Fontana vivace
Centro Culturale Sipontino, con sede in Manfredonia. Info: fontanavivace@gmail.com
martedì 16 aprile 2024
Beatificazione di don Luigi Giussani: si apre la “Fase testimoniale” (Chiesa di Milano)
venerdì 5 aprile 2024
PASQUA 2024/ Perché Giovanni capì prima di Pietro che Cristo era risorto?
Pubblicazione: 01.04.2024 - Flavia Manservigi
Dopo Maddalena (che Lo vide) Pietro e Giovanni corsero al
sepolcro, come nel quadro di Burnand. Ma Giovanni credette per primo
Una mattina come le altre, quella successiva alla Pasqua
ebraica: era domenica, ma non ancora il dominĭca (dies) – giorno del Signore.
Semplicemente, si trattava del giorno dopo il riposo del sabato, reso forse
speciale solo per il fatto di seguire la festa più importante per il popolo
ebraico.
Per un gruppo di persone in particolare, quella domenica
mattina si ammantava di un velo di dolore acuto, quello che segue la morte di
un congiunto, di un amico, che in quel caso poi era anche un Maestro.
Nel cuore degli apostoli non doveva brillare una gran luce:
soltanto due giorni prima, il loro Maestro, appunto, era stato torturato e
appeso a una croce, come il peggiore dei criminali. Non c’erano risposte a
questa morte atroce; a nessuna morte, allora, era mai stato dato alcun senso o
alcuna risposta. Si moriva e basta. Si andava nel niente. Polvere eri e polvere
ritornerai, senza appello.
Maria Maddalena, col cuore pesante, si reca al sepolcro di
Gesù, e trova la pietra ribaltata. Il sepolcro vuoto. “Hanno portato via il mio
Signore”. Il cuore, già lacerato, si squarcia ancora. Corre dai discepoli
(alcuni di loro, oltre che con il dolore, stavano facendo i conti anche con il
senso di colpa: Pietro, ad esempio, non Lo ha solo abbandonato; Lo ha anche
rinnegato). Ma proprio quel Pietro, mosso dal terrore che sia stato compiuto
anche l’ultimo scempio – il furto del corpo – corre, disperatamente, per quanto
la sua energia e la sua età gli permettevano. Con lui va anche Giovanni; almeno
lui il senso di colpa di averlo abbandonato non lo aveva; ma sicuramente covava
nel cuore il dolore sordo di chi ha visto l’amico deposto nel sepolcro, e la
pietra chiusa per sempre su tutto quello che Lui era stato.
Arriva prima Giovanni, ma non entra, per rispetto a Pietro.
Si abbassa, per dare un primo sguardo a quello che è avvenuto nella tomba.
“Vide le bende per terra, ma non entrò”.
Ed ecco anche Pietro, con il fiatone per la fatica e
l’angoscia; sembra quasi di vederlo. Anche lui si china: “vide le bende per
terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le
bende, ma piegato in un luogo a parte”.
Infine, entra anche Giovanni, e qui accade un fatto
straordinario, perché il discepolo amato “vide e credette”.
Vide, vide, vide. Entrambi videro, ma solo uno dei due, alla
fine, credette.
Ma cosa vide Giovanni, tanto da giustificare in lui il primo
atto di fede in Cristo risorto? Una risposta può venire dal testo originale dei
Vangeli, scritti in greco e tradotti spesso con lemmi che non rispecchiano la
ricchezza della lingua originaria.
Nella traduzione che conosciamo, l’azione visiva dei due
apostoli è sempre tradotta con il verbo “vedere”. Ma nel testo originale, a
questo atto si associa di volta in volta un verbo diverso, con un significato
differente. Il vedere di Giovanni, che, senza entrare nel sepolcro, per primo
vede le bende e il sudario, è reso dal verbo blépein, che significa
“constatare con perplessità”.
Il vedere le bende da parte di Pietro prima di entrare nel
sepolcro è reso dal verbo theorein, che significa “contemplare uno
spettacolo”, ma senza capire.
