martedì 16 aprile 2024

Beatificazione di don Luigi Giussani: si apre la “Fase testimoniale” (Chiesa di Milano)





Beatificazione di don Luigi Giussani: si apre la “Fase testimoniale” L’Arcivescovo terrà la prima sessione pubblica il 9 maggio, solennità dell’Ascensione, presso la basilica di Sant’Ambrogio a Milano, essendo ormai in fase avanzata la ricerca documentale sul Servo di Dio fondatore di Comunione e Liberazione 14 Aprile 2024 Don Luigi Giussani Giovedì 9 maggio, alle ore 17, nella basilica di Sant’Ambrogio, l’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, terrà la Prima Sessione pubblica della Fase testimoniale per la causa di beatificazione e di canonizzazione del Servo di Dio Luigi Giussani. Nel febbraio 2012 la Fraternità di Comunione e Liberazione chiese che si desse inizio al Processo (o Inchiesta diocesana) in vista della beatificazione e canonizzazione del suo fondatore, mons. Luigi Giussani, nato a Desio il 15 ottobre 1922 e morto a Milano il 22 febbraio 2005 in fama di santità. L’allora Arcivescovo di Milano, il Cardinale Angelo Scola, accolse la richiesta e, secondo le norme emanate dalla Santa Sede, avviò la prima fase del Processo, la cosiddetta Fase documentale. Due teologi vennero incaricati di leggere gli scritti editi e di stendere una Dichiarazione che attestasse l’assenza di errori riguardo alla fede e alla morale e che illustrasse il pensiero teologico e la spiritualità del Servo di Dio, come da allora doveva essere chiamato mons. Giussani. Allo stesso tempo venne nominata una Commissione storica, incaricata di raccogliere tutta la documentazione che permettesse di conoscerne la vita. Obiettivo di questa ricerca è quello di rendere fondata con i documenti la pertinenza e la convenienza della beatificazione del Servo di Dio, quale modello convincente di vita cristiana e, in questo caso, sacerdotale. Essendo ormai in fase avanzata questa fase di ricerca documentale, l’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ha deciso di dare inizio alla seconda fase dell’Inchiesta canonica, detta Fase testimoniale. «Essa – spiega mons. Ennio Apeciti, responsabile del Servizio diocesano per le Cause dei Santi – ha un volto per certi versi più “processuale”. La Commissione (o Tribunale) nominata dall’Arcivescovo interrogherà alcune decine di persone, che con la loro conoscenza del Servo di Dio ne illustrino la vita, il pensiero, la spiritualità, la fama di santità ed esprimano il loro pensiero sull’opportunità della beatificazione e canonizzazione. Il fine di questa seconda fase è quello da una parte di confrontare quanto conosciuto attraverso i documenti raccolti nella Fase documentale; dall’altra di ascoltare la voce del Popolo di Dio, o almeno di una sua rappresentanza significativa». Terminata la Fase testimoniale, quanto raccolto sarà inviato al Dicastero delle Cause dei Santi in Vaticano, ove verrà verificato il lavoro fatto nella Diocesi di Milano e seguiranno le altre fasi previste dalle norme fino ad arrivare alla eventuale decisione del Santo Padre di dichiarare Venerabile il Servo di Dio. «L’esame attento di un miracolo concesso da Dio per intercessione del Servo di Dio – continua mons. Apeciti -, permetterà al Pontefice di dichiarare Beato mons. Luigi Giussani e un altro miracolo, successivo alla beatificazione, di proclamarlo Santo per la Chiesa». La scelta della data del 9 maggio e del luogo, la basilica di Sant’Ambrogio, per lo svolgimento della Prima Sessione pubblica della Fase testimoniale, è stata fatta dall’Arcivescovo per motivi legati alla figura stessa di don Giussani: «La solennità dell’Ascensione, che ricorre appunto il 9 maggio – spiega ancora mons. Apeciti – era particolarmente cara al sacerdote e la basilica Santambrosiana è sembrata la più adatta a esprimere il legame di un sacerdote ambrosiano con il suo “massimo patrono”. Infine, la vicinanza della Basilica all’Università Cattolica del Sacro Cuore vuole fare memoria del luogo nel quale per molti anni il Servo di Dio formò generazioni di giovani, comunicando loro il suo appassionato amore per la Chiesa».

Apertura della fase testimoniale della causa di beatificazione di don Gi...

venerdì 5 aprile 2024

 PASQUA 2024/ Perché Giovanni capì prima di Pietro che Cristo era risorto?

                                                       


Pubblicazione: 01.04.2024 - Flavia Manservigi

Dopo Maddalena (che Lo vide) Pietro e Giovanni corsero al sepolcro, come nel quadro di Burnand. Ma Giovanni credette per primo

Una mattina come le altre, quella successiva alla Pasqua ebraica: era domenica, ma non ancora il dominĭca (dies) – giorno del Signore. Semplicemente, si trattava del giorno dopo il riposo del sabato, reso forse speciale solo per il fatto di seguire la festa più importante per il popolo ebraico.

