sperimentabili?
Non è un problema solo dell’oggi. Duemila anni fa, quando Gesù disse «non è lecito separare ciò che Dio ha unito», i discepoli risposero: «Allora non conviene sposarsi». Perciò le difficoltà odierne non devono sorprenderci: anche loro pensavano che certe cose fossero umanamente impossibili. Cristo è venuto proprio per rendere possibile quello che all’uomo è impossibile. Per questo, al di fuori dell’esperienza cristiana l’indissolubilità del matrimonio o un amore “per sempre”, che di per sé sono desiderabili per due che si amano, di fatto vengono percepiti come non possibili. Del resto la Chiesa, già nel Concilio Vaticano I, diceva che «i precetti della legge naturale non sono percepiti da tutti con chiarezza e immediatezza; nell’attuale situazione la grazia e la rivelazione sono necessarie all’uomo peccatore perché le verità religiose e morali possano essere conosciute da tutti e senza difficoltà, con ferma certezza e senza alcuna mescolanza di errore».
Molti arrivano al matrimonio senza la coscienza adeguata di quello che stanno per fare. Come aiutarli?
Quanti si rivolgono alla Chiesa, a volte anche in maniera confusa e perfino contraddittoria, lo fanno perché riconoscono il bisogno che hanno, e che da soli non ce la fanno. Il problema è la risposta che viene offerta. Bisogna aiutarli a diventare sempre più coscienti di quello che hanno ricevuto per tradizione o per consuetudine sociale. La Chiesa deve mostrare che c’è una possibilità di stare insieme in maniera umanamente conveniente, un luogo dove possono trovare una risposta alle difficoltà che incontreranno e che li sostiene in un cammino di maturazione. Benedetto XVI diceva: «A partire dall’attrazione iniziale educatevi a “volere bene” all’altro, a “volere il bene” dell’altro». Le famiglie devono trovare nella comunità ecclesiale un aiuto a questa educazione.
Le sembra che questo accada nella Chiesa?
Ci sono molti luoghi ed esperienze dove le persone vengono accompagnate e sostenute, e dove sperimentano che è possibile quello che appare come impopolare o umanamente impossibile. Papa Francesco ci insegna che non basta ripetere formule giuste, si deve stare vicini alle ferite dell’uomo, in qualsiasi condizione, in qualsiasi periferia esistenziale si trovi. Dobbiamo abbracciare chi incontriamo, in virtù dell’abbraccio che noi abbiamo ricevuto da Cristo.
Al Sinodo si affronteranno le sfide che arrivano da una società sempre più secolarizzata: forme di convivenza diverse dal matrimonio, unioni omosessuali, cambi di sesso, e altro ancora. Con i media che agitano lo scontro tra progressisti e conservatori nella Chiesa. Quale criterio usare per giudicare e agire secondo il Vangelo?
Il punto di partenza è capire che dietro a molte richieste ci sono esigenze profondamente umane: il bisogno affettivo, il desiderio di maternità, la ricerca della propria identità. È a questo livello che bisogna rispondere, c’è un lavoro educativo da fare per aiutare le persone a cogliere la natura profonda delle esigenze che avvertono, e a capire che le ricette evocate sono inadeguate per rispondere a ciò che sta alla radice di quelle esigenze. Don Giussani diceva che «la soluzione dei problemi che la vita pone non avviene affrontando direttamente i problemi, ma approfondendo la natura del soggetto che li affronta». E questo va al di là del conservatorismo o progressismo nella Chiesa. Anche la Samaritana aveva cercato di rispondere alla sua sete di felicità cambiando marito per sei volte, ma la sete era rimasta, tanto è vero che quando ha incontrato Gesù al pozzo ha chiesto di avere “quell’acqua”, bevendo la quale non avrebbe avuto più sete. I cristiani possono testimoniare alle tante samaritane di oggi la pienezza che Cristo ha portato alla vita.
Nel dibattito che ha preceduto il Sinodo è riemersa la dialettica tra chi, citando il Papa, chiede di usare anzitutto misericordia, e chi evidenzia la necessità di salvaguardare la verità. Che ne pensa?
Francesco nella Evangelii gaudium scrive che «non possiamo dare per scontato che i nostri interlocutori conoscano lo sfondo completo di ciò che diciamo e che possano collegare il nostro discorso con il nucleo essenziale del Vangelo che gli conferisce senso, bellezza e attrattiva». Per questo il Papa insiste che occorre trovare “forme o modi” nuovi «per comunicare con un linguaggio comprensibile la perenne novità del cristianesimo». È in fondo quello che ha fatto Gesù con Zaccheo: il suo sguardo di misericordia ha ridestato in quell’uomo il desiderio della verità, fino al punto che si è convertito. Per questo contrapporre misericordia a verità è sbagliato.