Quando infine Giovanni entra e osserva pienamente ciò che è
rimasto nel sepolcro, è utilizzato il verbo eiden, che significa
comprendere. Solo in quel momento, Giovanni vede qualcosa di preciso e in base
a quel qualcosa comprende, e, dopo aver compreso, crede nella Resurrezione di
Gesù.
Ma cosa ha visto Giovanni per giungere a questa conclusione?
Il testo italiano dice che vide “le bende per terra”; ma il testo greco usa
un’espressione diversa: ta othonia keimena.
Keimena in greco deriva da keimai, che
significa “giacere, essere disteso, seduto, steso, orizzontale; si dice di una
cosa bassa in opposizione a una elevata, eretta, come per esempio il mare calmo
rispetto al mare agitato”.
Quando Giovanni ha assistito alla deposizione di Gesù nel
sepolcro, ha visto che quelle bende erano alzate, sollevate, perché contenevano
al loro interno il corpo del defunto. Ora Giovanni vede che la posizione delle
bende è la stessa, ma esse non contengono più il corpo di Gesù: si sono
abbassate, svuotate del loro contenuto, ma sono rimaste nella stessa posizione.
Gesù, che è stato avvolto in quel lungo telo, vi è uscito, lasciandolo intatto;
le fasce non sono state manomesse, e il corpo che vi era avvolto si è reso come
meccanicamente trasparente. Da questo fatto, Giovanni capisce che Gesù è
risorto.
Pietro non era stato in grado di giungere a questa
conclusione perché lui non era al sepolcro; non aveva assistito alla
deposizione di Gesù. Giovanni sì; Giovanni era stato con il suo Signore fino
alla fine, e aveva visto in che modo il Maestro era stato deposto nella tomba.
Per questo capisce. Per questo crede.
(….continua su il sussidiario.net)
venerdì 29 marzo 2024
giovedì 14 marzo 2024
ERIK VARDEN. ALLARGARE IL DESIDERIO
Il vescovo norvegese racconta su "Tracce" di Marzo la ricerca dell’amore nel mondo di oggi. La chiave per viverlo. E perché Maria Maddalena sarebbe la «patrona perfetta del XXI secolo»Anna LeonardiLe relazioni non sembrano godere di una buona salute oggi. Molte analisi concordano sul diagnosticare nell’individualismo sfrenato la causa principale dei sintomi di sfiducia, incomunicabilità, invidia, solitudine. Cosa ne pensa?
Mi sembra un quadro cupo. Perlomeno parziale. Certo, queste esasperazioni esistono, ma ci sono anche delle tendenze molto sane. Quello che noto durante la mia attività pastorale è una ricerca di socialità, di comunione anche nei contesti più laici. Qui in Norvegia il dato del volontariato è molto in crescita: fiorisce la voglia di fare con l’altro e per l’altro. Questo significa che la tendenza individualistica della postmodernità non è tutto, c’è anche la percezione che stare imprigionati in se stessi non è un cammino che ci porta alla felicità.
Cosa significa in questo contesto parlare di affettività, amore, amicizia?
Oggi trovo cruciale soprattutto comprendere l’amicizia. Siamo in un tempo in cui le relazioni intime sono ridotte a erotismo o sentimentalismo e questo le rende fugaci, provvisorie. L’amicizia ha, invece, un aspetto più razionale, è un’affinità elettiva. È un tipo di relazione dove è più facile sorprendere quell’anelito a trovare un fondamento stabile e in cui si intuisce che la propria personalità può nutrirsi e costruirsi. In fondo, la santità cristiana si identifica come capacità di amicizia. Cristo ci ha detto: «Voi siete miei amici. Vi ho chiamati amici». L’amicizia è un ambito privilegiato dove possiamo allenarci e imparare a vivere tutte le altre relazioni.
Vede testimonianze di questo oggi?