Per un gruppo di persone in particolare, quella domenica mattina si ammantava di un velo di dolore acuto, quello che segue la morte di un congiunto, di un amico, che in quel caso poi era anche un Maestro.

Nel cuore degli apostoli non doveva brillare una gran luce: soltanto due giorni prima, il loro Maestro, appunto, era stato torturato e appeso a una croce, come il peggiore dei criminali. Non c’erano risposte a questa morte atroce; a nessuna morte, allora, era mai stato dato alcun senso o alcuna risposta. Si moriva e basta. Si andava nel niente. Polvere eri e polvere ritornerai, senza appello.

 

Maria Maddalena, col cuore pesante, si reca al sepolcro di Gesù, e trova la pietra ribaltata. Il sepolcro vuoto. “Hanno portato via il mio Signore”. Il cuore, già lacerato, si squarcia ancora. Corre dai discepoli (alcuni di loro, oltre che con il dolore, stavano facendo i conti anche con il senso di colpa: Pietro, ad esempio, non Lo ha solo abbandonato; Lo ha anche rinnegato). Ma proprio quel Pietro, mosso dal terrore che sia stato compiuto anche l’ultimo scempio – il furto del corpo – corre, disperatamente, per quanto la sua energia e la sua età gli permettevano. Con lui va anche Giovanni; almeno lui il senso di colpa di averlo abbandonato non lo aveva; ma sicuramente covava nel cuore il dolore sordo di chi ha visto l’amico deposto nel sepolcro, e la pietra chiusa per sempre su tutto quello che Lui era stato.

Arriva prima Giovanni, ma non entra, per rispetto a Pietro. Si abbassa, per dare un primo sguardo a quello che è avvenuto nella tomba. “Vide le bende per terra, ma non entrò”.

Ed ecco anche Pietro, con il fiatone per la fatica e l’angoscia; sembra quasi di vederlo. Anche lui si china: “vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte”.

 

Infine, entra anche Giovanni, e qui accade un fatto straordinario, perché il discepolo amato “vide e credette”.

Vide, vide, vide. Entrambi videro, ma solo uno dei due, alla fine, credette.

Ma cosa vide Giovanni, tanto da giustificare in lui il primo atto di fede in Cristo risorto? Una risposta può venire dal testo originale dei Vangeli, scritti in greco e tradotti spesso con lemmi che non rispecchiano la ricchezza della lingua originaria.

 

Nella traduzione che conosciamo, l’azione visiva dei due apostoli è sempre tradotta con il verbo “vedere”. Ma nel testo originale, a questo atto si associa di volta in volta un verbo diverso, con un significato differente. Il vedere di Giovanni, che, senza entrare nel sepolcro, per primo vede le bende e il sudario, è reso dal verbo blépein, che significa “constatare con perplessità”.

Il vedere le bende da parte di Pietro prima di entrare nel sepolcro è reso dal verbo theorein, che significa “contemplare uno spettacolo”, ma senza capire.

Quando infine Giovanni entra e osserva pienamente ciò che è rimasto nel sepolcro, è utilizzato il verbo eiden, che significa comprendere. Solo in quel momento, Giovanni vede qualcosa di preciso e in base a quel qualcosa comprende, e, dopo aver compreso, crede nella Resurrezione di Gesù.

Ma cosa ha visto Giovanni per giungere a questa conclusione? Il testo italiano dice che vide “le bende per terra”; ma il testo greco usa un’espressione diversa: ta othonia keimena.

Keimena in greco deriva da keimai, che significa “giacere, essere disteso, seduto, steso, orizzontale; si dice di una cosa bassa in opposizione a una elevata, eretta, come per esempio il mare calmo rispetto al mare agitato”.

Quando Giovanni ha assistito alla deposizione di Gesù nel sepolcro, ha visto che quelle bende erano alzate, sollevate, perché contenevano al loro interno il corpo del defunto. Ora Giovanni vede che la posizione delle bende è la stessa, ma esse non contengono più il corpo di Gesù: si sono abbassate, svuotate del loro contenuto, ma sono rimaste nella stessa posizione. Gesù, che è stato avvolto in quel lungo telo, vi è uscito, lasciandolo intatto; le fasce non sono state manomesse, e il corpo che vi era avvolto si è reso come meccanicamente trasparente. Da questo fatto, Giovanni capisce che Gesù è risorto.

 

Pietro non era stato in grado di giungere a questa conclusione perché lui non era al sepolcro; non aveva assistito alla deposizione di Gesù. Giovanni sì; Giovanni era stato con il suo Signore fino alla fine, e aveva visto in che modo il Maestro era stato deposto nella tomba. Per questo capisce. Per questo crede.

