lunedì 23 giugno 2025

PERCHE' LA GUERRA DI TRUMP E ISRAELE E' FUORI DALLE REGOLE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

 



USA vs IRAN/ “Perché la guerra di Trump e Israele è fuori dalle regole del diritto internazionale”

Int. Pasquale De Sena Pubblicato 23 Giugno 2025 - Aggiornato alle ore 06:40

Trump, Iran

 

La guerra preventiva di Israele contro l’Iran e l’attacco Usa sono illegali e rappresentano un nuovo colpo alla credibilità dell’Occidente

 

Israele e Stati Uniti hanno scatenato una guerra preventiva contro l’Iran in assenza di una minaccia nucleare concreta e presente. Un’azione contraria alle regole del diritto internazionale, spiega al Sussidiario Pasquale De Sena, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Palermo e già presidente della SIDI. “Se ammettessimo la possibilità di difendersi con le armi dinanzi a un pericolo astratto, come in questo caso, dovremmo ritenere lecito anche l’attacco armato russo all’Ucraina”. La reazione armata da parte dell’iran, invece, per le ragioni specularmente opposte, è legittima, afferma il giurista.

 

Stiamo assistendo a una situazione nella quale l’Occidente euroatlantico ha totalmente assorbito la logica del doppio standard prodotta da trent’anni di “New World Order”, l’ordine mondiale neoliberale, e non vede più la differenza tra verità e menzogna politica, aggressore e aggredito. Ma soprattutto, di questo doppio standard censura le contraddizioni e gli effetti paradossali e distruttivi. “L’attacco statunitense – continua De Sena – è un colpo inferto non solo all’Iran, ma alla credibilità dell’Occidente e alla sua civiltà giuridica”.

 

Nella notte di domenica gli Stati Uniti hanno attaccato i siti nucleari iraniani. Come definirebbe l’operazione americana?

L’azione militare statunitense costituisce una violazione grave del divieto dell’uso della forza armata nei rapporti internazionali, dal momento che gli Stati Uniti non hanno subìto alcun attacco dall’Iran. Si tratta di un attacco armato, sferrato a titolo di complicità nell’azione di Israele – illecita anch’essa – e volta, per di più, alla distruzione di infrastrutture che non costituiscono obiettivi militari dal punto di vista del diritto umanitario.

 

Quali potrebbero essere le possibili implicazioni dell’iniziativa americana?

Sul piano giuridico, un attacco di questa portata rende lecita una reazione armata da parte dell’Iran.

 

In quali modalità, secondo lei?

Stante il divario delle forze in campo e la lontananza geografica degli USA, è ipotizzabile che tale reazione non avverrà in forme uguali e contrarie – come sta avvenendo per Israele –, ma tramite azioni volte a colpire basi militari statunitensi che si trovano nel territorio di Stati terzi, o navi e basi navali.

 

Vuol dire che la guerra è destinata ad allargarsi.

Speriamo che queste azioni non si traducano in attentati idonei a provocare morti fra i cittadini di quegli Stati. E, ancor di più, auguriamoci che non vi siano attentati terroristici veri e propri, perché questa sembra una conseguenza probabile.

 

Diamo uno sguardo alle reazioni che ci sono state nella comunità internazionale all’intervento americano.

Il Consiglio di Sicurezza deve ancora riunirsi, ma due Stati che ne fanno parte, Cina e Russia, hanno già apertamente condannato l’intervento. La presidente della Commissione europea von der Leyen, nella breve nota diramata stamane (ieri, nda) sui social, non ha espresso alcuna condanna. Si tratta di un atteggiamento criticabile.

 

Per quale ragione?

Perlomeno per due motivi. Sul piano politico, la scelta di von der Leyen mina significativamente la credibilità dell’atteggiamento intransigente assunto nei confronti della Russia per l’aggressione all’Ucraina, visto il chiaro doppio standard di cui è espressione.

 

E l’altro motivo?

Sul piano giuridico, contribuisce ad indebolire il divieto consuetudinario dell’uso della forza. Nella misura in cui una sua chiara violazione non viene contestata a chi l’ha effettuata, viene indebolito un cardine dell’ordinamento internazionale post seconda guerra mondiale. Tecnicamente, si contribuisce a un possibile processo di caduta in desuetudine della norma, perlomeno nella sua attuale configurazione.

 

Abbiamo visto Cina, Russia e UE. E gli altri Stati?

Si può presumere che gran parte degli Stati dell’Asia centro-meridionale, dell’America latina, dei Paesi arabi e africani condannino l’intervento statunitense, com’è già avvenuto con l’attacco israeliano.

 

Con quali effetti politici?

Il risultato sarebbe quello di una sorta di isolazionismo euro-statunitense non particolarmente positivo.

 

Andiamo all’attacco di Israele all’Iran cominciato nella notte del 13 giugno. Fonti ufficiali dell’IDF lo hanno definito “attacco preventivo storico per eliminare questa minaccia esistenziale contro lo Stato di Israele”. Cosa dice il diritto internazionale?

