lunedì 9 giugno 2025

O la Pentecoste o la Babele

 


O la Pentecoste o Babele

Nella Pentecoste accade qualcosa di nuovo, impensabile senza lo Spirito. Si rinnova il miracolo dell’io e con lui il dono di una unità nuova

Simone Riva Pubblicato 8 Giugno 2025

 

“Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?” (At 2, 8). Il segno che è accaduto qualcosa di nuovo, che quel “fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso” non ha lasciato le cose come le ha trovate, è tutto contenuto in quella domanda che si fanno le persone radunate sotto il cenacolo, dove gli apostoli erano chiusi a doppia mandata per paura di tutto e di tutti.

All’improvviso, il fatto di avere diverse provenienze non è più un problema. Viene capovolta la logica della torre di Babele, ben descritta dall’allora arcivescovo di Monaco e Frisinga nell’omelia per la Pentecoste del 1977: “Mentre stavano costruendo insieme, si trovarono improvvisamente a costruire uno contro l’altro. E mentre cercavano di diventare dèi corsero il rischio di non essere più neanche uomini, poiché in essi andò distrutto ciò che c’è di più umano, l’accordo e la capacità di comprendersi” (Joseph Ratzinger/Papa Benedetto XVI, Vieni, Spirito Creatore. Omelie sulla Pentecoste, Lindau, Torino 2006, p. 12).

Luca, nel testo degli Atti, parla di “lingua nativa”, escludendo così l’improvvisa abilità degli apostoli nell’esprimersi in greco, lingua franca di allora, e facendoci capire che non si trattò neppure di un acume particolare che li mise nella condizione di accordare tutti con ragionamenti o strategie.

Lo Spirito Santo, piuttosto, consentì agli apostoli di raggiungere gli uomini nel loro punto di origine, nella lingua che hanno imparato quando sono nati per entrare in rapporto con la realtà. Il dono della Pentecoste ha a che fare con il primo linguaggio nel quale ogni uomo si sente a casa, dove i termini non sono equivocati e le flessioni degli accenti non confondono i significati.

Questo spiega lo stupore di tutti, degli apostoli e della “folla che si radunò turbata perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua” (At 2, 6). In effetti lo stupore diventerà il vero nuovo linguaggio dello Spirito, che precede anche la capacità di esprimersi. Non a caso, uno dei segni di chi si stupisce è il rimanere “a bocca aperta”, senza bisogno di dire una parola. Dio mette l’umanità davanti alla sua opera e questo accorda i cuori.

Benedetto XVI ribadì questo metodo divino nella sua omelia per la Pentecoste del 2006: “Restare insieme fu la condizione posta da Gesù per accogliere il dono dello Spirito Santo; presupposto della loro concordia fu una prolungata preghiera. Troviamo in tal modo delineata una formidabile lezione per ogni comunità cristiana. Si pensa talora che l’efficacia missionaria dipenda principalmente da un’attenta programmazione e dalla successiva intelligente messa in opera mediante un impegno concreto. Certo, il Signore chiede la nostra collaborazione, ma prima di qualsiasi nostra risposta è necessaria la sua iniziativa: è il suo Spirito il vero protagonista della Chiesa. Le radici del nostro essere e del nostro agire stanno nel silenzio sapiente e provvido di Dio”.

Quando il punto di partenza siamo noi, e i nostri tentativi, presto o tardi torniamo al metodo della torre di Babele e, in nome degli ideali più alti, anziché essere uno per l’altro ci ritroviamo “improvvisamente a costruire uno contro l’altro”. Con grande realismo Benedetto XVI ci ha ricordato che questo rischio è per tutti, persino per le comunità cristiane.

(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/6/8/o-la-pentecoste-o-babele/2842561/#:~:text=CHIESA-,O%20la%20Pentecoste%20o%20Babele,Come%20mai%20ciascuno%20di%20noi%20sente%20parlare%20nella%20propria%20lingua%20nativa%3F%E2%80%9D.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

Dio permette comunque tutto questo perché il metodo della Pentecoste non cambi: devo esserci io. Se manca uno che dica “io” in piena libertà lo Spirito non avrebbe su chi posarsi. Così fiorisce il dono dell’unità, come l’ha presentata papa Leone nell’omelia di domenica 1° giugno: “Il Signore non vuole che noi, per unirci, ci sommiamo in una massa indistinta, come un blocco anonimo, ma desidera che siamo uno: ‘Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola’. L’unità, per la quale Gesù prega, è così una comunione fondata sull’amore stesso con cui Dio ama, dal quale vengono al mondo la vita e la salvezza. E come tale è prima di tutto un dono, che Gesù viene a portare. È dal suo cuore di uomo, infatti, che il Figlio di Dio si rivolge al Padre dicendo: ‘Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me’”.

Cristo pone la Trinità come paradigma della vera unità. E perché, nella storia, questo non si riduca a un discorso, lo Spirito Santo elargisce i doni carismatici come provocazione per tutta la Chiesa che può così godersi “una Pentecoste ancora in cammino” (Verbum Domini n. 4).

Doni carismatici che, affidati a uomini e donne concreti, domandano di essere attualizzati e non semplicemente ripetuti, come sottolinea Jesús Morán nel suo bel testo Fedeltà creativa. La sfida dell’attualizzazione di un carisma (Città Nuova 2016): “Così come accade per la Tradizione della Chiesa – poiché custode della Rivelazione – anche per noi vale il principio che questa non s’identifica mai solo con una mera trasmissione scritta o orale. La vera Tradizione non riguarda qualcosa che semplicemente sopravvive, ma qualcosa che c’è stato, è, e sarà. Non si tratta quindi di ripetizione ma di continuazione verso un’attualizzazione sempre più ampia, e questo non dipende solo da una prova documentale, che può essere addirittura azzardata o frammentaria, e comunque sempre suscettibile di interpretazioni anche problematiche” (p. 24).

 

Poiché molti sono capaci di “ripetere”, ma non tutti di “attualizzare”, questo resterà un criterio insuperabile per verificare cosa rimane, nella storia, di un dono dello Spirito, evitando di trovarsi, quasi senza accorgersi, distratti e rassegnati nella sequela di altro, con il volto di un discorso formalmente giusto ma sostanzialmente mondano.

(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/6/8/o-la-pentecoste-o-babele/2842561/#:~:text=CHIESA-,O%20la%20Pentecoste%20o%20Babele,Come%20mai%20ciascuno%20di%20noi%20sente%20parlare%20nella%20propria%20lingua%20nativa%3F%E2%80%9D.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

Per questo don Morán precisa che l’attualizzazione di un carisma “consiste nel creare le condizioni perché chi riceve il suo annuncio sperimenti di riceverlo dall’anima stessa del fondatore” (Ibidem, p. 33). La Pentecoste, dunque, riaccade ancora oggi spalancando, come il suo primo giorno, le porte per l’uomo a una sfida inesausta per la conquista del suo vero sé, commossa e stupita, tanto da rimanere “a bocca aperta”, tanto da far sorgere la domanda: “Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?”.