(….continua su il sussidiario.net)

 

https://www.ilsussidiario.net/news/pasqua-2024-perche-giovanni-capi-prima-di-pietro-che-cristo-era-risorto/2684671/#:~:text=PASQUA%202024/%20Perch%C3%A9,fine%20dei%20te

Resurrezione (Congdon)

                                                               


                                                           

giovedì 14 marzo 2024

 



ERIK VARDEN. ALLARGARE IL DESIDERIO

Il vescovo norvegese racconta su "Tracce" di Marzo la ricerca dell’amore nel mondo di oggi. La chiave per viverlo. E perché Maria Maddalena sarebbe la «patrona perfetta del XXI secolo»
Anna Leonardi
Se con La solitudine spezzata ci ha portati in un viaggio alla scoperta di Dio come risposta al grido del nostro tempo, con il suo ultimo libro, Chastity (Castità), Erik Varden ci propone un tema audace, che al mondo di oggi può fare l’effetto di una fredda folata proveniente da un’epoca lontana. I due titoli hanno, in realtà, una correlazione molto più profonda di quello che potrebbe sembrare. «La castità è una pienezza», spiega l’autore, monaco trappista e, dal 2020, Vescovo di Trondheim in Norvegia. «È un atteggiamento verso le cose e le persone che sgorga quando il cuore dell’uomo è investito da quell’abbraccio che risana e compie le sue attese più radicali. Per questo è riduttivo far coincidere la castità con un “non fare” e un “non essere”. È uno stato di grazia. E una virtù per tutti». Sono parole che suggeriscono una strada in una società ultrasecolarizzata, dove i rapporti tra le persone possono trasformarsi in una palude, quando ci si usa per riempire un vuoto, e non per condividere una sovrabbondanza.

Le relazioni non sembrano godere di una buona salute oggi. Molte analisi concordano sul diagnosticare nell’individualismo sfrenato la causa principale dei sintomi di sfiducia, incomunicabilità, invidia, solitudine. Cosa ne pensa?
Mi sembra un quadro cupo. Perlomeno parziale. Certo, queste esasperazioni esistono, ma ci sono anche delle tendenze molto sane. Quello che noto durante la mia attività pastorale è una ricerca di socialità, di comunione anche nei contesti più laici. Qui in Norvegia il dato del volontariato è molto in crescita: fiorisce la voglia di fare con l’altro e per l’altro. Questo significa che la tendenza individualistica della postmodernità non è tutto, c’è anche la percezione che stare imprigionati in se stessi non è un cammino che ci porta alla felicità.

Cosa significa in questo contesto parlare di affettività, amore, amicizia?
Oggi trovo cruciale soprattutto comprendere l’amicizia. Siamo in un tempo in cui le relazioni intime sono ridotte a erotismo o sentimentalismo e questo le rende fugaci, provvisorie. L’amicizia ha, invece, un aspetto più razionale, è un’affinità elettiva. È un tipo di relazione dove è più facile sorprendere quell’anelito a trovare un fondamento stabile e in cui si intuisce che la propria personalità può nutrirsi e costruirsi. In fondo, la santità cristiana si identifica come capacità di amicizia. Cristo ci ha detto: «Voi siete miei amici. Vi ho chiamati amici». L’amicizia è un ambito privilegiato dove possiamo allenarci e imparare a vivere tutte le altre relazioni.

Vede testimonianze di questo oggi?
Sì, per questo non mi sento disperato. Forse noi nel Nord Europa, che abbiamo sempre vissuto in anteprima le varie tendenze delle società occidentali, oggi stiamo risalendo la china e vediamo la luce in fondo al tunnel. Anche se molti sembrano bloccati, il desiderio di costruire relazioni e il riconoscersi dipendenti gli uni dagli altri appare come un punto irriducibile, un seme da cui può generarsi una novità che rende il mondo più umano.

Nel suo ultimo libro, Chastity, afferma che dobbiamo «allargare all’infinito il range del nostro desiderio. Solo così impariamo a cercare le risposte adeguate per cui la nostra carne si strugge e a risparmiarci continue frustrazioni». Può approfondire questa dinamica?
Il desiderio è l’espressione del nostro essere stati fatti da Dio. È qualcosa di intrinseco alla natura umana. Siamo abitati da un’eco, una chiamata. È il Signore che fa cantare in noi la somiglianza con Lui. Il desiderio è il motore della mia vita perché la orienta a una pienezza, che è la comunione con Dio vissuta anche nelle relazioni con gli altri. Il nostro peccato è un sabotaggio del desiderio, che si frammenta verso tanti oggetti diversi. Ma se guardiamo dove ci porta quel desiderio profondo, ci accorgiamo della relatività di tutte le cose che non sono sufficienti a compierlo. E, nel contempo, le riconosciamo nel loro valore più vero, perché solo alla luce di ciò che disseta la vita, anche ogni piccola cosa rivela il suo significato.

