martedì 29 ottobre 2024

Macao: vacanza delle comunità di CL


 

Macao. «Il miracolo che siamo»

Da Pechino, Shangai, Hong Kong e Taipei per vivere la vacanza della comunità di CL in lingua cinese. Tre giorni di dialoghi, assemblee, giochi e la scoperta di un’unità donata

Ilaria Giudici29.10.2024

 

Dal 18 al 20 ottobre la comunità di CL di lingua cinese si è ritrovata a Macao per trascorrere insieme un momento di vacanza e dialogare sul tema della Giornata d’inizio anno: “Chiamati, cioè mandati: l’inizio della missione”. Riuscire a organizzare questa vacanza, dopo gli eventi storici di questi anni, tra cui la pandemia Covid, è il primo avvenimento di questi giorni. Anche accettare l’invito non è per nulla scontato. I giorni di ferie sono concessi con il contagocce, il viaggio è costoso, uscire e rientrare dal Paese d’origine potrebbe non rivelarsi cosa semplice. Eppure sono più di 60 le persone che da Pechino, Shangai, Hong Kong, Taiwan si riuniscono in una piccola struttura religiosa affacciata sul mare, lontano dai casinò del centro per cui Macao viene chiamata la “Las Vegas d’Oriente”.

All’arrivo qualcuno riabbraccia chi non vede da anni, altri stringono mani a nuovi amici. C’è anche chi, come Gao Xue, non trova il coraggio di dire il suo nome ad alta voce, tanta è la timidezza. Chissà quale desiderio l’ha portata fin qui dalla capitale della grande Cina. Elaine, invece, accettando il consiglio di un vecchio amico ormai lontano, ha deciso di partecipare non conoscendo quasi nessuno. A differenza di Gao Xue, ha una personalità entusiasta e riesce subito a rompere il ghiaccio. Sarà forse per questo che sono finite in camera insieme.

Lasciate le valigie nelle stanze, ci si ritrova alle 18.30 per la cena. Don Paolo Costa, dopo la preghiera, invita ciascuno a mischiarsi nei tavoli, cinesi, taiwanesi e italiani, «per conoscerci e scoprire di essere tutti parte della stessa comunità». Ed è proprio nella convivialità della cena che le storie e i racconti personali emergono con semplicità, intrecciandosi con quelle degli altri.

Dongdong racconta di aver chiesto il Battesimo insieme alla famiglia dopo aver per caso bussato alla porta della parrocchia dei sacerdoti della Fraternità San Carlo; Emilia ha incontrato CL colpita dalla felicità dei volti notati in alcune foto su Facebook; Allegra, grazie a un incontro in università, ha da poco ricevuto il Battesimo. E poi Yuwei a Shangai è rimasto colpito da Pilar, sua collega di lavoro, che per la prima volta lo ha guardato negli occhi e gli ha detto: «Prego per te». Tanti volti, storie diverse e profonde: si percepisce il grande desiderio che in questi giorni accada qualcosa di grande.

Alle 20 puntuali ci ritroviamo nel salone per una breve introduzione di don Paolo sul titolo delle vacanze: “La libertà è la dipendenza da Dio”. La canzone di inizio 至少還有你 (Zhìshǎo hái yǒu nǐ - Dopo tutto, ho ancora te), esprime bene come la libertà sia strettamente legata al sentirsi amati. Così come i cartoncini colorati, preparati con grande cura da Ning, fanno subito sentire chiamati, attesi. Ognuno trova scritto il proprio nome accanto a un disegno: un cerchio con un puntino dentro, unito con una linea alla X fuori dal cerchio, che indica il legame con Chi può renderci veramente liberi. La serata si conclude con la Messa, mentre i dialoghi personali continuano fino a notte fonda, segno del grande desiderio di stare insieme.

L’indomani, dopo colazione, ascoltiamo la testimonianza di Renquan, un ragazzo taiwanese sposato da poco. «Mi sono sentito chiamato, invitato in una comunità che nel tempo sta cambiando anche culturalmente il mio modo di concepire la vita e le relazioni. Ho capito che l’incontro con Cristo c’entra anche con l’uso dei soldi: nel dialogo con mia moglie (che non è credente) ho deciso di venire qui perché è utile per la nostra famiglia. Questo giudizio di valore per noi è del tutto nuovo. La comunità mi sta facendo capire come la fede c’entra con la vita».

 

«Siamo stati chiamati, ciascuno con la sua storia; Dio ci viene a prendere tante volte anche nelle pozzanghere della vita e ci porta in alto a vedere le stelle», approfondisce Cesare, che viene dall’Italia, introducendo il tema della Giornata d’inizio: «La nostra compagnia è il segno e il corpo stesso di Cristo nel mondo, il miracolo più grande che sta facendo accadere oggi attraverso il carisma di don Giussani». Nell’annunciare che la chiamata di Gesù, il suo amore, coincide con l’essere mandati, Cesare ricorda i due patroni della missione così paradossalmente diversi eppure uniti nel loro amore a Cristo e alla Chiesa: Francesco Saverio, che ha attraversato il mondo morendo proprio in un viaggio verso la Cina, e Teresina di Lisieux, vissuta fino a 24 anni in un convento di clausura (come quello che abbiamo poi visitato nel pomeriggio).

Dopo la Messa i dialoghi personali continuano passeggiando in riva al mare con i piedi coperti di sabbia. Anche la natura non manca di farci sentire l’affetto di Chi ci ha chiamati insieme. Howard racconta di come ha incontrato la fede entrando in una chiesa in Canada. «Amate i vostri nemici» è la frase che non lo ha più lasciato tranquillo. Qualcosa di totalmente estraneo all’educazione ricevuta fino a quel momento. Così, rientrando a Pechino, ha cominciato a leggere la Bibbia. Più tardi, entrando in una chiesa cattolica, quelle parole sono diventate carne: una perfetta sconosciuta si gira verso di lui con un sorriso, tendendogli la mano allo scambio della pace. Una cosa dell’altro mondo!