La legittima difesa preventiva non è permessa dal diritto internazionale, né in concreto – dinanzi, cioè, a un pericolo imminente –, né dinanzi a un pericolo astratto o, per meglio dire, erroneamente presunto, come in questo caso. Infatti, a stare alle ultime dichiarazioni rese dal direttore dell’IAEA alla CNN, la preparazione di un ordigno nucleare da parte dell’Iran non sarebbe alle viste.

 

Ma perché un’azione di difesa, appunto, “preventiva” è illegittima?

Perché l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, di cui Iran e Israele sono parti, ammette l’uso della forza armata solo in risposta a un attacco armato già sferrato; e tale norma corrisponde anche al diritto internazionale generale, nel senso che quest’ultimo non si è evoluto nel senso di una deroga più ampia rispetto al fondamentale divieto dell’uso della forza. C’è una considerazione ulteriore da fare a questo proposito.

 

Prego.

Se ammettessimo la possibilità di difendersi con le armi dinanzi a un pericolo astratto, come in questo caso, dovremmo ritenere lecito anche l’attacco armato russo all’Ucraina, perlomeno nella misura in cui questo è stato espressamente giustificato con la necessità della Russia di reagire alla prospettiva dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, specificamente prescritta da una norma della Costituzione di quel Paese.

Qui occorre sottolineare due aspetti. Il primo è che il regime degli ayatollah si propone di cancellare quella che definisce “entità sionista”. Il secondo è che l’arricchimento dell’uranio attuato dall’Iran è ritenuto preliminare alla realizzazione dell’arma atomica. Cosa risponde?

Una cosa sono le affermazioni, altra le possibilità effettive e i comportamenti concreti: l’Iran non ha la benché minima possibilità di “cancellare” Israele. Primo, perché non ne ha la capacità militare, dato che quest’ultimo dispone, probabilmente, dell’arma atomica. Secondo, perché sarebbe immediatamente attaccato – e probabilmente distrutto – dagli Stati Uniti. Ciò accadrebbe anche nel momento in cui l’Iran si procurasse una bomba nucleare e dovesse usarla: un minuto dopo sarebbe esposto a una devastante rappresaglia americana. A Teheran lo sanno benissimo, perciò le loro intemerate contro Israele sono essenzialmente propagandistiche.

Gli esperti ritengono che l’arricchimento dell’uranio oltre il 60% sia un chiaro indizio della volontà di Teheran di costruire l’arma nucleare. Nessun reattore civile usa combustibile così arricchito e arrivare al 90% richiede un lavoro nettamente inferiore a quello già realizzato. Come mai l’IAEA non ha approvato all’unanimità la relazione sull’ultima ispezione dei siti iraniani, sempre renitente ai controlli e scarsamente collaborativo ?

Certamente il comportamento iraniano non è in linea con gli obblighi derivanti dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), a stare a quanto emerge dall’ultimo rapporto IAEA. Ma di qui a ritenere che ci sia l’intenzione di pervenire alla fabbricazione di una bomba al fine di usarla contro Israele, ce ne corre. Beninteso: essendo l’Iran parte del TNP, esso è obbligato a usi esclusivamente civili del nucleare; dunque, costruire ordigni nucleari costituirebbe una violazione del Trattato. Ma, come ho appena detto, escludo che ciò sarebbe fatto nella prospettiva di distruggere Israele.

 

E con quale finalità avverrebbe, invece?

Semmai nella prospettiva di dissuadere qualsiasi attacco israeliano, dunque in una prospettiva difensiva. Ammesso e non concesso che effettivamente gli iraniani stessero procedendo in questa direzione, mi pare poi che la reazione israeliana sia la più plastica dimostrazione del fatto che armarsi a fini difensivi alimenta escalation che finiscono per generare null’altro che guerre.

 

Che cosa bisogna fare?

Il problema vero è lavorare per ricreare fiducia, non per accrescere diffidenza.

 

In sintesi: TNP, Israele e Iran, come stanno le cose?

Come ho appena detto, l’Iran è parte del TNP, Israele no; e Israele, probabilmente, possiede l’atomica. Ma neppure se fosse parte del TNP Israele sarebbe titolato a reagire con la forza alle violazioni del Trattato, commesse, in ipotesi, dall’Iran. Figuriamoci non essendone parte!

 

Eppure “l’Iran non deve avere l’atomica” è un assunto politico consolidato in Occidente. Lo ripetono tutti.

Giuridicamente non ha alcun valore. Anzi esso rappresenta un disvalore, nella misura in cui esprime la chiara propensione, da parte dell’Occidente euroatlantico, a usare doppi standard. Va detto che la maggior parte degli Stati non europei – con alcune eccezioni fra cui Argentina e India – si sono apertamente schierati contro l’intervento israeliano, dunque contro la posizione espressa dal G7, che ha sostanzialmente ratificato l’intervento israeliano, incongruamente definendolo difensivo.