C’è un episodio nella vita di don Giussani che lo portò a un’intuizione simile. Era una sera d’estate carica di stelle, e lui uscendo dalla sua parrocchia in bicicletta, sorprese due fidanzati abbracciati. Dopo qualche pedalata si fermò e domandò: «Sentite, quello che state facendo, cosa c’entra con le stelle?». Anni dopo, commentando quel momento, disse: «Quella sera sono andato via lieto, perché avevo scoperto cos’era la legge morale: il nesso tra la banalità dell’istante e l’ordine dell’universo».
Mi trovo assolutamente d’accordo con questa sua osservazione. Il nesso con l’interezza di sé e con l’universo è la chiave per vivere l’amore e ogni rapporto con la pazienza e il sacrificio. Per un cristiano niente può essere banale, tutto viene ricompreso, se vissuto alla luce dello scopo ultimo, che è il bene del mondo. Questo brano mi fa venire in mente Jack, l’ultimo romanzo della scrittrice americana Marilynne Robinson, dove il protagonista, il dissennato figlio di un reverendo del Missouri degli anni Cinquanta, una notte incontra Della, una giovane donna. Jack si offre di starle vicino ma a debita distanza, in modo da proteggerla e non metterla a disagio. I due passano la notte a parlare e c’è un momento apicale in cui lei lo guarda come nessuno aveva mai fatto, ai suoi occhi non è uno sconosciuto ma «un’anima, una presenza gloriosa fuori posto nel mondo». Jack si sente guardato – come è veramente – dentro l’essere ed è trascinato, suo malgrado, a diventarne consapevole. Sa che c’è qualcosa in lei che richiama in modo unico qualcosa in lui. Ed è questo il nesso con lo scopo di cui parla Giussani.

Da cosa ripartire quando ci scontriamo con la debolezza e la fragilità, nostra e altrui, e allentiamo questa tensione ultima?
Nel contesto monastico abbiamo due momenti della giornata dedicati all’esame di coscienza. Cosa ne ho fatto delle possibilità a me date per vivere oggi? Come ho vissuto i rapporti con le cose, con i fratelli? Questa autoconoscenza è un passo necessario perché mi fa stare più attento a me stesso e agli altri. E all’impatto che quello che faccio o non faccio può avere sugli altri. I Padri la chiamano “umiltà”, che altro non è che un sano realismo che ci fa dire addio a tutte le immagini che ci costruiamo di noi stessi. Questo è reso più difficile nel mondo virtualizzato in cui viviamo dove concepiamo noi stessi in termini idealizzati. La capacità di guardare a me stesso per come sono è il primo passo per stare davanti all’altro. Di cui inizio a sentirmi responsabile.

Che cosa vuol dire?
Se concepisco me stesso come il sole in un universo fatto di stelle estinte, rimarrò sempre l’unico soggetto di un rapporto. Certo, magari mi accorgo che gli altri esistono, ma non riconosco loro alcun significato. Invece se mi scopro fatto per la relazione, mi scopro anche responsabile di quella relazione. Posso essere fonte di bene per la vita dell’altro, ma posso anche infliggere ferite profonde. Ci sono rapporti – penso a quello tra genitori e figli – dove questo è molto chiaro. È una relazione reciproca dove però potrebbe capitare che un padre o una madre debbano rinunciare all’essere visti, o addirittura accettare un abbandono. È possibile compiere questo sacrificio rimanendo fermi nel proprio proposito d’amore, che significa tenere sempre la porta aperta. Si tratta di un discorso delicato, perché ci può essere la tendenza malsana a sacrificarsi per salvare l’altro. Ricordiamoci che c’è un unico salvatore, e non sono io, e che ci sono rapporti che solo la pazienza può guarire. Questo vale anche per gli sposi. L’essere umano diventa veramente umano quando esprime questo ultimo sentimento di dedizione al bene dell’altro. Invece noi siamo dediti a reclamare i nostri diritti, a cantare le litanie dei nostri traumi.

(continua su tracce.online
https://it.clonline.org/news/chiesa/2024/03/14/eric-varden-allargare-il-desiderio#:~:text=ERIK%20VARDEN.%20ALLARGARE,bisogno%20di%20guardare.

martedì 12 marzo 2024

LA RIVOLUZIONE (E IL SOGNO) DI FRANCO BASAGLIA (Eugenio Borgna)

 