Sì, per questo non mi sento disperato. Forse noi nel Nord Europa, che abbiamo sempre vissuto in anteprima le varie tendenze delle società occidentali, oggi stiamo risalendo la china e vediamo la luce in fondo al tunnel. Anche se molti sembrano bloccati, il desiderio di costruire relazioni e il riconoscersi dipendenti gli uni dagli altri appare come un punto irriducibile, un seme da cui può generarsi una novità che rende il mondo più umano.
Nel suo ultimo libro, Chastity, afferma che dobbiamo «allargare all’infinito il range del nostro desiderio. Solo così impariamo a cercare le risposte adeguate per cui la nostra carne si strugge e a risparmiarci continue frustrazioni». Può approfondire questa dinamica?
Il desiderio è l’espressione del nostro essere stati fatti da Dio. È qualcosa di intrinseco alla natura umana. Siamo abitati da un’eco, una chiamata. È il Signore che fa cantare in noi la somiglianza con Lui. Il desiderio è il motore della mia vita perché la orienta a una pienezza, che è la comunione con Dio vissuta anche nelle relazioni con gli altri. Il nostro peccato è un sabotaggio del desiderio, che si frammenta verso tanti oggetti diversi. Ma se guardiamo dove ci porta quel desiderio profondo, ci accorgiamo della relatività di tutte le cose che non sono sufficienti a compierlo. E, nel contempo, le riconosciamo nel loro valore più vero, perché solo alla luce di ciò che disseta la vita, anche ogni piccola cosa rivela il suo significato.
C’è un episodio nella vita di don Giussani che lo portò a un’intuizione simile. Era una sera d’estate carica di stelle, e lui uscendo dalla sua parrocchia in bicicletta, sorprese due fidanzati abbracciati. Dopo qualche pedalata si fermò e domandò: «Sentite, quello che state facendo, cosa c’entra con le stelle?». Anni dopo, commentando quel momento, disse: «Quella sera sono andato via lieto, perché avevo scoperto cos’era la legge morale: il nesso tra la banalità dell’istante e l’ordine dell’universo».
Mi trovo assolutamente d’accordo con questa sua osservazione. Il nesso con l’interezza di sé e con l’universo è la chiave per vivere l’amore e ogni rapporto con la pazienza e il sacrificio. Per un cristiano niente può essere banale, tutto viene ricompreso, se vissuto alla luce dello scopo ultimo, che è il bene del mondo. Questo brano mi fa venire in mente Jack, l’ultimo romanzo della scrittrice americana Marilynne Robinson, dove il protagonista, il dissennato figlio di un reverendo del Missouri degli anni Cinquanta, una notte incontra Della, una giovane donna. Jack si offre di starle vicino ma a debita distanza, in modo da proteggerla e non metterla a disagio. I due passano la notte a parlare e c’è un momento apicale in cui lei lo guarda come nessuno aveva mai fatto, ai suoi occhi non è uno sconosciuto ma «un’anima, una presenza gloriosa fuori posto nel mondo». Jack si sente guardato – come è veramente – dentro l’essere ed è trascinato, suo malgrado, a diventarne consapevole. Sa che c’è qualcosa in lei che richiama in modo unico qualcosa in lui. Ed è questo il nesso con lo scopo di cui parla Giussani.
Da cosa ripartire quando ci scontriamo con la debolezza e la fragilità, nostra e altrui, e allentiamo questa tensione ultima?
Nel contesto monastico abbiamo due momenti della giornata dedicati all’esame di coscienza. Cosa ne ho fatto delle possibilità a me date per vivere oggi? Come ho vissuto i rapporti con le cose, con i fratelli? Questa autoconoscenza è un passo necessario perché mi fa stare più attento a me stesso e agli altri. E all’impatto che quello che faccio o non faccio può avere sugli altri. I Padri la chiamano “umiltà”, che altro non è che un sano realismo che ci fa dire addio a tutte le immagini che ci costruiamo di noi stessi. Questo è reso più difficile nel mondo virtualizzato in cui viviamo dove concepiamo noi stessi in termini idealizzati. La capacità di guardare a me stesso per come sono è il primo passo per stare davanti all’altro. Di cui inizio a sentirmi responsabile.