Non mancano i racconti simpatici, come quello di Jingya che desiderava da tempo una fidanzata che condividesse la sua fede. «Sono cattolico», ha scritto nell’incipit del suo curriculum vitae. Così Phebe, l’head hunter che lo contatta per un posto di lavoro, aggiunge: «Anche io sono cattolica, possiamo conoscerci?». Dio ha davvero un grande senso dell’umorismo, ma è proprio vero che l’essere cristiano, cioè di Cristo, determina il tuo nome e in fondo la tua stessa identità.

Nel pomeriggio andiamo a visitare il monastero delle Trappiste di Macao, dove madre Caterina, amica di CL da lunga data, ci racconta la sua esperienza di missione: «La missione è una vita, e noi siamo missionarie semplicemente vivendo la comunità monastica. La conversione dal “sé” (dal proprio egoismo) al “noi” è qualcosa su cui lavoriamo per tutta la vita, ma non è difficile se si è insieme». Al termine, come gesto di ringraziamento, ci chiede di intonare Povera voce, che canta commossa insieme a noi.

 

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https://it.clonline.org/news/attualit%C3%A0/2024/10/29/vacanza-macao#:~:text=MACAO.%20%C2%ABIL%20MIRACOLO,la%20nostra%20compagnia%C2%BB.


venerdì 25 ottobre 2024

"Dilexit nos"

 



Il cuore di Cristo e il bisogno del mondo

La nuova Enciclica di Papa Francesco “Dilexit nos” sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù

1. «Ci ha amati», dice San Paolo riferendosi a Cristo (Rm 8,37), per farci scoprire che da questo amore nulla «potrà mai separarci» (Rm 8,39). Paolo lo affermava con certezza perché Cristo stesso aveva assicurato ai suoi discepoli: «Io ho amato voi» (Gv 15,9.12). Ci ha anche detto: «Vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). Il suo cuore aperto ci precede e ci aspetta senza condizioni, senza pretendere alcun requisito previo per poterci amare e per offrirci la sua amicizia: Egli ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10). Grazie a Gesù «abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16). I.

L’IMPORTANZA DEL CUORE

2. Per esprimere l’amore di Gesù si usa spesso il simbolo del cuore. Alcuni si domandano se esso abbia un significato tuttora valido. Ma quando siamo tentati di navigare in superficie, di vivere di corsa senza sapere alla fine perché, di diventare consumisti insaziabili e schiavi degli ingranaggi di un mercato a cui non interessa il senso della nostra esistenza, abbiamo bisogno di recuperare l’importanza del cuore.

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sabato 19 ottobre 2024

Incontro con Don Julian Carron e Don Eugenio Nembrini sull'educazione

Wojtyla finora inedito: lezioni ai fidanzati, ai giovani, ai coniugi, ai giovani. Il fine dell'uomo è la felicità

 


LETTURE/ Nelle “lezioni” inedite di Wojtyła emerge la sua ricetta della felicità

Raccolti in volume 366 brevi testi mai tradotti in Italia di Karol Wojtyła, risalenti agli anni 40-70. Una catechesi di sorprendente attualità

Vincenzo Sansonetti Pubblicato 19 Ottobre 2024

 

“L’essere umano deve avere un valore straordinario agli occhi di Dio, se per la sua redenzione lo stesso Figlio di Dio si è fatto uomo”. Questo l’inizio folgorante del libro, fresco di stampa, che riunisce 366 “frammenti” inediti in Italia di Karol Wojtyła (1920-2005). Con il titolo La meta è la felicità (Ares, a cura di Marina Olmo, 2024) sono stati raccolte in volume brevi citazioni che vanno dalla metà degli anni Quaranta al 1977, cioè alla vigilia – appena 58enne – dell’elezione a Pontefice. I brani pubblicati sono tratti da opere teatrali giovanili, da studi di teologia e filosofia e da lettere del futuro santo, ma soprattutto da omelie, meditazioni, conferenze, discorsi, saluti, in occasione di visite pastorali alle parrocchie, amministrazione di sacramenti, feste liturgiche, esercizi spirituali, commemorazioni e vacanze con i giovani.

 

Sono pensieri profondi e di un’attualità stupefacente rivolti a famiglie, fidanzati, studenti, operai e professionisti, ammalati e operatori sanitari, semplici fedeli. Parole ricche di sapienza, autentiche, schiette, a volte spiazzanti, proposte a dieci anni dalla canonizzazione di Giovanni Paolo II, avvenuta il 27 aprile 2014. Una preziosa antologia che Papa Francesco nell’introduzione ha definito “un assaggio delle doti umane, pastorali, teologiche e culturali di uno degli uomini che più hanno segnato il secolo scorso” e che “continua ad attrarre persone a Cristo”.

 

Il testo si divide in due parti: la prima raggruppa citazioni su tematiche centrali dell’esistenza, come il senso del vivere, i desideri del cuore, la vocazione personale, l’amore e la famiglia, l’educazione, il lavoro, i problemi della società, la pace. La seconda riflette sui contenuti della fede, il compito della Chiesa, i sacramenti, i tempi liturgici, i valori cristiani. Wojtyła nelle sue riflessioni parte da una visione antropologica oggi praticamente assente, censurata perché scomoda, che punta a cogliere l’essenza più profonda della natura umana.

 

“Dio ha creato l’uomo con un corpo, a somiglianza delle altre creature di questa terra” e in questo “lo ha reso simile al mondo visibile della natura”, afferma nell’omelia pronunciata durante il pellegrinaggio del 29 maggio 1977 al santuario mariano di Piekary Śląskie, in Alta Slesia. “Ma al contempo”, aggiunge, “l’ha creato ‘a sua immagine e somiglianza’. E ha soffiato in lui la vita”. Una vita non solo materiale, fisica, perché “la vita propria dell’uomo non è la vita del corpo soltanto. È la vita dello spirito, e dello spirito vive anche il corpo umano. Da solo, muore”. Ma se è “creato a immagine di Dio”, ne deriva che “ogni uomo è una persona razionale e libera”: così in un’altra omelia degli anni Sessanta. Razionalità e libertà sono dunque le “proprietà essenziali di un individuo”. In particolare, con la razionalità “il Creatore ‘consegna’ all’uomo tutta la realtà dal punto di vista della verità”.