LA RIVOLUZIONE (E IL SOGNO) DI FRANCO BASAGLIA

L'11 marzo sono cento anni dalla nascita del grande neurologo e psichiatra il cui lavoro ha portato, nel 1978, alla chiusura degli ospedali psichiatrici. Ecco come lo ricorda Eugenio Borgna
Eugenio Borgna*
Non ho mai incontrato Franco Basaglia, ne conoscevo le idee, che inizialmente non mi sentivo di condividere. In quegli anni ero direttore di uno dei due manicomi, quello femminile, di Novara. Un manicomio, il nostro, nel quale psichiatre e psichiatri, sorelle religiose e infermiere, collaboravano nel rispetto della libertà e della dignità, delle attese e delle speranze ferite, delle pazienti. Il manicomio era nel cuore della città, e non in periferia, come tutti i manicomi italiani. Non c’erano porte chiuse, non contenzioni, che continuano ad esserci anche oggi in non pochi servizi ospedalieri di psichiatria, non giornate e giornate di esclusione in stanze infelici. Cose, queste, che erano facili in un manicomio femminile, e non lo erano in un manicomio maschile. La follia femminile è più gentile e più mite di quella maschile, la violenza non ne fa parte, e la disponibilità alle cure e alla convivenza sociale è molto più alta. Sono cose, queste, che ho poi constatato nel servizio di psichiatria ospedaliera di Novara, quando i manicomi sono stati chiusi.

Non posso non dire che ho visto poi un manicomio di Milano, e ne sono rimasto angosciato e terrorizzato, comprendendo le ragioni che inducevano Basaglia alla sua coraggiosa e apparentemente temeraria battaglia contro la sopravvivenza dei manicomi italiani, contrassegnati dalla indifferenza alla sofferenza e alla angoscia delle pazienti e dei pazienti. Chiuso nelle mura del manicomio di Novara, non mi accorgevo della insostenibile condizione di vita degli altri manicomi, ho potuto poi conoscere le realizzazioni di Basaglia a Gorizia e a Trieste, e ne sono stato folgorato. Non immaginavo che l’alternativa alle violenze, che constatavo nei manicomi di Milano, fosse solo quella di chiuderli.
Franco Basaglia (Foto Ansa)Franco Basaglia (Foto Ansa)
Lo psichiatra Eugenio Borgna (Foto Marina Lorusso)Lo psichiatra Eugenio Borgna (Foto Marina Lorusso)
Mi chiedevo nondimeno come sarebbero state seguite le pazienti e i pazienti, con le loro angosce e con la loro disperazione. Mi sono riconosciuto negli ideali di Basaglia, il grande respiro non solo umano, e anche spirituale, che li animava, ma le sue idee mi sembravano sogni, o illusioni, e invece hanno cambiato il mondo. Sì, immaginavo che psichiatre e psichiatri giovani, infermiere e infermieri motivati e animati da entusiasmo, assistenti sociali più numerose, e la presenza delle sorelle religiose, come erano a Novara, potessero rinnovare il modo di avvicinarsi alle pazienti e ai pazienti. Sono state illusioni, come constatavo a Milano, e allora non era davvero possibile non giungere alla chiusura degli ospedali psichiatrici: cosa che Basaglia dimostrava a Trieste come possibile, e non utopica.

Ne conseguiva la legge di riforma del 1978 che ne sanciva la definitiva chiusura, e il modo di fare psichiatria cambiava radicalmente. Non più manicomi, stracolmi di pazienti, ma la territorializzazione della psichiatria: ogni ospedale avrebbe avuto servizi psichiatrici, collegati con ambulatori e con comunità di cura, che consentivano di curare, e di prevenire, i disturbi psichici anche nei luoghi di residenza. Una vera rivoluzione, che sembrava impossibile, e che invece si è realizzata.

Il cuore di questa rivoluzione, che ha cambiato il modo di fare psichiatria in Italia, si è rispecchiata nelle conferenze tenute da Basaglia in Brasile, nelle quali in particolare diceva che noi psichiatri non possiamo non andare alla ricerca di un ruolo che ci metta, per quanto è possibile, alla pari con chi sta male, in una dimensione umana, in cui la malattia sia messa fra parentesi, consentendoci di avvicinarci il più possibile alla sofferenza psichica, e di coglierne la fragilità e la umanità.

La psichiatria manicomiale, che non è nemmeno oggi scomparsa dal modo di agire in alcuni luoghi di cura privati, si radicava nella esclusiva attenzione alla malattia, e non alla soggettività, alla interiorità, alla storia della vita, ai sentimenti, delle pazienti e dei pazienti. La sofferenza psichica non è stata più considerata come qualcosa da analizzare con un gelido sguardo clinico, ma come esperienza umana, ferita dall’angoscia e dal dolore, dalla solitudine e dall’isolamento, che ha bisogno di psicofarmaci, ma anche, e soprattutto, di ascolto e di dialogo, di accoglienza e di gentilezza.