Che cosa vuol dire?
Se concepisco me stesso come il sole in un universo fatto di stelle estinte, rimarrò sempre l’unico soggetto di un rapporto. Certo, magari mi accorgo che gli altri esistono, ma non riconosco loro alcun significato. Invece se mi scopro fatto per la relazione, mi scopro anche responsabile di quella relazione. Posso essere fonte di bene per la vita dell’altro, ma posso anche infliggere ferite profonde. Ci sono rapporti – penso a quello tra genitori e figli – dove questo è molto chiaro. È una relazione reciproca dove però potrebbe capitare che un padre o una madre debbano rinunciare all’essere visti, o addirittura accettare un abbandono. È possibile compiere questo sacrificio rimanendo fermi nel proprio proposito d’amore, che significa tenere sempre la porta aperta. Si tratta di un discorso delicato, perché ci può essere la tendenza malsana a sacrificarsi per salvare l’altro. Ricordiamoci che c’è un unico salvatore, e non sono io, e che ci sono rapporti che solo la pazienza può guarire. Questo vale anche per gli sposi. L’essere umano diventa veramente umano quando esprime questo ultimo sentimento di dedizione al bene dell’altro. Invece noi siamo dediti a reclamare i nostri diritti, a cantare le litanie dei nostri traumi.
(continua su tracce.online
martedì 12 marzo 2024
LA RIVOLUZIONE (E IL SOGNO) DI FRANCO BASAGLIA (Eugenio Borgna)
LA RIVOLUZIONE (E IL SOGNO) DI FRANCO BASAGLIA
L'11 marzo sono cento anni dalla nascita del grande neurologo e psichiatra il cui lavoro ha portato, nel 1978, alla chiusura degli ospedali psichiatrici. Ecco come lo ricorda Eugenio BorgnaEugenio Borgna*Non posso non dire che ho visto poi un manicomio di Milano, e ne sono rimasto angosciato e terrorizzato, comprendendo le ragioni che inducevano Basaglia alla sua coraggiosa e apparentemente temeraria battaglia contro la sopravvivenza dei manicomi italiani, contrassegnati dalla indifferenza alla sofferenza e alla angoscia delle pazienti e dei pazienti. Chiuso nelle mura del manicomio di Novara, non mi accorgevo della insostenibile condizione di vita degli altri manicomi, ho potuto poi conoscere le realizzazioni di Basaglia a Gorizia e a Trieste, e ne sono stato folgorato. Non immaginavo che l’alternativa alle violenze, che constatavo nei manicomi di Milano, fosse solo quella di chiuderli.
Ne conseguiva la legge di riforma del 1978 che ne sanciva la definitiva chiusura, e il modo di fare psichiatria cambiava radicalmente. Non più manicomi, stracolmi di pazienti, ma la territorializzazione della psichiatria: ogni ospedale avrebbe avuto servizi psichiatrici, collegati con ambulatori e con comunità di cura, che consentivano di curare, e di prevenire, i disturbi psichici anche nei luoghi di residenza. Una vera rivoluzione, che sembrava impossibile, e che invece si è realizzata.
Il cuore di questa rivoluzione, che ha cambiato il modo di fare psichiatria in Italia, si è rispecchiata nelle conferenze tenute da Basaglia in Brasile, nelle quali in particolare diceva che noi psichiatri non possiamo non andare alla ricerca di un ruolo che ci metta, per quanto è possibile, alla pari con chi sta male, in una dimensione umana, in cui la malattia sia messa fra parentesi, consentendoci di avvicinarci il più possibile alla sofferenza psichica, e di coglierne la fragilità e la umanità.
La psichiatria manicomiale, che non è nemmeno oggi scomparsa dal modo di agire in alcuni luoghi di cura privati, si radicava nella esclusiva attenzione alla malattia, e non alla soggettività, alla interiorità, alla storia della vita, ai sentimenti, delle pazienti e dei pazienti. La sofferenza psichica non è stata più considerata come qualcosa da analizzare con un gelido sguardo clinico, ma come esperienza umana, ferita dall’angoscia e dal dolore, dalla solitudine e dall’isolamento, che ha bisogno di psicofarmaci, ma anche, e soprattutto, di ascolto e di dialogo, di accoglienza e di gentilezza.