 

Come commenta quanto ha dichiarato lo storico israeliano Benny Morris al Corriere della Sera? Il possesso di armi nucleari da parte di Israele è legittimo “Perché noi siamo una società democratica occidentale e loro sono un regime fanatico messianico islamico”.

Si tratta di affermazioni che si commentano ampiamente da sole. Sono però istruttive, perché dimostrano che la guerra all’Iran riscuote consenso diffuso in Israele e perché, nella sua brutalità, Morris dice il vero quando osserva che Netanyahu non fa altro che quello che, da anni – senza un’idea o uno straccio di strategia in testa –, vorrebbero fare USA ed europei con l’Iran. Lo dimostra la recente dichiarazione di Merz sul “lavoro sporco” che Israele starebbe facendo.

 

Quanto accaduto a Gaza dopo il 7 Ottobre riguarda in qualche modo anche la guerra tra Israele e Iran?

Direi che nella strategia di liquidazione della questione palestinese manu militari, e in completo disprezzo per il principio di autodeterminazione, l’attacco all’Iran si inserisce piuttosto bene. Non vi è nessuna prova che l’operazione terroristica del 7 Ottobre sia stata condotta sotto il controllo e la direzione iraniana, e credo che l’idea di arrivare a uno showdown con l’Iran fosse già parte dei piani israeliani da anni.

 

(….)

https://www.ilsussidiario.net/news/usa-vs-iran-perche-la-guerra-di-trump-e-israele-e-fuori-dalle-regole-del-diritto-internazionale/2848875/#:~:text=USA-,USA%20vs%20IRAN/%20%E2%80%9CPerch%C3%A9%20la%20guerra%20di%20Trump%20e%20Israele%20%C3%A8,(Federico%20Ferra%C3%B9),-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

(Federico Ferraù)


domenica 22 giugno 2025

L’ansia della pace da Pio IX a Francesco

 


L’ansia della pace da Pio IX a Francesco (p.Occhetta, 2023)

 

La Chiesa davanti alle guerre del Novecento, che hanno provocato un numero di morti tre volte superiore a quelli che si erano avuti dal I al XIX secolo. Quali tappe caratterizzano l’evoluzione della «teologia della pace» nei pontificati dall’Ottocento a oggi?

 

Quale posizione ha assunto la Chiesa davanti alle guerre del Novecento, che hanno provocato un numero di morti tre volte superiori a quelli che si erano avuti dal I al XIX secolo? Quali tappe caratterizzano l’evoluzione della «teologia della pace» nei pontificati compresi tra Pio IX e Francesco?

A partire dalla metà del secolo scorso la guerra tradizionale si è trasforma in «guerra moderna», quella dell’era nucleare. Dopo la caduta del Muro di Berlino (1989), invece, è cresciuto il numero dei conflitti all’interno degli Stati, come quello in Kosovo, le «guerre dimenticate» dell’Africa, le interminabili «guerre civili» dell’America Latina, le rivolte del Medio Oriente.

Evolve la natura della guerra: la guerra non è più combattuta da Stati, negli ultimi anni del secolo XX è emersa la guerra dal «volto religioso», causata dai conflitti etnici o dal terrorismo internazionale.

Ma non solo. I conflitti maggiori provengono dagli interessi privati, basti pensare ai conflitti finanziari con i conseguenti mutamenti internazionali e l’estensione del dominio privato al di là della politica democratica. Poi, per la prima volta nella storia dei Parlamenti, non ci si è limitati a ratificare la decisione dei propri governi (democratici o autoritari) sulle guerre. Da Obama a Cameron e Hollande hanno dovuto fare i conti con i loro Parlamenti. Infine il ruolo dei media diviene sempre più importante come condizione di pace e di guerra. Insomma una prima breve conclusione ci porta a dire che il futuro della pace passerà sempre di più attraverso il controllo dell’opinione pubblica perchè nella società civile è cresciuta la coscienza della pace.

 

La guerra come inutile strage

La riflessione sulla pace, durante il pontificato di Pio IX (1846-78), avvicinò cattolici e protestanti che promossero insieme una scuola a Roma per lo studio del diritto internazionale e la formazione di arbitri internazionali indipendenti per la risoluzione dei conflitti tra Nazioni.

In questi anni uno dei contributi di maggior rilievo è stato quello del gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio, tra i fondatori della Civiltà Cattolica, i cui studi sulla pace e la guerra diventeranno il punto di riferimento per il pensiero dei Papi fino a Giovanni XXIII, di giuristi e politici. Taparelli riteneva immorale che gli Stati sovrani potessero ritenere legittimo entrare in guerra, se un’organizzazione internazionale, che chiamò etnarchia, avesse impedito ogni ricorso alle violenze tra Stati.

Leone XIII (1878-1903), erede di questa tradizione, iniziò a sistematizzare una proposta di «pace politica» e nella conferenza sul disarmo dell’Aja del 18 maggio 1899, a cui parteciparono 26 Stati, il Pontefice venne riconosciuto da alcune Nazioni come garante dei conflitti in forza della sua «paternità universale».