I manicomi sono stati chiusi, ed è stata una cosa di straordinaria importanza non solo clinica ma umana; e nondimeno non meno importante è stata in Basaglia la rivalutazione del senso della sofferenza, che è parte della condizione umana, e alla quale noi tutti dobbiamo accoglienza, e rispetto. Sono valori, che non valgono solo nella cura della follia, e sono valori che dovremmo sapere riconoscere nella nostra vita, e non solo in quella incrinata dalla sofferenza psichica.
(continua su il sussidiario.net)

https://it.clonline.org/news/cultura/2024/03/11/anniversario-franco-basaglia-eugenio-borgna#:~:text=LA%20RIVOLUZIONE%20(E,occhi%20delle%20pazienti.


sabato 24 febbraio 2024

Messaggi che bucano i muri

 

Messaggi che bucano i muri






DELFINA BOERO

Secondo fonti indipendenti, in Russia il numero dei prigionieri politici è in aumento. Ma parallelamente cresce un’ampia rete di volontari che visitano le prigioni o scrivono ai detenuti. A volte basta una lettera o qualche notizia per ricordare loro che qualcuno li pensa.

Il volontariato a favore dei carcerati è sempre stato praticato in Russia e più o meno «tollerato» da tutti i regimi a cominciare da quello zarista. Basti ricordare l’aiuto medico e spirituale del dottor Haas ai forzati o la copia del Vangelo donata a Dostoevskij al suo arrivo nel carcere di transito di Tobol’sk.

Dopo la rivoluzione la tradizione è proseguita con alterne vicende: un pacco di indumenti caldi o alimenti diventava un punto di speranza per tanti detenuti dispersi nell’universo concentrazionario sovietico. Oggi quest’opera prosegue con l’aiuto delle nuove tecnologie, e in rete si moltiplicano i gruppi di volontariato che aiutano i prigionieri politici o offrono linee-guida a chi desidera sostenerli. Sarebbe impossibile menzionare tutte le iniziative che negli ultimi anni stanno fiorendo in Russia nonostante le strettoie per cui devono passare.

Ne citeremo solo alcune.

Da dieci anni rosuznik.org («il prigioniero russo») cura la corrispondenza con i detenuti, spiegando come spedire una lettera cartacea o mettendo a disposizione un modulo on line per scrivere loro una mail.

Siccome non tutti i luoghi di detenzione hanno un servizio di posta elettronica per i carcerati, rosuznik stampa le mail dei volontari, e le spedisce per posta normale insieme a un’altra busta e ai francobolli per la risposta.

Il sito presenta brevi biografie dei detenuti a cui scrivere con il loro indirizzo, pubblica brani dalla corrispondenza con i volontari; spiega le motivazioni del gesto, come vanno redatte le lettere, quali argomenti evitare per scansare la censura e quali invece sono accettati e possono piacere a chi sta in carcere. La gestione del sito e le spedizioni sono finanziate solo dalle offerte dei simpatizzanti. Ad oggi i volontari di rosuznik scrivono a 128 prigionieri in tutto il paese, migliaia le lettere inviate, anche attraverso il sistema del Servizio federale per l’esecuzione delle pene (FSIN), nonostante rosuznik non nasconda le proprie posizioni democratiche e spieghi in modo sobrio ma chiaro che in Russia è in atto una «criminalizzazione dell’attività politica», citando dati e fatti.

Nella stessa direzione ma con un taglio diverso lavora il gruppo facebook «Skazki dlja politzaključënnych» («fiabe per prigionieri politici»), un progetto «benefico e apolitico» fondato nel 2015, inizialmente a sostengo delle persone arrestate per le manifestazioni in piazza Bolotnaja a Mosca.

Negli anni successivi, l’attività si è gradualmente estesa ad altri detenuti. Coordinata da Elena Efros, madre del regista Evgenij Berkovič, ha un indirizzario di oltre mille destinatari.

Il progetto non vuole solo far entrare «una boccata d’aria fresca nello spazio angusto della cella, ma anche ricordare ai detenuti e alle guardie che la persona non è dimenticata e lasciata sola faccia a faccia con il sistema». Perché fiabe? «Perché nelle fiabe trionfano sempre la verità, il bene e la giustizia, che vincono anche nella vita reale, magari non subito ma immancabilmente».

Le migliaia di lettere inviate finora dai volontari contengono non solo fiabe in senso stretto, ma anche biografie di personaggi celebri, viaggi virtuali, notizie sulle novità tecnico-scientifiche o racconti di vita vissuta. Interessante la variopinta chat dei volontari, che condividono liberamente notizie sui detenuti a cui scrivono, disegni, racconti sulla vita di ex prigionieri del GULag, come quello apparso di recente sulla pianista Vera Lotar-Ševčenko, che fu aiutata da Marija Judina a reinserirsi nella società dopo anni di lager e di confino.

Una fiaba illustrata da V. Barinov. (facebook)

E se capitasse a me?

L’ultimo frutto di questo fervore creativo è «Tjuremnyj vestnik», letteralmente Il bollettino carcerario, una rivista artigianale, di pochi fogli, che vuole colmare il vuoto informativo dei detenuti e rompere almeno in parte il loro isolamento. Avendo una bassa tiratura, non figura fra i mass media ed è di fatto un samizdat di nuova generazione, ma prodotto e distribuito nel pieno rispetto delle leggi russe.

