venerdì 8 settembre 2017

Intervento di SEMons. Carlo Caffarra al Meeting di Rimini del 2005


1
LIBERTÀ COME LIBERAZIONE
Mercoledì, 24 agosto 2005, ore 17.00
Relatore:
S.E. Mons. Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna.
Moderatore:
Alberto Savorana, Direttore di Tracce
Moderatore: Benvenuti a questo incontro del Meeting 2005 sulla libertà cristiana, la libertà come liberazione. Protagonista di questo di
dialogo è Sua Eccellenza Monsignor Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna. Capirete, ascoltando il suo intervento, perché abbiamo scelto lui per affrontare questo impegnativo tema, così grave ed attuale.
Vi dico solo che in lui noi abbiamo sempre notate ed ammirato uno strenuo, appassionato difensore di una fede ragionevole, che
per questo non ha patito timore, non ha avuto timore nello sfidare i tanti maestri del dubbio della nostra epoca, in una autentica lotta, per mostrare come il valore, il significato delle parole più decisive, fondanti l’esperienza umana, trovano nella fede, nell’avvenimento cristiano, la loro sorgente e il loro compimento, la loro verità più autentica. Per questo è stato naturale rivolgerci a lui: per essere aiutati, per essere aiutati ad approfondire il significato di una parola che sicuramente - e il Meeting di questi giorni lo testimonia in modo
  eclatante - dice la situazione della nostra società e dell’uomo     contemporaneo.
“L’uomo è condannato ad essere libero”: lo ha scritto Jean Paul Sartre. Ma come “condannato”? Possibile che quello che tutti avvertiamo come il termine di un’esperienza elementare, di una positività, possa essere avvertito e subito come una condanna, come qualcosa che fa violenza alla natura del nostro io? Deve essere successo veramente qualcosa di grave, una mutazione profonda della coscienza dell’io, per sentire come condanna quello che istintivamente avvertiamo come il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini.
E io credo che per questo, anche per questo, Benedetto XVI vi abbia fatto riferimento, nel suo messaggio con cui abbiamo aperto il Meeting di quest’anno, quando ha scritto che il tema è di straordinaria importanza in un momento storico e culturale nel quale nulla è così frainteso come il termine “libertà”.
Parlando a Rimini, tanti anni fa - era il 1983 e il Meeting muoveva i primi passi, timidi ma sicuri sulla scena italiana -, Don Giussani, che è padre della realtà che ha dato vita a questo fenomeno, a questo avvenimento di popolo, parlando della libertà di Dio esordì il suo intervento con questa frase: “Io ci tengo alla mia libertà. La libertà è un irrinunciabile. Non esiste persona, non esiste un io, se non nella libertà”.
Ecco, io sento di poter dire, assieme a Giussani, che ci tengo, ci teniamo alla nostra libertà. Capiamo che senza di essa non potremmo essere del tutto noi stessi, che non saremmo soddisfatti nelle nostre esigenze elementari di bellezza, di verità, di giustizia, di felicità. Essa, infatti, ispira un sentimento totale di compimento: altro che
condanna, altro che schiavitù della libertà!
Ma allora - ed entriamo nel titolo che Sua Eccellenza ha voluto dare a questo incontro- perché, se sentiamo, a dispetto dei Sartre contem
poranei, la libertà come bene, la liberà come la struttura del nostro io, avrebbe bisogno di essere liberata? Liberata da che cosa? Per che cosa? E questa è la domanda con cui ci prepariamo ad ascoltare
Sua Eccellenza. 
 
Carlo Caffarra
  Cari amici, devo confessarvi che mi sento molto emozionato nel
prendere la parola di fronte a voi, perché questo Meeting è in un modo del tutto singolare legato alla memoria di due straordinari profeti e testimoni della libertà cristiana, Giovanni Paolo II e Don Giussani.