In questo periodo la Santa Sede inizia ad avere credibilità nel campo internazionale proprio grazie al tema della pace.

La Nota ai belligeranti del 1° agosto 1917, in cui Benedetto XV definì la guerra una «inutile strage», è stata la proposta di uno schema dettagliato e pratico che nessun Capo di Stato riuscì a proporre per negoziare la pace. Nonostante la sua proposta sia stata ostacolata dalle grandi potenze, ancora oggi in campo diplomatico Benedetto XV viene considerato «il Papa della pace».

Durante la seconda guerra mondiale, Pio XII sarà il primo Papa ad esporre organicamente «i presupposti essenziali di un ordine internazionale», riproponendo il pensiero di Taparelli nel radiomessaggio del Natale del 1942.

Si calcola che durante la guerra la Chiesa guidata da Pio XII salvò la vita a circa 800.000 ebrei. Basterebbe questo dato per rispondere alle accuse di silenzio davanti al genocidio e di un suo presunto appoggio ai regimi totalitari.

 

L’idea positiva di pace

Con Giovanni XXIII l’idea di pace diventa «positiva», il suo significato si amplia e include i diritti umani, una nuova idea di democrazia, la volontà di creare strutture internazionali di governo che la garantiscano.

Nell’archivio di Civiltà Cattolica è custodita una lettera di Giovanni XIII al direttore, l’attuale card. Tucci, in cui si sottolinea la volontà di porre le basi per un’etica civile che ricerchi la pace che non fosse né religiosa né antireligiosa, ma «laica», fondata su una razionalità etica condivisa dalla maggioranza che crede nella costruzione di una società democratica. Era il sogno di Taparelli.

Con Paolo VI (1963-1978) la Chiesa introduce una vera rivoluzione epistemologica nella dottrina sulla pace distinguendo, nel campo della morale sociale, una doppia natura della pace: «la pace interiore» e la «pace esteriore». I gesuiti vennero incaricati dal Papa di scrivere i più importanti discorsi sul tema. Per studiare l’evoluzione della teologia della pace, oltre al suo messaggio alle Nazioni Unite nel 1965 in cui gridò «mai più la guerra» ne ricordiamo altri due ancora poco conosciuti: il radiomessaggio del 1967: «Il cammino della pace tra i popoli passa per la “pace del cuore”» e l’omelia del 1° gennaio 1969 nella chiesa dell’Ara Caeli a Roma. La pace, per Paolo VI, è nutrita da una radice spirituale, è un dono che si accoglie e la possono costruire e mantenere coloro che scoprono la pace del cuore.

Al suo pontificato dobbiamo anche l’inizio dell’«educazione alla pace», con gli undici messaggi della Giornata mondiale della pace (1968-1978), da lui inaugurate.

 

La pace come azione politica e profezia

Giovanni Paolo II difese la «pace ad ogni costo» anche davanti a una possibile guerra totale e di religione, che molti politologi prevedevano in seguito all’attacco di Al Quaeda alle torri gemelle. Bastava che Giovanni Paolo II entrasse in quella trappola infernale, attaccasse genericamente l’Islam… e il mondo si sarebbe trovato diviso e schierato in base alla confessione religiosa. Non andò così per una scelta profetica.

In due encicliche, la Sollicitudo rei socialis (1987) e la Centesimus Annus (1991), Giovanni Paolo II aveva posto le sue idee sulla pace ma è nella Giornata di Assisi del 27 ottobre 1986 che presentò la sua proposta profetica di pace. Cristiani, ebrei e musulmani si riunirono per la prima volta per chiedere insieme il dono della pace. Il messaggio era allo stesso tempo semplice e chiaro: l’uomo credente deve vivere e insegnare la riconciliazione, la mediazione pacifica nei conflitti sociali, la possibilità di una vita comunitaria autentica. Queste sono le «armi» in mano alle religioni per costruire la pace.

Nel 1991 i gesuiti di Civiltà Cattolica scrissero un articolo affermando che con l’avvento della «guerra totale» la guerra non è in alcun modo permessa ed è sempre un intrinsece malum. L’articolo fu voluto e difeso da Giovanni Paolo II. Ma il mondo cattolico si divise. Viene così superata la dottrina tradizionale della guerra giusta.

Per i gesuiti, si legge negli archivi ancora segreti della Civiltà Cattolica, la questione, oltre ad essere di natura epistemologica, è anche semantica. Cambiando la sua natura, la guerra deve cambiare anche il linguaggio che la spieghi. La Chiesa di Giovanni Paolo II chiede di abbandonare l’uso della parola «guerra» e parla di «conflitti armati», che giustifica nei casi di legittima difesa e di ingerenza umanitaria.