A pubblicarla ormai da un anno è l’informatico Pëtr Losev, ex coordinatore delle campagne elettorali dell’opposizione. In una recente intervista al portale indipendente «Važnye istorii» ha spiegato com’è nato il progetto: nel 2022 hanno messo dentro un suo conoscente, e Pëtr lo ha saputo solo per caso. «Ho pensato: e se capitasse a me? La gente ha i suoi impegni e i suoi problemi, non ha tempo di pensare anche ai detenuti, è normale.

Non è normale però che i prigionieri politici, che non risparmiano forze e salute per noi, vengano dimenticati da tutti. Quindi ho deciso di dare loro una mano. Se, Dio non voglia, metteranno dentro me o voi, questo giornalino aiuterà almeno un po’ a mitigare la grigia quotidianità del carcere».

Losev spiega che il compito principale del «Vestnik» è dare ai detenuti un’idea di ciò che succede fuori. Non solo la cronaca locale o mondiale, ma anche «il contesto quotidiano, l’aria che tira, quello che si pensa e si dice».

Losev ha testato l’efficacia di questa idea durante uno scambio epistolare con Il’ja Sačkov, direttore di una società di informatica in carcere per presunto alto tradimento. Ha cominciato a raccontargli in due o tre frasi gli avvenimenti del mese: la guerra ma anche «le barzellette su Vkusno i točka» («È buono, punto e basta»), la nuova catena russa di fast food che ha sostituito McDonald’s dopo l’invasione dell’Ucraina, o i meme su Ryan Gosling che interpreta Ken nel film Barbie. Il destinatario gli ha risposto che era proprio questo che gli mancava.

La struttura del «Vestnik» è molto semplice: una cinquantina di notizie di due o tre frasi, la rubrica «Discussioni su twitter» con i temi più dibattuti sul segmento russo del social, la colonna scritta da un prigioniero politico o da un giornalista, brani dalle lettere dei lettori. C’è anche una rassegna dei meme più famosi del mese.

Ma la principale attrazione è la fantastica copertina, in cui il disegnatore della rivista riesce a stipare tutti gli avvenimenti del mese: «Cinquanta rebus su un’unica copertina, e ognuno di questi è una notizia».

vestnikA giudicare dalle centinaia di lettere di risposta a ogni numero, fotografate e pubblicate sul canale Telegram di Losev la rivista è molto apprezzata da detenuti e non. «C’è chi riceveva “Vestnik” in carcere ma ora è in libertà e ha già scritto delle colonne per noi», spiega l’editore.

Come Andrej Borovikov, ex coordinatore del quartier generale di Naval’nyj per la regione di Archangel’sk, condannato a due anni e mezzo di colonia penale, ufficialmente per aver diffuso del materiale pornografico. In effetti aveva ripostato la clip della canzone Pussy dei Rammstein, indubbiamente di contenuto hard, che però, a torto o a ragione, circola liberamente on line in molte parti del mondo. Liberato nel maggio 2023 con una riduzione di pena di tre mesi, ha raccontato che in carcere si sentiva come un mendicante che elemosinava «avanzi di informazione», se non altro per far funzionare il cervello.

«Risposte come queste ci spronano a continuare, perché non lavoriamo per lo stipendio», commenta Losev, consapevole che in carcere c’è gente che aspetta. Alcuni detenuti scrivono che, quando ricevono un numero della rivista, lo danno da leggere a tutta la cella, compresi i delinquenti comuni, che «vanno matti» per tutto quello che succede in Russia.

Nelle risposte dei prigionieri politici, a volte emergono le loro storie: Il’ja Jašin, ex deputato comunale condannato a otto anni e mezzo di colonia penale per «fake news» sull’esercito, ringrazia per la rivista che legge con interesse: «Incrociando le dita, per ora non ho problemi con la censura. Ho il sospetto che anche i censori si divertano a leggere queste cose. Per un prigioniero politico l’informazione indipendente è l’unico habitat possibile, e i vostri invii sono come una boccata d’aria per chi sta per soffocare».

Oggi «Vestnik» ha una tiratura di circa 250 copie, ma i prigionieri politici in Russia sono molti di più. Quando hanno iniziato il progetto, Losev e i suoi collaboratori si sono serviti di data base già esistenti, come quello di «Svobot», letteralmente «il bot della libertà», un bot di Telegram per inviare lettere ai prigionieri politici, ma alla fine hanno deciso di costruire ex novo un proprio sistema di gestione dei dati, basato su criteri più attuali: «Siccome vengo dal mondo degli affari e dell’amministrazione, tutta l’attività operativa di “Tjuremnyj vestnik” è automatizzata fin nei minimi particolari».