Cercherò di balbettare qualcosa su questo straordinario tema, perché la riflessione sulla libertà costituisce il nodo centrale di ogni questione sull’uomo, dal momento che esistenzialmente l’uomo è la sua libertà. Ognuno di noi è padre-madre di se stesso mediante la sua libertà. Non per caso dunque qualsiasi discorso sull’uomo è misurato nella sua serietà dalla serietà con cui affronta il tema della libertà, poiché la realtà della propria vita non è fatta di pensieri ma di scelte della nostra libertà.Vorrei affrontare il tema della libertà considerandola nel suo esercizio, meglio nella fatica del suo esercitarsi. Mi spiego. La nostra libertà è – come vedremo – insidiata da ogni parte, e se la persona non è in grado di opporsi a queste insidie, la libertà è gradualmente estinta. In breve: o la nostra libertà è continuamente liberata oppure essa diventa schiava dei suoi nemici. In questo senso la libertà è anche un compito. È il nostro compito supremo poiché la liberazione della libertà costituisce l’emergenza
del nostro io sopra tutto il mondo delle cose. Quali sono le “insidie” dalle quali la nostra libertà deve essere liberata? A me sembra che siano fondamentalmente quattro. La prima si colloca alla sue spalle per così dire, perché rende non impraticabile, ma semplicemente impensabile la libertà. La seconda insidia riguarda la libertà nel suo concreto esercizio: è l’insidia che la libertà incontra lungo il suo cammino, e che la degrada. Se la prima insidia impedisce alla persona di pensarsi libera, la seconda le impedisce di esercitare la sua libertà con tutta la potenza che questa possiede. La terza insidia minaccia la libertà in quanto pone la persona in un rapporto di “costrizione” colla legge morale: è la libertà insidiata dalla legge
morale. La quarta insidia minaccia la libertà dal punto di vista del suo senso ultimo: del suo significato e del suo fine ultimo. Se la prima minaccia si colloca alle spalle della libertà, questa si colloca al traguardo del percorso della libertà medesima, imprigionandola dentro alla storia.
La mia riflessione quindi sarà scandita in quattro tempi corrispondenti alle quattro insidie suddette: libertà come liberazione dalla (sua) radicale negazione; libertà come liberazione dall’indifferenza; libertà come liberazione dalla (schiavitù della) legge: libertà come liberazione dalla schiavitù della storia.
1. Libertà come liberazione dal non-essere.
Iniziamo la nostra riflessione ponendoci per così dire alla sorgente stessa della libertà.
3
Il fatto a ciascuno di noi più evidente è anche il fatto più enigmatico: quello del nostro esserci; il fatto – può dire ciascuno di noi– che “io esisto”. Ho pronunciato la parola più intensa che l’uomo possa pronunciare: “io”. Questa parola infatti denota l’esistenza di un aliquid che si pone come unico, insostituibile, irripetibile. Donde ha avuto origine questa realtà?
La risposta che può dare il sapere scientifico non
è ultimamente risolutiva. Essa infatti spiega come sorge l’individuo di una determinata specie vivente; attraverso quale processo di fusione delle due cellule germinali sorge un individuo appartenente
alla specie umana.
Risposta non risolutiva in quanto lascia senza risposta la domanda fondamentale:
perché esiste quell’individuo umano che sono io e non piuttosto un altro?
L’individualità dell’uomo non è dello stesso grado dell’individualità di una pianta o di un animale come già sembra pensare Aristotele [c
fr. Categorie 2b 22-23; ma cfr.3b 35ss].
Abbiamo una sorta di conferma psicologica, per così dire, di ciò che sto dicendo.
Quando un uomo e una donna decidono di dare origine ad una vita umana, essi possono solo desiderare di avere un bambino. Non ha
nno alcuna possibilità di scegliere questo bambino piuttosto che quello. I miei genitori non volevano me, ma un bambino, un figlio. Che il figlio voluto fossi io, questo non era più in loro potere.
L’impersonale non può dare origine al personale; la natura non può giungere a dire“io”. Una persona può sorgere solo dalla Persona.
Alla propria origine non ci può dunque essere che un atto di intelligenza e di scelta: ero conosciuto prima di esistere e sono stato scelto fra infiniti altri possibili. La fede cristiana, ma in profonda sintonia colle esigenze esplicative della ragione, insegna
che ogni e singola persona umana è creata da Dio stesso.
Anzi più precisamente: che lo spirito umano può avere origine direttamente ed immediatamente solamente da Dio stesso. E la persona nel suo nocciolo sostanziale è costituita nell’uomo dall’anima semplicemente spirituale.
In parole più semplici: nessuno di noi esiste per caso o per necessità, ma ciascuno di noi è stato voluto e scelto da Dio stesso.