 

Andando a spigolare nella ricca messe di notazioni del sacerdote e vescovo polacco, che il 16 ottobre 1978 sarà eletto 263° successore dell’apostolo Pietro, spicca un corpus di pensieri coerente e incisivo sui sentimenti, le relazioni affettive, i rapporti coniugali e familiari: una sorta di “piccola enciclica” sull’amore umano che ha ancora, a distanza di decenni, tanto da insegnarci.

 

Nell’omelia che pronuncia nell’aprile 1973 durante la visita pastorale nella parrocchia del piccolo centro di Pychovice, chiarisce subito: “Solo l’essere umano è capace di amare”, proprio perché è l’unico essere vivente che “nell’amore cerca il compimento della sua vita”. L’amore “è la sua vocazione”. E questo “manifesta quanto sia vicino a Dio e quanto profondamente Dio sia in lui”. Con accenti più marcatamente poetici, nell’opera teatrale giovanile Fratello del nostro Dio (1949) definisce l’amore come “la potenza del sole che orienta tutto, non è respinto da nulla, incanta”. E in un’altra opera, Sono sempre su questa stessa riva, si spinge a sostenere, forse per sottolineare che è un sentimento che non va piegato a calcoli e interessi, che “l’amore è generalmente sconsiderato. Forse si può persino dire che più è sconsiderato, più è grande”. Ai maturandi e alla gioventù studentesca, a Nowy Targ, nel giugno 1969, ricorda con forza che l’amore è  “il più grande comandamento”.

 

Per poi aggiungere, nello stesso incontro, che l’amore è “il più grande principio, l’ideale più alto, l’ideale assolutamente insuperabile per l’uomo”, e va inteso come “amore per Dio e amore per il prossimo”. Ma quali sono i frutti dell’amore? Wojtyła lo specifica nell’omelia rivolta alle coppie durante la visita pastorale nella parrocchia di Mistrzejowice, un distretto di Cracovia, il 10 novembre 1976: “I frutti sono la pace, la gioia, l’unione di due persone, la fiducia reciproca” e la “consapevolezza di poter contare sull’altra persona, di avere, per così dire, in lei il mio secondo ‘io’”.

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https://www.ilsussidiario.net/news/letture-nelle-lezioni-inedite-di-wojtyla-emerge-la-sua-ricetta-della-felicita/2762060/#:~:text=PAPA-,LETTURE/%20Nelle%20%E2%80%9Clezioni%E2%80%9D%20inedite%20di%20Wojty%C5%82a%20emerge%20la%20sua%20ricetta%20della,suo%20destino%2C%20al%20suo%20bisogno%20di%20amare%20e%20di%20essere%20amato.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94


Tracce in festa al Meeting 2024 (22.08.2024)

venerdì 18 ottobre 2024

19 ottobre 1984: il martirio di Padre Popieluzko


 

Poche ore prima d’essere ucciso, il venerdì sera del 19 ottobre 1984, il padre Popiełuszko, recatosi nella parrocchia dei “Santi fratelli martiri polacchi” a Bydgoszcz, aveva tenuto una meditazione durante la preghiera dei misteri dolorosi del santo Rosario: a quarant’anni di distanza le sue parole non hanno perso minimamente il loro peso, né il loro potere di risvegliare il cuore e la coscienza, non solo dell’uomo europeo. Sono il suo testamento spirituale, un’intensa, pacificata meditazione sulla dignità dell’uomo da parte di un uomo mite, disarmato, coraggiosamente vittorioso sul male e sulla menzogna. Ancor oggi queste parole pesano molto di più dei sassi con cui venne torturato e a cui il suo corpo venne legato:

 

“Bisogna vivere con dignità la vita perché ne abbiamo una sola. Oggi è necessario parlare molto della dignità dell’uomo per rendersi consapevoli che l’uomo supera tutto quanto può esistere al mondo, ad eccezione di Dio; supera la sapienza del mondo intero. Salvaguardare la dignità per poter rendere più grande il bene e vincere il male.

 

Salvaguardare la dignità per poter rendere più grande il bene e vincere il male, cioè, improntare la vita alla giustizia.

 

La giustizia è frutto della verità e dell’amore. Più c’è verità e amore nell’uomo, più c’è giustizia. La giustizia deve camminare di pari passo con l’amore, perché, senza l’amore, non è possibile essere pienamente giusti. Dove l’amore e il bene mancano, al loro posto subentrano l’odio e la violenza, e se ci si lascia guidare dall’odio e dalla violenza non è possibile parlare di giustizia.

 

Vincere il male con il bene, cioè, mantenere la fedeltà alla verità. La verità è una proprietà molto delicata della nostra intelligenza.

 

Il desiderio della verità è stato istillato nell’uomo da Dio stesso, perché nell’uomo c’è il naturale desiderio della verità e il rifiuto della menzogna.

 

La verità, proprio come la giustizia, è legata all’amore, e l’amore costa caro. Un amore vero è capace di sacrificio e quindi anche la verità deve costare. La verità mette sempre insieme gli uomini.