Benedetto XVI ha consolidato la prassi e la dottrina precedente. Durante il suo pontificato gli sforzi della Chiesa in campo diplomatico hanno puntato sulla prevenzione della pace, chiamata anche transitional justice. Durante il suo discorso alle Nazioni Unite del 18 ottobre 2008, ha accolto il principio di «responsabilità di proteggere» (The responsibility to protect). Ma l’impegno della Chiesa è anche sullo ius prae-bellum. La dottrina sociale della Chiesa chiede di investire nella formazione, nello sviluppo economico, nelle buone governances, nelle organizzazioni internazionali, nell’impegno a sottoscrivere patti regionali. Concretamente si stanno appoggiando le politiche di riduzione degli armamenti nucleari e la riforma del Consiglio di Sicurezza, che tenga in debito conto i mutati equilibri geopolitici.

 

La pace da costruire nelle periferie sociali

In questa “nuova” situazione sociale ed ecclesiale papa Francesco ha assunto un atteggiamento peculiare di fronte alla grande missione della Chiesa sul tema della Pace. Certo si rivolge alla politica, ma i suoi rappresentanti non sono i suoi interlocutori privilegiati. Innanzitutto il Papa ha compreso che il problema oggi non si pone più in termini «nazionali» come per i suoi predecessori; anche quando i conflitti sono apparentemente limitati, in realtà sono conflitti globali in quanto anche nel piccolo sono coinvolti gli stessi attori che gestiscono le scene internazionali. La soluzione che papa Francesco sta proponendo è quella del bottom up, dal basso, dai corpi intermedi, dalle associazioni, Ong, sindacati ecc., il mondo del terzo settore, quello del welfare state.

Per questo il Papa parla sempre più di portare la pace dove c’è violenza. E lo fa con la preghiera. Una veglia di pace davanti al Santissimo per chiedere di evitare un attacco della Siria è stata una «bomba di pace» a cui hanno aderito tutti gli uomini di buona volontà.

Una forma di guerra secondo il Pontefice è ciò che anima la tratta delle persone, le ingiustizie sociali ecc. Sono dunque le “periferie” da ri-pacificare! Il modo per farlo è quello studiato negli ultimi anni del Novecento. Rompere, attraverso la cultura e l’educazione, il duopolio di Hobbes dove l’altro è il possibile nemico, e favorire, attraverso processi di riconciliazione civile, l’amicizia civica in cui l’altro è concittadino. Portare pace alle «guerre sociali» comporterà una nuova ricollocazione della natura delle guerre: l’impegno a portare la pace nell’economia e nella scuola, fino alla ricerca scientifica per preparare non «individui egoisti», ma «persone in relazione e interconnesse» l’una con l’altra per cooperare insieme.

La parola d’ordine sulla pace di papa Francesco è “pacificazione”. E questa grazie sia alla misericordia di un dono, che è quello del perdono, che fa cambiare le sorti della storia e sia all’ascolto maturo della voce della propria coscienza che aiuta a rispettare un principio antico: bonum faciendum et male vitandum.

Da più di un secolo la Chiesa è ritornata a parlare in forma esplicita e radicale del «Vangelo di pace» (At 10,36) davanti alla guerra, e lo fa senza assumere posizioni “ideologicamente pacifiste”, ma realiste, possibili nella contingenza della storia. I Pontefici si sono mossi con una preoccupazione comune: proteggendo i più deboli nei conflitti, limitando i danni delle guerre, costruendo coscienze e comunità di pace.

Per noi questo insegnamento è un’eredità da vivere.

(….)

https://www.sussidiarieta.net/cn1583/l-ansia-per-la-pace-da-pio-ix-a-papa-francesco.html#:~:text=La%20Chiesa%20davanti,un%E2%80%99eredit%C3%A0%20da%20vivere.


giovedì 19 giugno 2025

LA RESISTENZA IRANIANA/ “No a bombe e ingerenze esterne, serve una terza via, ecco quale”


 

LA RESISTENZA IRANIANA/ “No a bombe e ingerenze esterne, serve una terza via, ecco quale”

Int. Ghazal Afshar Pubblicato 19 Giugno 2025 - Aggiornato alle ore 13:18

 

No alla guerra, no all’accondiscendenza nei confronti del regime. La resistenza iraniana ha un’alternativa e fa un appello alla comunità internazionale

Niente dialogo con il regime e niente guerra. Per liberare l’Iran c’è una terza via da percorrere, quella indicata dal Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI): l’attuale gruppo di potere va isolato anche a livello internazionale per favorire una transizione il più possibile pacifica, osserva Ghazal Afshar, iraniana residente in Italia, portavoce dell’associazione dei Giovani iraniani, nella quale sia il popolo a dire quale Paese vuole e non forze esterne che agiscono in base ai loro interessi e non a quelli della gente.

Gli oppositori degli ayatollah che fanno capo all’esperienza del loro parlamento in esilio si fanno avanti e chiedono una soluzione della crisi iraniana senza spargimento di sangue, proprio mentre USA e Israele si preparano a sganciare le bombe più potenti per intaccare i siti nucleari iraniani. Con Trump che intima di arrendersi e Khamenei che risponde che non lo farà mai.

Cosa pensa l’opposizione iraniana della guerra scatenata da Israele?