I manicomi sono stati chiusi, ed è stata una cosa di straordinaria importanza non solo clinica ma umana; e nondimeno non meno importante è stata in Basaglia la rivalutazione del senso della sofferenza, che è parte della condizione umana, e alla quale noi tutti dobbiamo accoglienza, e rispetto. Sono valori, che non valgono solo nella cura della follia, e sono valori che dovremmo sapere riconoscere nella nostra vita, e non solo in quella incrinata dalla sofferenza psichica.
https://it.clonline.org/news/cultura/2024/03/11/anniversario-franco-basaglia-eugenio-borgna#:~:text=LA%20RIVOLUZIONE%20(E,occhi%20delle%20pazienti.
sabato 24 febbraio 2024
Messaggi che bucano i muri
Messaggi che
bucano i muri
DELFINA BOERO
Secondo fonti indipendenti, in Russia il numero dei
prigionieri politici è in aumento. Ma parallelamente cresce un’ampia rete di
volontari che visitano le prigioni o scrivono ai detenuti. A volte basta una
lettera o qualche notizia per ricordare loro che qualcuno li pensa.
Il volontariato a favore dei carcerati è sempre stato
praticato in Russia e più o meno «tollerato» da tutti i regimi a cominciare da
quello zarista. Basti ricordare l’aiuto medico e spirituale del dottor Haas ai
forzati o la copia del Vangelo donata a Dostoevskij al suo arrivo nel carcere
di transito di Tobol’sk.
Dopo la rivoluzione la tradizione è proseguita con alterne
vicende: un pacco di indumenti caldi o alimenti diventava un punto di speranza
per tanti detenuti dispersi nell’universo concentrazionario sovietico. Oggi
quest’opera prosegue con l’aiuto delle nuove tecnologie, e in rete si
moltiplicano i gruppi di volontariato che aiutano i prigionieri politici o
offrono linee-guida a chi desidera sostenerli. Sarebbe impossibile menzionare
tutte le iniziative che negli ultimi anni stanno fiorendo in Russia nonostante
le strettoie per cui devono passare.
Ne citeremo solo alcune.
Da dieci anni rosuznik.org («il prigioniero russo») cura la
corrispondenza con i detenuti, spiegando come spedire una lettera cartacea o
mettendo a disposizione un modulo on line per scrivere loro una mail.
Siccome non tutti i luoghi di detenzione hanno un servizio
di posta elettronica per i carcerati, rosuznik stampa le mail dei volontari, e
le spedisce per posta normale insieme a un’altra busta e ai francobolli per la
risposta.
Il sito presenta brevi biografie dei detenuti a cui scrivere
con il loro indirizzo, pubblica brani dalla corrispondenza con i volontari;
spiega le motivazioni del gesto, come vanno redatte le lettere, quali argomenti
evitare per scansare la censura e quali invece sono accettati e possono piacere
a chi sta in carcere. La gestione del sito e le spedizioni sono finanziate solo
dalle offerte dei simpatizzanti. Ad oggi i volontari di rosuznik scrivono a 128
prigionieri in tutto il paese, migliaia le lettere inviate, anche attraverso il
sistema del Servizio federale per l’esecuzione delle pene (FSIN), nonostante
rosuznik non nasconda le proprie posizioni democratiche e spieghi in modo
sobrio ma chiaro che in Russia è in atto una «criminalizzazione dell’attività politica»,
citando dati e fatti.
Nella stessa direzione ma con un taglio diverso lavora il
gruppo facebook «Skazki dlja politzaključënnych» («fiabe per prigionieri
politici»), un progetto «benefico e apolitico» fondato nel 2015, inizialmente a
sostengo delle persone arrestate per le manifestazioni in piazza Bolotnaja a
Mosca.