 

Ma per vincere il male con il bene bisogna premunirsi della virtù del coraggio. La virtù del coraggio rappresenta la vittoria sulla debolezza umana, in particolare sulla paura. Il cristiano non deve dimenticare che si deve aver paura solo di tradire Cristo per i trenta denari di una meschina tranquillità. Il cristiano non può accontentarsi solo di respingere il male, la menzogna, la codardia, la violenza, l’odio, la prevaricazione, ma deve lui stesso essere un vero testimone, un portavoce e un difensore della giustizia, del bene, della verità, della libertà e dell’amore. Deve rivendicare con coraggio questi valori per sé e per gli altri” (J. Popiełuszko, Ultime parole prima del martirio, in Omelie per la Patria, cit., pp. 103-104).


domenica 13 ottobre 2024

Colletta Alimentare - Evento di lancio 2024

Sammy Basso: "Che dono la vita"

 



Sammy Basso. «Che dono la vita»

Su "Avvenire" la lettera-testamento del giovane ricercatore veneto, affetto da progeria e morto domenica scorsa, letta durante il suo funerale

11.10.2024

S'era preparato, Sammy Basso, al giorno della sua morte, che è arrivato inaspettatamente domenica scorsa in un ristorante di Asolo, durante i festeggiamenti per il matrimonio di una coppia di suoi amici. Il giovane ricercatore, affetto dalla nascita da una malattia rara chiamata progeria (che causa un invecchiamento precoce e consuma il corpo di chi ne soffre), era diventato famoso oltre che per il suo impegno internazionale in campo scientifico nello studio della sua patologia, per averne parlato pubblicamente sempre col sorriso e con ironia. In occasione dei suoi funerali, celebrati oggi nella Tezze sul Brenta dov'è cresciuto, pubblichiamo integralmente la lettera-testamento che Sammy ha scritto appositamente per il giorno del suo funerale e ha fatto avere ai suoi genitori dopo la sua morte. Il testo, che è un inno alla vita e una straordinaria testimonianza di fede, è stato letto durante l'omelia dal vescovo di Vicenza Giuliano Brugnotto.

 

Se state leggendo questo scritto allora non sono più tra il mondo dei vivi. Per lo meno non nel mondo dei vivi per come lo conosciamo. Scrivo questa Iettera perché se c'è una cosa che mi ha sempre angosciato sono i funerali. Non che ci fosse qualcosa di male, nei funerali, dare l'ultimo saluto ai propri cari è una tra le cose più umane e più poetiche in assoluto. Tuttavia, ogni volta che pensavo a come sarebbe stato il mio funerale, ci sono sempre state due cose che non sopportavo: il non poter esserci e dire le ultime cose, e il fatto di non potere consolare chi mi è caro. Oltre al fatto di non poter parteciparvi, ma questo è un altro discorso... E perciò, ecco che ho deciso di scrivere le mie ultime parole, e ringrazio chiunque le stia leggendo. Non voglio lasciarvi altro che quello che ho vissuto, e visto che si tratta dell'ultima volta che ho la possibilità di dire la mia, dirò solo l'essenziale senza cose superflue o altro...

 

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sabato 12 ottobre 2024

ACOLTIAMO I NOSTRI FIGLI

 



Non chiediamo ai ragazzi di essere se stessi a modo nostro

Genitori ed educatori devono imparare ad ascoltare figli e studenti. Lo psicologo o psicoterapeuta Matteo Lancini si confronta con il volantino di CL sui fatti di Paderno Dugnano

Paola Bergamini11.10.2024

«Leggendo il volantino, mi ha colpito che non si accenni a Internet. Provocatoriamente penso che le prossime conferenze le titolerò: “Se sei adulto e non sai cosa fare, dai la colpa al cellulare”», esordisce Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta. «Anche per la tragedia di Paderno Dugnano si è provato a far ricadere la colpa su social, videogiochi e rapper, ma Riccardo era un ragazzo normale, non attaccato allo schermo, faceva persino sport. E si sono dovuti rassegnare a parlare del dolore». Docente alla Cattolica e alla Bicocca a Milano, presidente della Fondazione Minotauro, centro clinico per adolescenti e giovani adulti, Lancini impatta quotidianamente, per lavoro, con quel malessere che, nella forma estrema, ha portato Riccardo a uccidere. Il suo quindi è un osservatorio privilegiato sull’universo giovanile.

 

Partiamo proprio dalla parola dolore. Dove affonda?

C’è una trama affettiva e psichica sui cui dovremmo interrogarci, perché quello che io vedo è una forte disperazione. Non sono del tutto d’accordo quando nel volantino si dice che dipende da troppa libertà; meglio forse dire da una libertà distorta. Penso che, però, prima ci sia un tema più importante: chiediamo ai ragazzi di essere se stessi, ma a modo nostro. Che è il titolo del mio ultimo libro: Sii te stesso a modo mio. C’è una tendenza – in questo Internet ha contribuito – a sovrintendere la mente e il pensiero dell’altro come necessità di sentirsi adeguati. Un episodio che mi è capitato può rendere meglio l’idea.

 

Racconti.

All’uscita di una scuola elementare, un bambino spintona un compagno che cade all’indietro, più per il peso dello zaino che per la botta ricevuta. La mamma dell’assalitore si getta sul figlio e dice: «Cosa hai fatto? Non si risolvono così i conflitti». Il ragazzino mortificato si mette a piangere e a quel punto la signora, girandosi verso gli altri genitori, esclama: «Vedete, si è già pentito!». Non ha chiesto cosa fosse successo o, meglio, ha lasciato perdere, visto che nessuno si era fatto male in modo grave. In nome di valori “adeguati” non ha ascoltato cosa il figlio avesse da dire. Le famiglie e gli educatori, in genere, sono più aperti all’ascolto, e questo è certo un dato positivo, ma non sono in grado prestare attenzione alle emozioni, ai pensieri più profondi, anche negativi, dei ragazzi.

 

Forse perché gli adulti hanno paura delle emozioni, dei sentimenti?

In una società complessa come la nostra, con continui cambiamenti – mi riferisco, per esempio, ai codici bioetici e deontologici, alle trasformazioni tecnologiche –, quello che vedo è una fragilità dell’adulto a cui manca la capacità di identificarsi e quindi di mettersi in relazione con l’altro. Questa fragilità di senso genera lo stato di grande confusione di cui mi raccontano i giovani che, mettendo a tacere quelle emozioni – rabbia, tristezza, vergogna, ansia – che non rispondono alle attese di genitori e insegnanti, arrivano a non saper distinguere ciò che desiderano, chi sono, da quello che gli è stato detto di essere per tenere a bada la fragilità adulta. Non c’è più io o super io: è ciò che chiamo vuoto identitario. Ma la domanda: «Chi sono?», prima o poi emerge sempre.

 

È anche un problema educativo.