Parlo per conto dell’Associazione dei Giovani Iraniani, che sostiene da sempre il CNRI. Fin dall’inizio di questo ennesimo conflitto scoppiato nella regione abbiamo ribadito che l’opzione non può essere tra l’appeasement con il regime e la guerra, perché esiste una terza via più che percorribile, quella presentata ormai da vent’anni dalla presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, Maryam Rajavi. Una via che riconosce la lotta del popolo iraniano e la sua resistenza contro ogni forma di dittatura, sia quella precedente dello Scià, sia quella attuale dei mullah, sulla base di un piano in dieci punti presentato nel 2006 al Consiglio d’Europa.

Il piano cosa prevede?

Tra i punti chiave ci sono l’istituzione di una Repubblica basata sulla separazione tra religione e Stato, l’uguaglianza di genere, l’abolizione della pena di morte: il regime è il detentore del record di esecuzioni capitali. Vogliamo un Iran non nucleare e pacificato.

Materialmente come volete realizzare questi punti? Chiedete che Israele smetta di attaccare?

Questa è una guerra avviata in seguito alle azioni del regime, ma la guerra principale che si sta combattendo nel nostro Paese non è tra il regime e Israele, ma tra il regime e la popolazione iraniana. Non vogliamo puntare l’attenzione su ciò che dovrebbe fare una forza esterna che ha attaccato, ma sulla necessità di considerare l’alternativa che è rappresentata dal Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, una sorta di parlamento in esilio, con tanto di commissioni, che ha una rete di sostenitori all’interno del Paese.

Come si arriva a far cadere Khamenei e il suo gruppo di potere?

Non vogliamo ingerenze esterne perché gli attori coinvolti farebbero i loro interessi, che non hanno nulla a che vedere con la lotta del nostro popolo. Chiediamo semplicemente di isolare l’attuale regime, di mettere da parte i tentativi di dialogo e quelli per cercare di riformarlo. E di inserire il Corpo delle Guardie della Rivoluzione nella lista dei terroristi.

Quindi volete che la comunità internazionale riconosca il CNRI come governo legittimo?

La comunità internazionale non deve più riconoscere il regime come interlocutore, ma rivolgersi al Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana. Non vogliamo né armi, né denaro, né potere, ma solo isolare un regime che è vulnerabile.

La vostra, quindi, è una via non violenta, che prevede solo l’uso delle “armi” diplomatiche?

Esattamente. Pensiamo a una transizione pacifica e democratica, che non preveda spargimento di sangue per bombe che, volenti o nolenti, comunque portano alla morte indiscriminata di civili. Da chiunque arrivino. Il problema è capire perché siamo arrivati a questo punto, dopo decenni di accondiscendenza nei confronti del regime, che hanno permesso di organizzare la repressione esportando il terrorismo. Il CNRI ha anche il merito di aver smascherato per la prima volta nel 2002 gli impianti nucleari segreti del regime iraniano, ai quali si è aggiunta la realizzazione di missili con una gittata di oltre 3mila chilometri, che potrebbero arrivare nel cuore dell’Europa

 

(….)

https://www.ilsussidiario.net/news/la-resistenza-iraniana-no-a-bombe-e-ingerenze-esterne-serve-una-transizione-pacifica-ecco-come/2847044/#:~:text=ESTERI-,LA%20RESISTENZA%20IRANIANA/%20%E2%80%9CNo%20a%20bombe%20e%20ingerenze%20esterne%2C%20serve%20una,Iran%20minaccia%20il%20mondo%2C%20Merz%3A%20%E2%80%9CIsraele%20fa%20lavoro%20sporco%20per%20noi%E2%80%9D,-ULTIME%20NOTIZIE%20DI

(Paolo Rossetti)

 

 


mercoledì 11 giugno 2025

Messaggio in occasione del Pellegrinaggio Macerata-Loreto (14-15 giugno 2025)


 

Messaggio in occasione del Pellegrinaggio Macerata-Loreto (14-15 giugno 2025)

 

Cari amici,

sono grato a voi tutti, organizzatori e pellegrini, per aver dato la vostra disponibilità a

partecipare a questo gesto così importante per la storia del nostro movimento, che vuol essere un

contributo a sostenere la missione della Chiesa nel drammatico frangente storico in cui oggi siamo

chiamati a vivere.

Anzitutto, siamo chiamati. Dice don Giussani: «La vita razionale dell’uomo dovrebbe essere

sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale

che sono le circostanze» nelle quali ci troviamo a vivere (Il senso religioso, Bur, Milano 2023, p.

189). Circostanze che talvolta appaiono difficili da decifrare, faticose, persino ostili, ma davanti alle

quali siamo chiamati a stare, come Maria che, davanti al dolore innocente di suo Figlio sulla croce,

mentre gli apostoli fuggivano, “stava” – Stabat Mater – perché era davanti a una presenza. Per lei, la

prima chiamata dell’Angelo non si era esaurita; quella promessa di felicità, di giustizia, di amore che

le era stata annunciata nella sua casa di Nazareth, custodita a Loreto, coincideva anche in quel

momento con una presenza, con Gesù sulla Croce, ed era destinata a durare per sempre.