Perché questa riflessione mette al sicuro “le spalle” della libertà? Perché se l’uomo non sporgesse sopra i meccanismi biologici che lo hanno prodotto, egli sarebbe alla completa disposizione degli stessi, senza nessuna possibilità reale di poter dire “io agisco: io scelgo...”. Ciò che sto dicendo è che non sarebbe possibile affermare
ragionevolmente la libertà della persona se contemporaneamente si affermasse che il mio esserci è completamente spiegabile in base ai suoi antecedenti fisici e biologici.
Le due affermazioni, l’uomo è libero – l’uomo è solamente un individuo della specie, non possono essere razionalmente sostenute contemporaneamente.
“L’essenza della libertà come spontanea auto-determinazione, o come risposta o decisione portata avanti da nient’altro che il centro personale stesso, è totalmente incompatibile coll’essere identico a, o casualmente dipendente da, i processi cerebrali” [J. Seifert, Anima, morte ed immortalità, in A.VV. L’anima ed. A.Mondadori, Milano 2004, pag. 163].
4
Poiché ogni persona deve il suo esserci ad un atto di libertà di Dio, la libertà umana è posta fin dall’inizio dentro ad una relazione: la relazione fra Dio e la persona umana.
Questa sua originaria collocazione imprime nella nostra libertà, nel suo esercizio, un senso indistruttibile. Se la persona umana, ogni persona umana, è stata pensata e voluta da Dio stesso, ciascuno di noi è investito di un compito, è depositario di una “missione” affidata precisamente alla sua libertà.Il senso della vita non deve essere
inventato, ma scoperto. Comincia a delinearsi la natura intima della nostra libertà: è la capacità di rispondere alla chiamata di Dio creatore. Capacità di rispondere, cioè responsabilità. Tu rispondi
a Dio di te stesso: questa è la definizione di libertà cui si giunge considerando la persona umana alla sua origine.
Nel contesto di questa riflessione appare anche la connessione fra libertà/obbedienza, che il pensiero cristiano afferma con grande forza
come due termini per connotare la stessa realtà. E l’anello di congiunzione che li connette è il concetto di “vocazione” o
“missione”.
È forse bene, giunti a questo punto, sintetizzare quanto ho detto finora: la libertà è salvaguardata, la libertà è pensabile se all’origine del mio esserci c’è una Potenza che mi ha posto in essere per amore. Solo una Potenza infinita può far sorgere dei soggetti liberi.
Vorrei ora prima di passare al punto seguente, proporvi una riflessione conclusiva che ha carattere di corollario in un certo senso.
Se io dipendessi totalmente dai miei antecedenti biologici che casualmente mi hanno prodotto nel grembo di mia madre, questi stessi elementi sarebbero in grado di distruggermi completamente. Se io fossi solamente il risultato casuale della natura, questa stessa sarebbe in grado di annientarmi completamente. Ma il fatto che io sia
posto in essere dalla Potenza creatrice di Dio mi dona una consistenza ontologica superiore ad ogni forza naturale. La natura non è in grado di riassorbirmi completamente, perché non le appartengo radicalmente. Ho una certezza indubitabile
del mio io, che fuori da quell’originaria relazionecol Creatore non potrei avere.
La libertà, ciò che nella persona è la sorgente profonda dell’auto-determinazione, è ilsegno di questa superiore invincibilità della persona nei confronti della natura. È impossibile che l’io personale sia distrutto, proprio perché ciò che lo può uccidere, l’universo materiale, non solo gli è inferiore per dignità quanto all’essere, ma è anche liberamente dominato dalla persona mediane la sua libertà. “Ma anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente”
[B. Pascal 347; San Paolo ed., Milano 1996, pag. 342].
2. Libertà come liberazione dall’indifferenza verso la realtà.
Solo l’irriducibile alterità ontologica dell’io nei confronti della natura è in grado di liberare la libertà nel suo porsi originario, nel suo stesso sorgere. Ma liberata alla sua origine, la libertà incontra due altre fondamentali insidie nel suo attuarsi. In questo secondo punto della mia riflessione parlerò dell’ “insidia dell’indifferenza”. Non ho trovato denominazione migliore.