A mio avviso oggi l’educazione deve passare attraverso un atteggiamento umano di profonda identificazione con il funzionamento affettivo, emotivo e psichico dell’altro. Non può esserci educazione digitale, contro la violenza di genere o all’affettività, per fare alcuni esempi, se non si ascoltano le voci, a volte terribili, dei ragazzi. Dare legittimità alle loro parole è la vera emergenza, che non significa dargli ragione. La disperazione degli adolescenti è legata all’impossibilità di esprimere le proprie emozioni, che, se non trovano un canale comunicativo, qualcuno pronto ad ascoltarli, diventano gesti disperati, sempre più spesso contro il corpo (disturbi alimentari, autolesionismo), e violenti verso gli altri. Le cronache dei giornali parlano di giovani pronti a tirar fuori i coltelli, di incidenti automobilistici per abuso di alcool o sostanze pur avendo fatto i corsi di prevenzione (e spesso sull’asfalto nemmeno ci sono i segni della frenata). Non hanno niente da perdere perché ormai non hanno niente di loro.

 

Ma dentro questa disperazione cosa cercano?

Degli adulti credibili, cioè che, in una relazione autentica identificata, abbiano il coraggio di fare domande significative sulla vita senza avere la pretesa della risposta pronta. Domande anche disturbanti: stai pensando al suicidio? Ti vedi brutto? Questo vale per genitori e insegnanti.

 

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In questo senso, a scuola si gioca una partita importante.

Sono dell’idea che le trasformazioni in atto devono portare a un cambiamento nel modo di insegnare. Oggi quello che noto è che spesso il voto è l’unica forma di valutazione del ragazzo, ma, soprattutto dopo la pandemia, la scuola è diventata un luogo di costruzione di relazioni, di diversità, nel senso di pensiero, di apprendimento. Il vero docente è chi dice: «Hai sbagliato, ora ti dico dove e come puoi raggiungere l’obiettivo». Solo così si conquistano i ragazzi, che sono molto più autentici di noi, che ci sottomettevamo al professore di turno augurandogli in cuor nostro le più atroci sofferenze. Forse sarebbe ora di una riforma fatta per gli studenti e non per gli insegnanti. Ma per tornare al punto, stare in relazione, identificarsi con l’altro è più difficile che dire: «Guarda che ti sto educando». Si rischia di chiamare “educazione” e “norma” la trasmissione di un nostro sistema di valori oggi molto individuale. Interessante, in questa prospettiva, quando alla fine del volantino si parla di «bisogno di senso»: «Ciò che desideriamo è qualcuno che ci ami, che riconosca il nostro valore». Io non credo che l’amore ci salvi, credo che ci salvi l’identificazione con l’altro. Anche se Gesù ha detto: «Ama il prossimo tuo come te stesso».

(…)

https://it.clonline.org/news/attualit%C3%A0/2024/10/11/volantino-cl-intervista-matteo-lancini#:~:text=News-,NON%20CHIEDIAMO%20AI%20RAGAZZI%20DI%20ESSERE%20SE%20STESSI%20A%20MODO%20NOSTRO,Matteo%20Lancini%2C%20psicologo%20e%20psicoterapeuta,-Newsletter


giovedì 10 ottobre 2024

Priscilla al G7

 


Priscilla, don Giussani e il G7

La preside della Luigi Giussani Primary School di Kampala, Uganda, colpisce i grandi della terra a Caserta. Orfana, fu sostenuta da Avsi e ora si dedica agli studenti: «Educare è camminare insieme per scoprire il significato della vita»

Mauro Giacomazzi*09.10.2024

Il 1° ottobre a Caserta i delegati rappresentanti del G7 si sono riuniti nella Reggia di Caserta per discutere di educazione e resilienza con un focus particolare sull’Africa. Il segretario generale di AVSI, Giampaolo Silvestri, qualche mese prima era stato invitato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo a partecipare a una sessione con il Ministro per la famiglia, Eugenia Roccella, Laura Frigenti, direttrice del Global Partnership for Education, e Daniela Fatarella, direttrice di Save the Children Italia. L’invito, frutto di anni di impegno di AVSI nei Paesi dell’Africa sub-sahariana, ci aveva fatto grande piacere, ma nessuno di noi si sarebbe aspettato quanto accaduto.

 

Una decina di giorni prima dell’evento il Ministero degli Affari Esteri ci chiede di invitare il preside di una scuola primaria africana. A Silvestri viene in mente di invitare Priscilla Achan, della scuola primaria Luigi Giussani di Kampala. Priscilla è una mia cara amica, la conosco ormai da tanti anni: la madre era una delle donne del Meeting Point International, opera nata dall’esperienza di Rose Busingye, e Priscilla dal 2008 era una delle bambine sponsorizzate dal programma del sostegno a distanza di AVSI, con una storia personale difficile e di grande vulnerabilità.

 

Sono particolarmente legato a lei perché, rimasta orfana di entrambi i genitori all’età di 16 anni, si è sempre presa cura con una dedizione speciale dei fratellini, pur continuando a studiare e diplomandosi come la migliore studentessa della scuola. Ragazza estremamente volenterosa e resiliente, mentre frequentava l’università aveva iniziato a lavorare all’istituto per la formazione degli insegnanti di Kampala, dove lavoravo anch’io. Ricordo ancora quando, dopo un paio d’anni, l’avevo invitata a presentare domanda alla nostra scuola primaria come insegnante di inglese; ora è diventata la preside della scuola.

 

Così, mi sono trovato anche io in viaggio verso Caserta. Era la prima volta che partecipavo a un evento del G7 e non sapevo cosa aspettarmi. Occupandomi di educazione in AVSI, avevo come desiderio che si potesse uscire dalla solita narrativa, che considera l’educazione come elemento di economic empowerment. Non che non sia consapevole del fatto che l’educazione è lo strumento principe per lo sviluppo economico di un Paese, ma troppo spesso nelle scuole africane e tra i tecnocrati del Continente si parla di educazione solo come strumento per ottenere un lavoro e per un successo economico. Questo genera riduzioni e storture a livello pedagogico, che lasciano un segno indelebile nella vita dei ragazzi. Ma quello che è accaduto a Caserta mi ha colto totalmente di sorpresa.