Per questo il vostro gesto è prezioso. Dobbiamo chiedere a Maria di essere come lei, «figlia

del [suo] figlio»: dobbiamo chiederLe la grazia di essere davvero liberi, cioè di assecondare

l’attrattiva di Cristo presente dentro le circostanze, di accettare quella simpatia profonda che si

impone nell’incontro con Lui presente “qui e ora”, anche a distanza dal primo incontro. È solo questo,

infatti, che ci permette di “stare” dinanzi a qualunque circostanza.

Anche noi, come Maria, siamo chiamati, con-vocati attraverso un incontro, che per noi ha

assunto i tratti di una compagnia umana che ci ha raggiunto e coinvolto: ciascuno chiamato con il

proprio nome, dunque, ma insieme. In un mondo sempre più segnato dalle divisioni tra Stati e culture,

tra popoli e persone, la nostra unità costituisce un segno per tutti del destino di amore e di pace cui

tutti siamo chiamati.

È a questo che papa Leone XIV ci sta instancabilmente richiamando fin dall’inizio del suo

ministero petrino, quando ha indicato nell’amore e nell’unità «le due dimensioni della missione

affidata a Pietro da Gesù» e ci ha invitato a essere «un piccolo lievito di unità, di comunione, di

fraternità»: «Questo, fratelli e sorelle, vorrei che fosse il nostro primo grande desiderio: una Chiesa

2

unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato» (Omelia per

l’Inizio del Ministero Petrino, 18 maggio).

Non c’è nulla di più urgente che far nostro il desiderio indicatoci dal successore di Pietro,

affidandoci – come lui ha fatto il giorno stesso della sua elezione – a Maria.

Quando Giussani si recò in pellegrinaggio a Lourdes nel 1992, in occasione del decennale del

riconoscimento ecclesiastico della Fraternità di Comunione e Liberazione, ebbe a dire che «la vita

intera del mondo, di tutti gli uomini, è legata come possibilità di equilibrio e di felicità, di calore e di

pace, a questa coscienza di essere figli, nel rapporto con il seno fecondo della Vergine Maria. A noi

cristiani questo è dato, come per caso, cioè per Grazia. Ma perché a noi? Perché lo riveliamo agli

altri! E così, in questa figliolanza siamo di fronte al mondo. Sì, di fronte a questo mondo: disperato e

cinico, che riconosce come unico fattore il potere, e perciò la violenza» («A riscoprire una coscienza

di figli», Avvenire, 17 ottobre 1992, p. 1).

Recandovi in pellegrinaggio alla casa di Maria, potrete porre voi stessi, il nostro movimento

e la Chiesa intera nelle braccia della Madre, certi del suo amore per noi, chiedendo a lei la grazia della

nostra unità come profezia di pace per il mondo, secondo le intenzioni del Papa.

Buon cammino!

In amicizia,

Davide Prosperi

lunedì 9 giugno 2025

La fedeltà dinamica - La crisi come opportunità - Domande e risposte co...

O la Pentecoste o la Babele

 


O la Pentecoste o Babele

Nella Pentecoste accade qualcosa di nuovo, impensabile senza lo Spirito. Si rinnova il miracolo dell’io e con lui il dono di una unità nuova

Simone Riva Pubblicato 8 Giugno 2025

 

“Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?” (At 2, 8). Il segno che è accaduto qualcosa di nuovo, che quel “fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso” non ha lasciato le cose come le ha trovate, è tutto contenuto in quella domanda che si fanno le persone radunate sotto il cenacolo, dove gli apostoli erano chiusi a doppia mandata per paura di tutto e di tutti.

All’improvviso, il fatto di avere diverse provenienze non è più un problema. Viene capovolta la logica della torre di Babele, ben descritta dall’allora arcivescovo di Monaco e Frisinga nell’omelia per la Pentecoste del 1977: “Mentre stavano costruendo insieme, si trovarono improvvisamente a costruire uno contro l’altro. E mentre cercavano di diventare dèi corsero il rischio di non essere più neanche uomini, poiché in essi andò distrutto ciò che c’è di più umano, l’accordo e la capacità di comprendersi” (Joseph Ratzinger/Papa Benedetto XVI, Vieni, Spirito Creatore. Omelie sulla Pentecoste, Lindau, Torino 2006, p. 12).

Luca, nel testo degli Atti, parla di “lingua nativa”, escludendo così l’improvvisa abilità degli apostoli nell’esprimersi in greco, lingua franca di allora, e facendoci capire che non si trattò neppure di un acume particolare che li mise nella condizione di accordare tutti con ragionamenti o strategie.

Lo Spirito Santo, piuttosto, consentì agli apostoli di raggiungere gli uomini nel loro punto di origine, nella lingua che hanno imparato quando sono nati per entrare in rapporto con la realtà. Il dono della Pentecoste ha a che fare con il primo linguaggio nel quale ogni uomo si sente a casa, dove i termini non sono equivocati e le flessioni degli accenti non confondono i significati.