Una scelta peculiare di «Vestnik» è che fra i suoi destinatari non ci sono solo i prigionieri politici in senso stretto, ma anche dei detenuti per diserzione e altri reati comuni, il cui orientamento e impegno politico costituiscono però un’aggravante per la giustizia russa.

Tuttavia, la maggior parte dei destinatari della rivista sono persone di cui non si sa nulla o quasi, di cui i mass media non parlano e a cui i volontari non scrivono. «Lavorare con loro è il nostro compito principale», osserva Losev. «Ho mandato delle lettere ad alcuni attivisti contro la guerra dei quali perfino il portale indipendente per i diritti umani “OVD-Info” ha scritto una sola volta e di cui non si hanno più altre notizie. Molti di loro non hanno mai fatto politica: li hanno messi dentro perché sono usciti con un manifesto o per dei commenti su Odnoklassniki».

 Censura e diritto di corrispondenza 

Per passare la censura carceraria, «Vestnik» usa il «linguaggio esopico»: «Da noi c’è la censura, quindi scriviamo le notizie in modo che siano inattaccabili. Ad esempio, ne mettiamo alcune in fila. Una sola non dice niente, ma lette insieme possono significare qualcosa». Sono bandite le parole che irritano le autorità: «Se loro non chiamano per nome alcuni personaggi, non lo facciamo neppure noi. Diciamo ad esempio che “il nemico della corruzione ha dichiarato…”. Oppure, simulando la propaganda russa, scriviamo: “Se la Russia c’entri con l’attacco all’Ucraina, non è dato sapere…”». Chi vuol capire, capisca.  «Per ora nessuno si è lamentato che scriviamo in gran parte per allegorie. È tutto chiaro».

Un terzo delle copie arriva stabilmente ai lettori con allegata una busta per confermare la ricezione della rivista. Gli altri due terzi non rispondono, forse perché il numero non ha passato la censura o forse perché il destinatario non ha voglia di mandare la conferma.

Sicuramente nel 3% dei casi il motivo è la censura. Losev osserva che in alcune colonie penali la mancata consegna delle lettere è dovuta a semplice incuria, perché gli addetti non sono passati a ritirare la posta o l’hanno fatto con due mesi di ritardo. Il penitenziario ha l’obbligo di ricontrollare e consegnare una lettera entro sette giorni dall’arrivo in posta, ma secondo l’editore il 90% delle lettere vengono recapitate fuori tempo massimo. Il disservizio secondo Losev dipende dal fatto che quello del censore in carcere è un mestiere ingrato, poco pagato, e chi lo fa «sta lì a scaldare la sedia». Ma ci sono anche dei censori autoritari che non consegnano certe pubblicazioni perché a loro avviso «contengono delle informazioni eversive».

A volte la consegna della corrispondenza viene usata come strumento di pressione sui detenuti. Tant’è che i redattori di «Tjuremnyj vestnik» hanno messo in atto un secondo progetto, «Svoboda perepiski» (Libertà di corrispondenza), per tutelare il diritto dei detenuti a ricevere posta. Hanno deciso di farlo quando hanno saputo che i censori a volte non solo non consegnano le riviste, ma possono anche non consegnare le lettere personali, perché usano la corrispondenza come arma di ricatto. Se un detenuto secondo l’amministrazione «si comporta bene» gli consegnano la posta, altrimenti no, il che è esplicitamente illegale.

«Grazie a “Vestnik” siamo riusciti a individuare le persone a cui l’amministrazione non consegna nulla, fra questi Vladimir Domnin, che di recente ha battuto il record di permanenza in cella di rigore, 55 giorni». Dopo che Losev e i suoi collaboratori hanno fatto causa al penitenziario di Uglič, dove Domnin è detenuto, l’amministrazione del carcere ha cominciato a consegnargli la posta.

Lo staff di «Tjuremnyj vestnik» è formato da nove persone, ma a lavorarci stabilmente sono solo in tre: lo stesso Losev, il manager e l’impaginatore. Il problema principale sono i finanziamenti: «Porterei volentieri la tiratura a 999 copie, il massimo consentito per legge. E magari ci piacerebbe registrarlo ufficialmente come mass media, perché chiunque in carcere possa abbonarsi, ma per ora il budget non lo permette».

«Mi colpisce quanto sia difficile cercare soldi – si stupisce Losev – Abbiamo un progetto chiarissimo e un obiettivo altrettanto chiaro: aumentare la tiratura. Di gente che ha i soldi ce n’è, ma quando vado a chiedere anche una piccola cifra, mi dicono: “È un progetto fantastico, dovete trovare qualcuno che ve lo finanzi”. Ma io sto chiedendo a voi di farlo!».

Per intanto «Vestnik» va avanti con le offerte della gente comune.

A parte un caso isolato, al momento i lettori di «Vestnik» non hanno mai subito vessazioni per il contenuto della rivista.

(continua su La Nuova Europa)

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