5
Partiamo dalla considerazione della scelta, in cui ciascuno di noi esperimenta maggiormente la sua libertà. Noi sperimentiamo la nostra libertà come capacità di scelta, ed è attraverso di essa che noi disegniamo il volto della nostra persona. “La scelta diventa il mio io, essa non mi accompagna come un’ombra ma mi precede come una luce, come la mia individuazione; essa è davanti al mio volto, davanti ai miei occhi, è dentro, è la mia spiritualità; ecco cosa significa la libertà, la scelta della libertà”. [C. Fabro, Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, Piemme ed., 200,pag. 166, n. 957].
Ma è ugualmente evidente che la scelta libera, ogni scelta libera, è intenzionata ad un oggetto: è sempre scelta di ... La scelta quindi è lo
stesso soggetto in quanto è capace di attuarsi. Entriamo nella dimensione più profonda della scelta: scelta di un oggetto:
“qualcosa o qualcuno” motivata [= messa in movimento] dalla scelta di se stesso, di un proprio modo di essere e di esistere. In ogni
scelta di ... l’io sceglie anche se stesso. Mi spiego con un esempio semplice. Che cosa muove una persona, messa nella possibilità di scegliere fra realizzare un grande guadagno economico e commettere una grave in giustizia, a scegliere il guadagno economico? Certamente il fatto che egli giudica più importante per sé la ricchezza piuttosto che la giustizia: l’essere ricco più che l’essere giusto. Egli ha già –non in senso cronologico – scelto chi essere: un uomo ricco piuttosto che un uomo giusto, ritenendo-scegliendo che il bene più grande sia non la giustizia ma laricchezza.
In ogni volere, in ogni scelta particolare abita un volere, una scelta radicale che non è la somma o il risultato delle scelte particolari perché ne è il principio ed il fondamento. La S. Scrittura dice di Mosè: “Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il
popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato. Questo perché stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore de
i tesori d’Egitto; guardava infatti alla ricompensa” [Eb 11, 24-26].
Mosè divenuto adulto si trova a dover scegliere: è il momento in cui esistenzialmente nasce il suo io. A dover scegliere fra i “tesori dell’Egitto” e l’ “obbrobrio di Cristo”, cioè la condivisione della condizione obbrobriosa del suo popolo. Mosè sceglie di
“essere maltrattato col popolo di Dio”. Perché? perché ha giudicato un bene migliore l’umiliazione con Israele che lo splendore coll’Egitto. Dentro alla sua scelta storica abita una scelta radicale.
Mosè aveva il suo nome di famiglia; era “figlio della figlia del faraone”; ciascuno di noi ha un nome di famiglia che ci individua civilmente. Mosè diventa adulto, ciascuno di noi genera se stesso quando ci chiamiamo con quell’ unico nome spirituale che ci diamo colla nostra scelta e con ciò che poi siamo in un certo senso
obbligati a compiere secondo questa scelta.
Ma questa che è la storia quotidiana della nostra libertà, è insidiata dalla negazione che esista una verità circa il bene della persona,
una verità mai completamente riducibile alle circostanze ed alle conseguenze della scelta. Perché negare che esista e sia possibile conoscere una tale verità è la minaccia suprema, è la più grave insidia
all’esercizio della libertà di scelta?
6
Perché questa negazione comporta come conseguenza sia logica sia esistenziale che in ordine alle generazione del proprio io eterno tutte le scelte ed il contrario di tutte le  scelte hanno alla fine lo stesso valore, dunque non ne hanno nessuno. Negata l’esistenza di una verità circa il bene, la libertà viene completamente ridotta a forza
in sé neutra di fronte a qualsiasi scelta: la “cifra” della libertà diventa l’indifferenza [libertas indifferentiae]. Tutto l’esercizio della libertà viene esaurito in una serie di scelte di cui nessuna può avere una sua incondizionata giustificazione perché nessuna ha fondamento assoluto. Una tale libertà genera paura, è la paura del nulla; genera
angoscia, perché nella verità l’io trova fondamento, mentre nella indifferenza radicale della sua libertà egli toglie a se stesso ogni fondamento.
Così ridotta la libertà è minacciata a morte poiché il suo esercizio alla fine annoia, ed alla fine si desidera essere liberati dalla propria libertà: o dallo Stato o dalla Religione o dal Potere di produzione del consenso.