 

Quando Priscilla ha iniziato a parlare, la sala si è fermata. Ha cominciato raccontando cosa significasse per lei rimanere senza genitori e come si sia sentita guardata dai suoi insegnanti: «Gli insegnanti della scuola Luigi Giussani erano sempre presenti per aiutarmi ogni volta che ne avevo bisogno. Mi hanno accompagnata a scoprire che, nonostante le difficoltà, la vita vale ancora la pena di essere vissuta. Non mi sono mai sentita sola, perché ero circondata da volti di persone che mi volevano bene davvero e desideravano vedermi felice».

 

Ha poi spiegato il motivo per cui ha accettato il lavoro nella scuola primaria: «Volevo continuare a vivere le stesse esperienze che ho vissuto come studentessa nelle scuole Luigi Giussani. Crescendo negli slum, sapevo che mi sarei facilmente relazionata con la vita degli studenti che incontravo. Sono bambini che provengono da famiglie umili ma vulnerabili, la cui speranza risiede nella scuola. Desideravo insegnare a questi bambini nello stesso modo in cui sono stata educata; aiutarli a scoprire il loro valore, far loro capire che sono importanti a prescindere dal dolore, dalla sofferenza, dalla povertà o dalle difficoltà che possono affrontare. Io sono stata accompagnata in questo percorso, quindi desideravo che lo fossero anche loro».

 

Con parole semplici ma estremamente puntuali, ha ricordato a tutti che l'educazione non consiste solo nel trasmettere competenze e memorizzare nozioni, ma anche nell'aiutare ogni bambino a scoprire se stesso come valore infinito e, di conseguenza, a considerare tutti gli aspetti della realtà come un valore. Si educa per attrazione. Anche quando si insegna a leggere e scrivere o qualsiasi altra materia, deve esserci un'attrattiva che aiuti gli studenti ad apprendere i contenuti che si cerca di trasmettere. Non esiste una dicotomia tra competenze di letto-scrittura e apprendimento socio-emotivo.

 

Priscilla racconta la storia di Roby (nome di fantasia, ndr), un giovane studente della classe sesta, che vive una situazione familiare molto difficile e spesso non riesce a frequentare la scuola. Preoccupata, Priscilla per due trimestri consecutivi è andata a trovarlo a casa sua quasi ogni settimana, cercando di convincerlo a tornare a scuola. Poi qualcosa è cambiato. Inaspettatamente, nel terzo trimestre il ragazzo ha deciso di tornare a scuola di sua spontanea volontà. Quando Priscilla gli ha chiesto perché, la risposta del ragazzo è stata disarmante: «Maestra, ho capito che nemmeno i miei genitori si preoccupano del fatto che io vada a scuola, ma tu sei diversa. Hai sacrificato il tuo tempo per venire a invitarmi a tornare. Ho deciso riprendere la scuola, perché voglio concentrarmi sui miei studi, voglio prendermi cura di me stesso».

 

Priscilla osserva che nemmeno il fatto di avere le tasse scolastiche completamente pagate era bastato a convincerlo; cercava qualcosa di più, aveva bisogno di essere amato e di trovare un significato nella vita. E aggiunge: «Il mio cuore è proprio come quello di questo ragazzo e per me essere un’educatrice significa semplicemente percorrere insieme a lui il cammino verso la scoperta del significato delle nostre vite».

(……..)

 

https://it.clonline.org/news/attualit%C3%A0/2024/10/09/priscilla-giussani-e-il-g7#:~:text=PRISCILLA%2C%20DON%20GIUSSANI,Unit%20%2D%20Fondazione%20AVSI


domenica 6 ottobre 2024

AVSI : Il potere trasformativo dell'educazione



 L'INTERVENTO: IL POTERE TRASFORMATIVO DELI'EDUCAZIONE di Giampaolo Silvestri*

 Lo sfoglio dei giornali ci costringe al confronto quotidiano con una realtà caratterizzata dal divampare di conflitti sempre più vigliacchi: la guerra sta seminando una tale quantità di distruzione dell'umano che va arginata subito, con misure immediate ma capaci di guardare al lungo periodo. Quei bambini che vediamo feriti dai bombardamenti oggi in Libano, solo per citare gli ultimi, dovrebbero essere a scuola, accolti e custoditi nella loro unicità. E i piccoli libanesi sono solo una porzione di un popolo di duecentocinquanta milioni di bambini del mondo che non vanno a scuola: come si può stare fermi di fronte a un tale dato? Ripartiamo da qui: dal garantire loro la possibilità di accedere a luoghi dove essere educati. Solo l'educazione è in grado di incidere nel loro destino, cambiando in meglio la vita loro e della comunità alla quale appartengono. Ma occorre pensare all'educazione in senso autentico: l'apprendimento è un atto umano, non riducibile solo all'acquisire competenze tecniche o contenuti accademici, coinvolge la persona nella sua totalità: ragione, cuore, relazioni interpersonali. Si conosce e si impara quando ci si sente riconosciuti e valorizzati per quel che si è. Lo abbiamo verificato in centinaia di progetti educativi realizzati in oltre cinquant'anni di presenza in contesti di sviluppo e di emergenza: ha impatto autentico e duraturo solo l'educazione intesa come un processo integrale che forma persone consapevoli del valore di sé e degli altri, da rispettare sempre. Questo è vero nei Paesi G7, in Africa e in Medio Oriente. Non si può cedere mai alla violenza o alle condizioni più disperate. Anche quando sembra che siano altre le priorità, occorre investire in programmi educativi — integrati con altri interventi — che raggiungano anche chi si trova nelle situazioni più difficili. In Libano, per esempio, abbiamo attuato negli ultimi anni un metodo di insegnamento ibrido (in presenza e virtuale) per garantire a 7000 bambini siriani rifugiati e bambini della comunità ospitante un sistema di tutoraggio che si basa su un'alleanza tra insegnanti e genitori. Vedere ora questi luoghi bombardati e distrutti, ci convince che non possiamo abbandonare l'impegno per l'educazione ora, ma rilanciarlo, e ci spinge a presenta99 Evento legato al G7 Le parole del segretario dell'Avsi su «Investire nell'educazione per la creazione di posti di lavoro e la resilienza» alla Reggia di Caserta re delle raccomandazioni molto concrete ai G7 che si incontrano nel nostro Paese. Dobbiamo e possiamo costruire un sistema educativo nuovo, per raggiungere ogni bambino fino all'ultimo villaggio. Aumentiamo il numero di scuole e rendiamole accessibili e sicure per tutti, ma insieme, aumentiamo il numero degli insegnanti e la qualità dell'insegnamento; sosteniamo gli insegnanti che devono gestire classi che arrivano a contare anche 200 bambini di diverse età e con esperienze traumatiche: formiamoli per assicurare loro che non sono soli, offriamo strumenti che li aiutino a trovare modi creativi per far appassionare gli allievi allo studio e rendiamo dignitosi i loro salari; servono fondi e tanti, ma vanno spesi tramite un'azione coordinata di istituzioni statali e locali, comunità locali, famiglie e insegnanti, e organizzazioni della società civile: operiamo di concerto come un'unica comunità educante; ricostruiamo reti sociali che permettano ai bambini di sentirsi parte di questa comunità: creiamo spazi sicuri dove possano giocare, studiare e sviluppare relazioni positive anche con adulti di riferimento, un asset necessario. È questa educazione, che si fonda sulla certezza del potere trasformativo delle relazioni umane, l'unica in grado di generare nel tempo pace e sviluppo sostenibile per tutti. Di edificare la società giusta e inclusiva a cui aspiriamo.