Negli anni successivi, l’attività si è gradualmente estesa
ad altri detenuti. Coordinata da Elena Efros, madre del regista Evgenij
Berkovič, ha un indirizzario di oltre mille destinatari.
Il progetto non vuole solo far entrare «una boccata d’aria
fresca nello spazio angusto della cella, ma anche ricordare ai detenuti e alle
guardie che la persona non è dimenticata e lasciata sola faccia a faccia con il
sistema». Perché fiabe? «Perché nelle fiabe trionfano sempre la verità, il bene
e la giustizia, che vincono anche nella vita reale, magari non subito ma
immancabilmente».
Le migliaia di lettere inviate finora dai volontari
contengono non solo fiabe in senso stretto, ma anche biografie di personaggi
celebri, viaggi virtuali, notizie sulle novità tecnico-scientifiche o racconti
di vita vissuta. Interessante la variopinta chat dei volontari, che condividono
liberamente notizie sui detenuti a cui scrivono, disegni, racconti sulla vita
di ex prigionieri del GULag, come quello apparso di recente sulla pianista Vera
Lotar-Ševčenko, che fu aiutata da Marija Judina a reinserirsi nella società
dopo anni di lager e di confino.
Una fiaba illustrata da V. Barinov. (facebook)
E se capitasse a me?
L’ultimo frutto di questo fervore creativo è «Tjuremnyj
vestnik», letteralmente Il bollettino carcerario, una rivista artigianale, di
pochi fogli, che vuole colmare il vuoto informativo dei detenuti e rompere
almeno in parte il loro isolamento. Avendo una bassa tiratura, non figura fra i
mass media ed è di fatto un samizdat di nuova generazione, ma prodotto e
distribuito nel pieno rispetto delle leggi russe.
A pubblicarla ormai da un anno è l’informatico Pëtr Losev,
ex coordinatore delle campagne elettorali dell’opposizione. In una recente
intervista al portale indipendente «Važnye istorii» ha spiegato com’è nato il
progetto: nel 2022 hanno messo dentro un suo conoscente, e Pëtr lo ha saputo
solo per caso. «Ho pensato: e se capitasse a me? La gente ha i suoi impegni e i
suoi problemi, non ha tempo di pensare anche ai detenuti, è normale.
Non è normale però che i prigionieri politici, che non
risparmiano forze e salute per noi, vengano dimenticati da tutti. Quindi ho
deciso di dare loro una mano. Se, Dio non voglia, metteranno dentro me o voi,
questo giornalino aiuterà almeno un po’ a mitigare la grigia quotidianità del
carcere».
Losev spiega che il compito principale del «Vestnik» è dare
ai detenuti un’idea di ciò che succede fuori. Non solo la cronaca locale o
mondiale, ma anche «il contesto quotidiano, l’aria che tira, quello che si
pensa e si dice».
Losev ha testato l’efficacia di questa idea durante uno
scambio epistolare con Il’ja Sačkov, direttore di una società di informatica in
carcere per presunto alto tradimento. Ha cominciato a raccontargli in due o tre
frasi gli avvenimenti del mese: la guerra ma anche «le barzellette su Vkusno i
točka» («È buono, punto e basta»), la nuova catena russa di fast food che ha
sostituito McDonald’s dopo l’invasione dell’Ucraina, o i meme su Ryan Gosling
che interpreta Ken nel film Barbie. Il destinatario gli ha risposto che era
proprio questo che gli mancava.
La struttura del «Vestnik» è molto semplice: una cinquantina
di notizie di due o tre frasi, la rubrica «Discussioni su twitter» con i temi
più dibattuti sul segmento russo del social, la colonna scritta da un
prigioniero politico o da un giornalista, brani dalle lettere dei lettori. C’è
anche una rassegna dei meme più famosi del mese.