Ma questo momento centrale della nostra riflessione
merita di essere ulteriormente approfondito, senza uscire dal contesto proprio di questo nostro incontro.
Il recente dibattito sulla procreazione assistita aveva alla sua radice lo scontro fra due opposte visioni dell’uomo e della sua libertà. Esso
infatti riguardava ambiti essenziali della persona umana, dimensioni costitutive della sua esistenza: la generazione (sia
in senso attivo sia in senso passivo), la paternità/maternità, il matrimonio e la famiglia. Si noti bene: ciò che era in questione era la definizione stessa di questi ambiti umani. Quale era la “posizione” che si voleva introdurre nell’ethos del nostro popolo al di sotto dei meccanismi giuridici? Che la definizione stessa di questi ambiti
è opera della libertà umana [è secondario se del singolo o della maggioranza]; che non esiste una definizione che pre-ceda, che sia pre-data alla scelta della libertà. Ogni ambito dell’umano è a totale disposizione delle scelte della libertà; è una invenzione della libertà, di una persona che non ha nulla da scoprire. Ogni ambito dell’umano
non è che un campo di esercizio della libertà di scelta. Ciò che deve essere difeso in  essi è semplicemente la libertà.
“La difesa della libertà è, infatti, l’argomento pubblico per eccellenza a sostegno della temporaneità dei legami affettivi, dell’equivalenza antropologica e morale delle identità sessuali (etero/omo/bi/trans), della fecondazione tecnologica, dell’aborto procurato, della liceità dell’eutanasia” [F. Botturi].
In sintesi. Se distinguiamo in ogni scelta il contenuto – ciò che la persona sceglie – e la forma con cui sceglie ciò che sceglie, la libertà appunto, la forma è il valore supremo ed incondizionato.
Questo modo di vivere la propria libertà di scelta porta al suicidio del soggetto. Non raramente, come ci dicono i mezzi di informazione,
anche al suicidio fisico soprattutto fra i giovani. Per quale ragione?
Come abbiamo già detto, in ogni scelta di qualcosa noi scegliamo anche (la configurazione di) noi stessi. I Padri greci insegnano che
l’airesis(la scelta) è preceduta e fondata da una pro-airesis(pre-scelta). Ricordate l’esempio che ho fatto di Mosè.
Se il contenuto è indifferente perché l’unico valore è la forma, ciò significa che non esiste né un destino buono né un destino sbagliato
dell’io che si realizza mediante le scelte. L’indifferenza dei contenuti delle scelte implica – teoricamente ed esistenzialmente – l’indifferenza dell’autorealizzazione del soggetto mediante le scelte. Più precisamente: il soggetto come tale è indifferente a qualsiasi
autorealizzazione. La libertà di scelta ridotta a pura forma genera indifferenza per il destino della persona: la propria e quella altrui.
L’icona di questo uomo non è neppure più l’ing. Kirillov de I demoni di Dostoevkij.
L’uomo che oggi vive il trionfo illusorio della libertà di scelta non ha più bisogno di dimostrare ciò che per lui è evidente: “che Dio ci
sia o non ci sia è indifferente”.
Ho trovato l’icona perfetta nel barista non sposato del racconto Un posto pulito, illuminato bene di Hemingway, quando egli, chiuso i
l bar, se ne va a casa, durante la notte. “Di che cosa aveva paura? Non era né paura né timore. Era un niente che conosceva troppo bene. Era tutto un niente, ed anche un uomo era niente. Era soltanto
questo, e tutto quello che ci voleva era la luce, e un certo ordine e una certa pulizia”.
Ed esce in una incredibile preghiera: “Nada nostro che sei nel nada, nada sia il nome tuo il regno tuo nada sia la tua volontà nada in na
da come in nada... Ave niente pieno di niente” [Tutti i racconti, oscar Mondadori, 1990, pag. 423].
Questa straordinaria pagina ci mostra un capovolgimento   paradossale. Esiste nell’uomo una invincibile inclinazione alla realtà
e quindi a conoscere la verità circa il bene, consapevole come è che esiste un’autorealizzazione vera e un’autorealizzazione falsa. È così invincibile questa inclinazione che l’uomo di oggi “prega il nulla”. Rivolge la propria domanda di verità perfino a chi non esiste. Come
già avevano notato i grandi profeti biblici nella loro insonne lotta contro l’idolatria.