 (*) Segretario generale AVSI RIPRODUZIONE RISERVATA 1 Pagina Foglio 02-10-2024 28 www.ecostampa.it 046519 (Corriere della Sere 2/10/24)

La missione della Chiesa negli Atti degli Apostoli


 

giovedì 3 ottobre 2024

Santi Angeli Custodi: Omelia di Papa Francesco al Sinodo dei Vescovi

 



APERTURA DELL’ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI

SANTI ANGELI CUSTODI - SANTA MESSA

CAPPELLA PAPALE

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
Mercoledì, 2 ottobre 2024

[Multimedia]

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Oggi celebriamo la memoria liturgica dei Santi Angeli Custodi, e riapriamo la Sessione plenaria del Sinodo dei Vescovi. In ascolto di ciò che la Parola di Dio ci suggerisce, potremmo allora prendere spunto da tre immagini per la nostra riflessione: la voce, il rifugio e il bambino.

Primo, la voce. Nel cammino verso la Terra promessa, Dio raccomanda al popolo di ascoltare la “voce dell’angelo” che Lui ha mandato (cfr Es 23,20-22). È un’immagine che ci tocca da vicino, perché anche il Sinodo è un cammino, in cui il Signore mette nelle nostre mani la storia, i sogni e le speranze di un grande Popolo: di sorelle e fratelli sparsi in ogni parte del mondo, animati dalla nostra stessa fede, mossi dallo stesso desiderio di santità, affinché con loro e per loro cerchiamo di comprendere quale via percorrere per giungere là dove Lui ci vuole portare. Ma come possiamo, noi, metterci in ascolto della “voce dell’angelo”?

Una via è certamente quella di accostarci con rispetto e attenzione, nella preghiera e alla luce della Parola di Dio, a tutti i contributi raccolti in questi tre anni di lavoro, di condivisione, di confronto e di paziente sforzo di purificazione della mente e del cuore. Si tratta, con l’aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare e comprendere le voci, cioè le idee, le attese, le proposte, per discernere insieme la voce di Dio che parla alla Chiesa (cfr Renato Corti, Quale prete?, Appunti inediti). Come abbiamo più volte ricordato, la nostra non è un’assemblea parlamentare, ma un luogo di ascolto nella comunione, in cui, come dice San Gregorio Magno, ciò che qualcuno ha in sé parzialmente, è posseduto in modo completo in un altro e benché alcuni abbiano doni particolari, tutto appartiene ai fratelli nella “carità dello Spirito” (cfr Omelie sui Vangeli, XXXIV).

Perché ciò avvenga c’è una condizione: che ci liberiamo da quello che, in noi e tra noi, può impedire alla “carità dello Spirito” di creare armonia nella diversità. Non è in grado di sentire la voce del Signore chi con arroganza presume e pretende di averne l’esclusiva (cfr Mc 9,38-39). Ogni parola va accolta con gratitudine e con semplicità, per farsi eco di ciò che Dio ha donato a beneficio dei fratelli (cfr Mt 10,7-8). Nel concreto, badiamo a non trasformare i nostri contributi in puntigli da difendere o agende da imporre, ma offriamoli come doni da condividere, pronti anche a sacrificare ciò che è particolare, se ciò può servire a far nascere insieme qualcosa di nuovo secondo il progetto di Dio. Altrimenti finiremo per chiuderci in dialoghi tra sordi, dove ciascuno cerca di “tirare acqua al proprio mulino” senza ascoltare gli altri, e soprattutto senza ascoltare la voce del Signore.

Le soluzioni ai problemi da affrontare non le abbiamo noi, ma Lui (cfr Gv 14,6), e ricordiamoci che nel deserto non si scherza: se non si presta attenzione alla guida, presumendo di bastare a sé stessi, si può morire di fame e di sete, trascinando con sé anche gli altri. Mettiamoci dunque in ascolto della voce di Dio e del suo angelo, se davvero vogliamo procedere sicuri nel nostro cammino al di là dei limiti e delle difficoltà (cfr Sal 23,4).

E questo ci porta alla seconda immagine: il rifugio. Il simbolo è quello delle ali che custodiscono: «sotto le sue ali troverai rifugio» (Sal 91,4). Sono strumenti potenti le ali, capaci di sollevare un corpo da terra coi loro movimenti vigorosi. Però, pur così forti, possono anche abbassarsi e raccogliersi, facendosi scudo e nido accogliente per i piccoli, bisognosi di calore e di protezione.