Ma la principale attrazione è la fantastica copertina, in
cui il disegnatore della rivista riesce a stipare tutti gli avvenimenti del
mese: «Cinquanta rebus su un’unica copertina, e ognuno di questi è una
notizia».
vestnikA giudicare dalle centinaia di lettere di risposta a
ogni numero, fotografate e pubblicate sul canale Telegram di Losev la rivista è
molto apprezzata da detenuti e non. «C’è chi riceveva “Vestnik” in carcere ma
ora è in libertà e ha già scritto delle colonne per noi», spiega l’editore.
Come Andrej Borovikov, ex coordinatore del quartier generale
di Naval’nyj per la regione di Archangel’sk, condannato a due anni e mezzo di
colonia penale, ufficialmente per aver diffuso del materiale pornografico. In
effetti aveva ripostato la clip della canzone Pussy dei Rammstein,
indubbiamente di contenuto hard, che però, a torto o a ragione, circola
liberamente on line in molte parti del mondo. Liberato nel maggio 2023 con una
riduzione di pena di tre mesi, ha raccontato che in carcere si sentiva come un
mendicante che elemosinava «avanzi di informazione», se non altro per far
funzionare il cervello.
«Risposte come queste ci spronano a continuare, perché non
lavoriamo per lo stipendio», commenta Losev, consapevole che in carcere c’è
gente che aspetta. Alcuni detenuti scrivono che, quando ricevono un numero
della rivista, lo danno da leggere a tutta la cella, compresi i delinquenti
comuni, che «vanno matti» per tutto quello che succede in Russia.
Nelle risposte dei prigionieri politici, a volte emergono le
loro storie: Il’ja Jašin, ex deputato comunale condannato a otto anni e mezzo
di colonia penale per «fake news» sull’esercito, ringrazia per la rivista che
legge con interesse: «Incrociando le dita, per ora non ho problemi con la
censura. Ho il sospetto che anche i censori si divertano a leggere queste cose.
Per un prigioniero politico l’informazione indipendente è l’unico habitat
possibile, e i vostri invii sono come una boccata d’aria per chi sta per
soffocare».
Oggi «Vestnik» ha una tiratura di circa 250 copie, ma i
prigionieri politici in Russia sono molti di più. Quando hanno iniziato il
progetto, Losev e i suoi collaboratori si sono serviti di data base già
esistenti, come quello di «Svobot», letteralmente «il bot della libertà», un
bot di Telegram per inviare lettere ai prigionieri politici, ma alla fine hanno
deciso di costruire ex novo un proprio sistema di gestione dei dati, basato su
criteri più attuali: «Siccome vengo dal mondo degli affari e dell’amministrazione,
tutta l’attività operativa di “Tjuremnyj vestnik” è automatizzata fin nei
minimi particolari».
Una scelta peculiare di «Vestnik» è che fra i suoi
destinatari non ci sono solo i prigionieri politici in senso stretto, ma anche
dei detenuti per diserzione e altri reati comuni, il cui orientamento e impegno
politico costituiscono però un’aggravante per la giustizia russa.
Tuttavia, la maggior parte dei destinatari della rivista
sono persone di cui non si sa nulla o quasi, di cui i mass media non parlano e
a cui i volontari non scrivono. «Lavorare con loro è il nostro compito
principale», osserva Losev. «Ho mandato delle lettere ad alcuni attivisti
contro la guerra dei quali perfino il portale indipendente per i diritti umani
“OVD-Info” ha scritto una sola volta e di cui non si hanno più altre notizie.
Molti di loro non hanno mai fatto politica: li hanno messi dentro perché sono
usciti con un manifesto o per dei commenti su Odnoklassniki».
Per passare la censura carceraria, «Vestnik» usa il
«linguaggio esopico»: «Da noi c’è la censura, quindi scriviamo le notizie in
modo che siano inattaccabili. Ad esempio, ne mettiamo alcune in fila. Una sola
non dice niente, ma lette insieme possono significare qualcosa». Sono bandite
le parole che irritano le autorità: «Se loro non chiamano per nome alcuni
personaggi, non lo facciamo neppure noi. Diciamo ad esempio che “il nemico
della corruzione ha dichiarato…”. Oppure, simulando la propaganda russa, scriviamo:
“Se la Russia c’entri con l’attacco all’Ucraina, non è dato sapere…”». Chi vuol
capire, capisca. «Per ora nessuno si è
lamentato che scriviamo in gran parte per allegorie. È tutto chiaro».