È l’esistenza di una verità circa il bene/male della persona che liberando la libertà dalla malattia mortale dell’indifferenza, rende la
persona interamente libera. La libertà costituisce il rischio dell’autorealizzazione; la verità ne è il fondamento.
“Nasciamo anche attraverso una scelta – nasciamo allora dal di dentro, e non nasciamo di colpo, ma come pezzetto per pezzetto. Allora non tanto nasciamo, quanto piuttosto diveniamo. Ma a ogni momento possiamo non divenire, possiamo non nascere. Ciò dipende da noi [...]. Questo è il nascere attraverso una scelta” [K.Wojtyla, Raggi di paternità, in Tutte le opere letterarie, pag. 929-931].
Concludo questo punto della mia riflessione con un pensiero di C. Fabro che ne sintetizza tutto il contenuto: “Per l’uomo la verità non può assorbire la libertà, come pensava il pensiero greco; né la libertà può assumere in sé la verità come pretende il pensiero moderno: l’uno e l’altro tolgono l’ “intervallo” o divario fra la forma e il contenuto, fra il contenuto e la forma, e la tensione dell’uomo aspirante ed intinerante sfuma in mera parvenza.Verità e libertà sono per lo spirito finito due esigenze convergenti, essenzialmente
complementari: sono le due ali che ci permettono di elevarci al volo dal grigiore informe della possibilità verso la concretezza della realtà a cui si volge la verità”.
[Libro dell’esistenza ... cit., pag. 117, 646-647].
Dal “grigiore della possibilità” alla “concretezza della realtà”: ecco la prima fondamentale liberazione dell’esercizio della libertà di scelta.
3.Libertà come liberazione dalla schiavitù della legge morale.
8
Il nostro cammino di riflessione sulla liberazione della libertà entra ora nel suo momento più drammatico poiché deve affrontare il tema del rapporto fra libertà emale morale.
Inizio dalla narrazione di quanto accaduto in due notti distanti nel tempo e nellospazio, a due persone che sia pure in modo diverso
hanno avuto una rilevanza straordinaria per la nostra cultura occidentale, Socrate e Pietro.
La prima notte è ad Atene, nel carcere dove Socrate attende l’esecuzione della sentenza capitale.
Socrate è in carcere, condannato ingiustamente a morte, e nella notte precedente alla esecuzione viene visitato da un amico, Critone, che
gli fa una proposta: fuggire dal carcere e mettersi in salvo. La cosa è “tecnicamente” possibile: i carcerieri sono già stati debitamente pagati, cioè corrotti; al Pireo c’è già la nave che lo porterà lontano
da Atene. Si tratta ora di convincere Socrate. Quale è il nucleo della discussione fra idue? Eccolo in breve. Critone sostiene che Socrate deve fuggire, perché il suo rifiuto avrebbe conseguenze dannose sia per i suoi (di Socrate) figli sia per i suoi amici (cfr. Platone, Critone,
traduzione, introduzione e commento di G. Reale, ed
. la Scuola, Brescia 1981, pag.19-21). Cioè: ciò che decide se il possibile è anche lecito sono, alla fine, le conseguenze del nostro agire, misurate secondo l’opinione della maggioranza. Alla
domanda quindi se tutto ciò che è possibile è lecito, Critone risponde: tutto dipende dalle conseguenze del tuo agire.
Socrate però risponde che prima di chiederci, di verificare quali sono le conseguenze delle nostre scelte, è necessario sapere se ciò che
facciamo è giusto o ingiusto (cfr.ibid. pag. 33, c-d), poiché “non dobbiamo darci affatto pensiero di quello che dicono i
più, ma solo di quello che dice colui che si intende delle cose giuste e di quelle ingiuste, e questi è uno solo ed è la stessa verità
”, dal momento che “non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene” (ibid. pag. 31). Dunque, in questo dialogo platonico è già posta la domanda di fondo sulla quale abbiamo già riflettuto
nel numero precedente: ogni nostra azione è eticamente indifferente (fino a quando non ne prendo in esame le conseguenze) oppure esistono azioni che in se stesse e per se stesse sono sempre e comunque ingiuste? Socrate ha preferito morire per non rinnegare con una scelta [la fuga del carcere] quella verità sul bene che aveva conosciuto colla sua ragione.
