O la Pentecoste o Babele
Nella Pentecoste accade qualcosa di nuovo, impensabile senza
lo Spirito. Si rinnova il miracolo dell’io e con lui il dono di una unità nuova
Simone Riva Pubblicato 8 Giugno 2025
“Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua
nativa?” (At 2, 8). Il segno che è accaduto qualcosa di nuovo, che quel
“fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso” non ha lasciato le cose come
le ha trovate, è tutto contenuto in quella domanda che si fanno le persone
radunate sotto il cenacolo, dove gli apostoli erano chiusi a doppia mandata per
paura di tutto e di tutti.
All’improvviso, il fatto di avere diverse provenienze non è
più un problema. Viene capovolta la logica della torre di Babele, ben descritta
dall’allora arcivescovo di Monaco e Frisinga nell’omelia per la Pentecoste del
1977: “Mentre stavano costruendo insieme, si trovarono improvvisamente a
costruire uno contro l’altro. E mentre cercavano di diventare dèi corsero il
rischio di non essere più neanche uomini, poiché in essi andò distrutto ciò che
c’è di più umano, l’accordo e la capacità di comprendersi” (Joseph
Ratzinger/Papa Benedetto XVI, Vieni, Spirito Creatore. Omelie sulla Pentecoste,
Lindau, Torino 2006, p. 12).
Luca, nel testo degli Atti, parla di “lingua nativa”,
escludendo così l’improvvisa abilità degli apostoli nell’esprimersi in greco,
lingua franca di allora, e facendoci capire che non si trattò neppure di un
acume particolare che li mise nella condizione di accordare tutti con
ragionamenti o strategie.
Lo Spirito Santo, piuttosto, consentì agli apostoli di
raggiungere gli uomini nel loro punto di origine, nella lingua che hanno
imparato quando sono nati per entrare in rapporto con la realtà. Il dono della
Pentecoste ha a che fare con il primo linguaggio nel quale ogni uomo si sente a
casa, dove i termini non sono equivocati e le flessioni degli accenti non
confondono i significati.
Questo spiega lo stupore di tutti, degli apostoli e della
“folla che si radunò turbata perché ciascuno li udiva parlare nella propria
lingua” (At 2, 6). In effetti lo stupore diventerà il vero nuovo linguaggio
dello Spirito, che precede anche la capacità di esprimersi. Non a caso, uno dei
segni di chi si stupisce è il rimanere “a bocca aperta”, senza bisogno di dire
una parola. Dio mette l’umanità davanti alla sua opera e questo accorda i
cuori.
Benedetto XVI ribadì questo metodo divino nella sua omelia
per la Pentecoste del 2006: “Restare insieme fu la condizione posta da Gesù per
accogliere il dono dello Spirito Santo; presupposto della loro concordia fu una
prolungata preghiera. Troviamo in tal modo delineata una formidabile lezione
per ogni comunità cristiana. Si pensa talora che l’efficacia missionaria
dipenda principalmente da un’attenta programmazione e dalla successiva
intelligente messa in opera mediante un impegno concreto. Certo, il Signore
chiede la nostra collaborazione, ma prima di qualsiasi nostra risposta è
necessaria la sua iniziativa: è il suo Spirito il vero protagonista della
Chiesa. Le radici del nostro essere e del nostro agire stanno nel silenzio
sapiente e provvido di Dio”.
Quando il punto di partenza siamo noi, e i nostri tentativi,
presto o tardi torniamo al metodo della torre di Babele e, in nome degli ideali
più alti, anziché essere uno per l’altro ci ritroviamo “improvvisamente a
costruire uno contro l’altro”. Con grande realismo Benedetto XVI ci ha
ricordato che questo rischio è per tutti, persino per le comunità cristiane.
(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/6/8/o-la-pentecoste-o-babele/2842561/#:~:text=CHIESA-,O%20la%20Pentecoste%20o%20Babele,Come%20mai%20ciascuno%20di%20noi%20sente%20parlare%20nella%20propria%20lingua%20nativa%3F%E2%80%9D.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94
Dio permette comunque tutto questo perché il metodo della
Pentecoste non cambi: devo esserci io. Se manca uno che dica “io” in piena
libertà lo Spirito non avrebbe su chi posarsi. Così fiorisce il dono
dell’unità, come l’ha presentata papa Leone nell’omelia di domenica 1° giugno:
“Il Signore non vuole che noi, per unirci, ci sommiamo in una massa indistinta,
come un blocco anonimo, ma desidera che siamo uno: ‘Come tu, Padre, sei in me e
io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola’. L’unità, per la quale Gesù
prega, è così una comunione fondata sull’amore stesso con cui Dio ama, dal
quale vengono al mondo la vita e la salvezza. E come tale è prima di tutto un
dono, che Gesù viene a portare. È dal suo cuore di uomo, infatti, che il Figlio
di Dio si rivolge al Padre dicendo: ‘Io in loro e tu in me, perché siano
perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come
hai amato me’”.
Cristo pone la Trinità come paradigma della vera unità. E
perché, nella storia, questo non si riduca a un discorso, lo Spirito Santo
elargisce i doni carismatici come provocazione per tutta la Chiesa che può così
godersi “una Pentecoste ancora in cammino” (Verbum Domini n. 4).
Doni carismatici che, affidati a uomini e donne concreti,
domandano di essere attualizzati e non semplicemente ripetuti, come sottolinea
Jesús Morán nel suo bel testo Fedeltà creativa. La sfida dell’attualizzazione
di un carisma (Città Nuova 2016): “Così come accade per la Tradizione della
Chiesa – poiché custode della Rivelazione – anche per noi vale il principio che
questa non s’identifica mai solo con una mera trasmissione scritta o orale. La
vera Tradizione non riguarda qualcosa che semplicemente sopravvive, ma qualcosa
che c’è stato, è, e sarà. Non si tratta quindi di ripetizione ma di
continuazione verso un’attualizzazione sempre più ampia, e questo non dipende
solo da una prova documentale, che può essere addirittura azzardata o
frammentaria, e comunque sempre suscettibile di interpretazioni anche
problematiche” (p. 24).
Poiché molti sono capaci di “ripetere”, ma non tutti di
“attualizzare”, questo resterà un criterio insuperabile per verificare cosa
rimane, nella storia, di un dono dello Spirito, evitando di trovarsi, quasi
senza accorgersi, distratti e rassegnati nella sequela di altro, con il volto
di un discorso formalmente giusto ma sostanzialmente mondano.
(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/6/8/o-la-pentecoste-o-babele/2842561/#:~:text=CHIESA-,O%20la%20Pentecoste%20o%20Babele,Come%20mai%20ciascuno%20di%20noi%20sente%20parlare%20nella%20propria%20lingua%20nativa%3F%E2%80%9D.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94
Per questo don Morán precisa che l’attualizzazione di un
carisma “consiste nel creare le condizioni perché chi riceve il suo annuncio
sperimenti di riceverlo dall’anima stessa del fondatore” (Ibidem, p. 33). La
Pentecoste, dunque, riaccade ancora oggi spalancando, come il suo primo giorno,
le porte per l’uomo a una sfida inesausta per la conquista del suo vero sé,
commossa e stupita, tanto da rimanere “a bocca aperta”, tanto da far sorgere la
domanda: “Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?”.