Un terzo delle copie arriva stabilmente ai lettori con
allegata una busta per confermare la ricezione della rivista. Gli altri due
terzi non rispondono, forse perché il numero non ha passato la censura o forse
perché il destinatario non ha voglia di mandare la conferma.
Sicuramente nel 3% dei casi il motivo è la censura. Losev
osserva che in alcune colonie penali la mancata consegna delle lettere è dovuta
a semplice incuria, perché gli addetti non sono passati a ritirare la posta o
l’hanno fatto con due mesi di ritardo. Il penitenziario ha l’obbligo di
ricontrollare e consegnare una lettera entro sette giorni dall’arrivo in posta,
ma secondo l’editore il 90% delle lettere vengono recapitate fuori tempo
massimo. Il disservizio secondo Losev dipende dal fatto che quello del censore
in carcere è un mestiere ingrato, poco pagato, e chi lo fa «sta lì a scaldare
la sedia». Ma ci sono anche dei censori autoritari che non consegnano certe
pubblicazioni perché a loro avviso «contengono delle informazioni eversive».
A volte la consegna della corrispondenza viene usata come
strumento di pressione sui detenuti. Tant’è che i redattori di «Tjuremnyj
vestnik» hanno messo in atto un secondo progetto, «Svoboda perepiski» (Libertà
di corrispondenza), per tutelare il diritto dei detenuti a ricevere posta.
Hanno deciso di farlo quando hanno saputo che i censori a volte non solo non
consegnano le riviste, ma possono anche non consegnare le lettere personali,
perché usano la corrispondenza come arma di ricatto. Se un detenuto secondo
l’amministrazione «si comporta bene» gli consegnano la posta, altrimenti no, il
che è esplicitamente illegale.
«Grazie a “Vestnik” siamo riusciti a individuare le persone
a cui l’amministrazione non consegna nulla, fra questi Vladimir Domnin, che di
recente ha battuto il record di permanenza in cella di rigore, 55 giorni». Dopo
che Losev e i suoi collaboratori hanno fatto causa al penitenziario di Uglič,
dove Domnin è detenuto, l’amministrazione del carcere ha cominciato a
consegnargli la posta.
Lo staff di «Tjuremnyj vestnik» è formato da nove persone,
ma a lavorarci stabilmente sono solo in tre: lo stesso Losev, il manager e
l’impaginatore. Il problema principale sono i finanziamenti: «Porterei
volentieri la tiratura a 999 copie, il massimo consentito per legge. E magari
ci piacerebbe registrarlo ufficialmente come mass media, perché chiunque in
carcere possa abbonarsi, ma per ora il budget non lo permette».
«Mi colpisce quanto sia difficile cercare soldi – si
stupisce Losev – Abbiamo un progetto chiarissimo e un obiettivo altrettanto
chiaro: aumentare la tiratura. Di gente che ha i soldi ce n’è, ma quando vado a
chiedere anche una piccola cifra, mi dicono: “È un progetto fantastico, dovete
trovare qualcuno che ve lo finanzi”. Ma io sto chiedendo a voi di farlo!».
Per intanto «Vestnik» va avanti con le offerte della gente
comune.
A parte un caso isolato, al momento i lettori di «Vestnik»
non hanno mai subito vessazioni per il contenuto della rivista.
(continua su La Nuova Europa)
https://www.lanuovaeuropa.org/societa/2024/02/20/messaggi-che-bucano-i-muri/#:~:text=20%20Febbraio%202024-,Messaggi%20che%20bucano%20i%20muri,e%20%E2%80%9CVestnik%E2%80%9D%20e%20%E2%80%9CSvoboda%20perepiski%E2%80%9D%20andranno%20avanti%2C%20ma%20pi%C3%B9%20a%20rilento%C2%BB.,-(foto%20d%E2%80%99apertura%3A%20immagini