Questo spiega lo stupore di tutti, degli apostoli e della “folla che si radunò turbata perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua” (At 2, 6). In effetti lo stupore diventerà il vero nuovo linguaggio dello Spirito, che precede anche la capacità di esprimersi. Non a caso, uno dei segni di chi si stupisce è il rimanere “a bocca aperta”, senza bisogno di dire una parola. Dio mette l’umanità davanti alla sua opera e questo accorda i cuori.

Benedetto XVI ribadì questo metodo divino nella sua omelia per la Pentecoste del 2006: “Restare insieme fu la condizione posta da Gesù per accogliere il dono dello Spirito Santo; presupposto della loro concordia fu una prolungata preghiera. Troviamo in tal modo delineata una formidabile lezione per ogni comunità cristiana. Si pensa talora che l’efficacia missionaria dipenda principalmente da un’attenta programmazione e dalla successiva intelligente messa in opera mediante un impegno concreto. Certo, il Signore chiede la nostra collaborazione, ma prima di qualsiasi nostra risposta è necessaria la sua iniziativa: è il suo Spirito il vero protagonista della Chiesa. Le radici del nostro essere e del nostro agire stanno nel silenzio sapiente e provvido di Dio”.

Quando il punto di partenza siamo noi, e i nostri tentativi, presto o tardi torniamo al metodo della torre di Babele e, in nome degli ideali più alti, anziché essere uno per l’altro ci ritroviamo “improvvisamente a costruire uno contro l’altro”. Con grande realismo Benedetto XVI ci ha ricordato che questo rischio è per tutti, persino per le comunità cristiane.

(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/6/8/o-la-pentecoste-o-babele/2842561/#:~:text=CHIESA-,O%20la%20Pentecoste%20o%20Babele,Come%20mai%20ciascuno%20di%20noi%20sente%20parlare%20nella%20propria%20lingua%20nativa%3F%E2%80%9D.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

Dio permette comunque tutto questo perché il metodo della Pentecoste non cambi: devo esserci io. Se manca uno che dica “io” in piena libertà lo Spirito non avrebbe su chi posarsi. Così fiorisce il dono dell’unità, come l’ha presentata papa Leone nell’omelia di domenica 1° giugno: “Il Signore non vuole che noi, per unirci, ci sommiamo in una massa indistinta, come un blocco anonimo, ma desidera che siamo uno: ‘Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola’. L’unità, per la quale Gesù prega, è così una comunione fondata sull’amore stesso con cui Dio ama, dal quale vengono al mondo la vita e la salvezza. E come tale è prima di tutto un dono, che Gesù viene a portare. È dal suo cuore di uomo, infatti, che il Figlio di Dio si rivolge al Padre dicendo: ‘Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me’”.

Cristo pone la Trinità come paradigma della vera unità. E perché, nella storia, questo non si riduca a un discorso, lo Spirito Santo elargisce i doni carismatici come provocazione per tutta la Chiesa che può così godersi “una Pentecoste ancora in cammino” (Verbum Domini n. 4).

Doni carismatici che, affidati a uomini e donne concreti, domandano di essere attualizzati e non semplicemente ripetuti, come sottolinea Jesús Morán nel suo bel testo Fedeltà creativa. La sfida dell’attualizzazione di un carisma (Città Nuova 2016): “Così come accade per la Tradizione della Chiesa – poiché custode della Rivelazione – anche per noi vale il principio che questa non s’identifica mai solo con una mera trasmissione scritta o orale. La vera Tradizione non riguarda qualcosa che semplicemente sopravvive, ma qualcosa che c’è stato, è, e sarà. Non si tratta quindi di ripetizione ma di continuazione verso un’attualizzazione sempre più ampia, e questo non dipende solo da una prova documentale, che può essere addirittura azzardata o frammentaria, e comunque sempre suscettibile di interpretazioni anche problematiche” (p. 24).

 

Poiché molti sono capaci di “ripetere”, ma non tutti di “attualizzare”, questo resterà un criterio insuperabile per verificare cosa rimane, nella storia, di un dono dello Spirito, evitando di trovarsi, quasi senza accorgersi, distratti e rassegnati nella sequela di altro, con il volto di un discorso formalmente giusto ma sostanzialmente mondano.

(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/6/8/o-la-pentecoste-o-babele/2842561/#:~:text=CHIESA-,O%20la%20Pentecoste%20o%20Babele,Come%20mai%20ciascuno%20di%20noi%20sente%20parlare%20nella%20propria%20lingua%20nativa%3F%E2%80%9D.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

Per questo don Morán precisa che l’attualizzazione di un carisma “consiste nel creare le condizioni perché chi riceve il suo annuncio sperimenti di riceverlo dall’anima stessa del fondatore” (Ibidem, p. 33). La Pentecoste, dunque, riaccade ancora oggi spalancando, come il suo primo giorno, le porte per l’uomo a una sfida inesausta per la conquista del suo vero sé, commossa e stupita, tanto da rimanere “a bocca aperta”, tanto da far sorgere la domanda: “Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?”.