La seconda notte è a Gerusalemme. La scena ha delle similitudini: c’è un condannato e un amico che lo sta seguendo. Pietro è messo nella necessità di fare una scelta: o dire la verità circa un rapporto di amicizia o tradire l’amico dicendo il falso. E Pietro sceglie il tradimento: “non conosco quell’uomo” [Mt 26,7].
Ma Pietro chi ha veramente tradito? Contro chi ha p revaricato? Ha tradito Cristo o non piuttosto se stesso? ha prevaricato contro Cristo o non piuttosto contro se stesso?
Socrate e Pietro hanno vissuto la stessa esperienza. Essi hanno “visto” una verità riguardante se stessi. Fuggire dal carcere non era
solo un problema “tecnico” né la cosa doveva essere valutata solamente in base alle sue conseguenze, ma la fuga o la non fuga coinvolgeva se stesso dal punto di vista delle ragioni per cui la vita ha un senso. Il rispondere con verità o con falsità coinvolgeva Pietro non solo perché era inquestione la sua vita fisica, ma perché era in questione la sua vita umana in senso pieno. Socrate e Pietro hanno vissuto l’esperienza di una verità su se stessi rimanendo nella quale la persona salva se stessa pur morendo, tradendo la quale la persona perde se stessa pur continuando a vivere.
Pietro piange su Pietro perché ha tradito Pietro tradendo il suo Amico. Di questo tradimento è autore, vittima e testimone. “Quindi l’uomo è se stesso attraverso la  verità. La relazione colla verità decide della sua umanità e costituisce la dignità della sua persona” [K. Wojtyla, Segno di contraddizione. Ed. Vita e Pensiero, Milano
1977, pag. 133].   Il dramma di Socrate e di Pietro l
o dimostrano.
Nelle nostre riflessioni sulla libertà siamo così giunti a parlare dell’enigma più indecifrabile presente nell’uomo: il fatto di una libertà che nega colla sua scelta la verità sul bene riconosciuta dalla sua ragione. La libertà umana può compiere il male morale.
Il male morale è la disintegrazione della persona poiché esso mi si manifesta come la libera negazione coll’azione di ciò che ho appena affermato colla conoscenza. La libertà nega ciò che la conoscenza afferma.
Che cosa viene negato dalla libertà? La verità sul bene morale di cui ho già parlato nel punto precedente. È questa, la verità sul bene
morale, profondamente diversa da ogni altra verità attingibile dalla ragione umana.
Essa pone la persona in rapporto con un oggetto possibile di scelta e che risponde a quel desiderio di beatitudine che dimora nel cuore dell’uomo e muove la persona medesima ad agire. La verità sul bene morale apre una possibilità che viene pro-posta alla libertà, perché mediante l’azione la persona si realizzi. Quando pertanto la libertà nega la verità sul bene morale, è il bene della persona come tale e la sua autentica realizzazione che sono negati. È una scelta il cui prezzo è la negazione di sé.
La verità puramente speculativa termina nella contemplazione del suo contenuto: in essa chi conosce riposa. La verità sul bene della persona invece ha nel suo contenuto formale solo il punto di partenza. Il suo punto finale lo ha nella decisione della libertà
con cui la persona attua se stessa in essa: fa sua la verità sul bene.
Questo “matrimonio” della libertà colla verità è un fatto molto profondo nella vita della persona. Noi non facciamo la verità e quindi
non siamo veri se non nella libertà.
Ma la libertà non inventa la verità, ma aderisce a
d essa, poiché la verità è lo splendore dell’essere della persona: essere che non poniamo noi. La verità circa il bene interloquisce solo colla libertà; e la libertà è nella verità.
Se mi si consente una battuta in temi tanto seri, direi che la verità sul bene della persona è “democratica” (!). Non è intuizione riservata ai geni, ma è la possibilità universale offerta all’uomo comune cioè all’uomo essenziale.
Ho parlato, e sto parlando della “verità sul bene”della persona. Ma esistono vari“beni della persona”. La salute fisica è un bene de
lla persona così come la conoscenza della verità. E così via.
Di quale “beni della persona” sto parlando? Lo indicherò per ora come il “bene (o valore) morale” della persona. Si può percepire, si
può avere un’intuizione intellettuale della bontà morale descrivendo una semplice esperienza.
19