Questo è un simbolo di ciò che Dio fa per noi, ma è anche un modello da seguire, in particolare in questo momento assembleare. Tra noi, cari fratelli e sorelle, ci sono molte persone forti, preparate, capaci di sollevarsi in alto con i movimenti vigorosi di riflessioni e intuizioni geniali. Tutto ciò è una ricchezza, che ci stimola, ci spinge, ci costringe a volte a pensare in modo più aperto e ad andare avanti con decisione, come pure ci aiuta a rimanere saldi nella fede anche di fronte a sfide e difficoltà. Il cuore aperto, il cuore in dialogo. Non è dello Spirito del Signore un cuore chiuso nelle proprie convinzioni, questo non è del Signore. È un dono l’aprirsi, un dono che va unito, a tempo opportuno, alla capacità di rilassare i muscoli e di chinarsi, per offrirsi gli uni agli altri come abbraccio accogliente e luogo di riparo: per essere, come diceva San Paolo VI, «una casa […] di fratelli, un’officina d’intensa attività, un cenacolo di ardente spiritualità» (Discorso al Consiglio di Presidenza della C.E.I., 9 maggio 1974).

Ciascuno, qui, si sentirà libero di esprimersi tanto più spontaneamente e liberamente, quanto più percepirà attorno a sé la presenza di amici che gli vogliono bene e che rispettano, apprezzano e desiderano ascoltare ciò che ha da dire.

E questa per noi non è solo una tecnica di “facilitazione” – è vero che nel Sinodo ci sono i “facilitatori”, ma questo è per aiutare ad andare avanti meglio –, non è solo una tecnica di facilitazione del dialogo o una dinamica di comunicazione di gruppo: abbracciare, proteggere e prendersi cura è infatti parte stessa dell’indole della Chiesa. Abbracciare, proteggere e prendersi cura. La Chiesa è per sua vocazione luogo ospitale di raccolta, dove «la carità collegiale esige una perfetta armonia, da cui risulta la sua forza morale, la sua bellezza spirituale, la sua esemplarità» (ivi). Quella parola è molto importante, l’“armonia”. Non c’è maggioranza, minoranza; questo può essere un primo passo. Quello che importa, quello che è fondamentale è l’armonia, l’armonia che può fare solo lo Spirito Santo. È il maestro dell’armonia, che con tante differenze è capace di creare una sola voce, con tante voci diverse. Pensiamo alla mattina di Pentecoste, come lo Spirito ha creato quell’armonia nelle differenze. La Chiesa ha bisogno di “luoghi pacifici e aperti”, da creare prima di tutto nei cuori, in cui ciascuno si senta accolto come figlio in braccio a sua madre (cfr Is 49,15; 66,13) e come bimbo sollevato alla guancia dal padre (cfr Os 11,4; Sal 103,13).

Ed eccoci così alla terza immagine: il bambino. È Gesù stesso, nel Vangelo, a “metterlo nel mezzo”, a mostrarlo ai discepoli, invitandoli a convertirsi e a farsi piccoli come lui. Loro gli avevano chiesto chi fosse il più grande nel regno dei cieli: Lui risponde incoraggiandoli a farsi piccoli come un bambino. Ma non solo: aggiunge anche che accogliendo un bambino nel suo nome si accoglie Lui (cfr Mt 18,1-5).

E per noi questo paradosso è fondamentale. Il Sinodo, data la sua importanza, in un certo senso ci chiede di essere “grandi” – nella mente, nel cuore, nelle vedute –, perché sono “grandi” e delicate le questioni da trattare, e ampi, universali gli scenari entro cui esse si collocano. Ma proprio per questo non possiamo permetterci di staccare gli occhi dal bambino, che Gesù continua a mettere al centro delle nostre riunioni e dei nostri tavoli di lavoro, per ricordarci che l’unica via per essere “all’altezza” del compito che ci è affidato, è quella di abbassarci, di farci piccoli e di accoglierci a vicenda come tali, con umiltà. Il più alto nella Chiesa è quello che si abbassa di più.

Ricordiamoci che è proprio facendosi piccolo che Dio ci «dimostra che cosa sia la vera grandezza, anzi, che cosa voglia dire essere Dio» (Benedetto XVI, Omelia nella Festa del Battesimo del Signore, 11 gennaio 2009). Non a caso Gesù dice che gli angeli dei bambini «vedono sempre la faccia del Padre […] che è nei cieli» (Mt 18,10): che sono, cioè, come un “telescopio” dell’amore del Padre.

Fratelli e sorelle, riprendiamo questo cammino ecclesiale con uno sguardo rivolto al mondo, perché la comunità cristiana è sempre a servizio dell’umanità, per annunciare a tutti la gioia del Vangelo. Ce n’è bisogno, soprattutto in quest’ora drammatica della nostra storia, mentre i venti della guerra e i fuochi della violenza continuano a sconvolgere interi popoli e Nazioni.

Per invocare dall’intercessione di Maria Santissima il dono della pace, domenica prossima mi recherò nella Basilica di Santa Maria Maggiore dove reciterò il santo Rosario e rivolgerò alla Vergine un’accorata supplica; se possibile, chiedo anche a voi, membri del Sinodo, di unirvi a me in quell’occasione.

E, il giorno dopo, 7 ottobre, chiedo a tutti di vivere una giornata di preghiera e di digiuno per la pace nel mondo.

Camminiamo insieme. Mettiamoci in ascolto del Signore. E lasciamoci condurre dalla brezza dello Spirito.


mercoledì 2 ottobre 2024

La Chiesa è donna

 



PAPA/ “La Chiesa è donna, altrimenti ci resta solo un gioco di potere”

Di recente il Papa ha affrontato con grande chiarezza il tema del potere nella Chiesa. Partendo da un appello "femminista". Parole su cui riflettere

Simone Riva Pubblicato 2 Ottobre 2024

 

Da alcune domeniche la liturgia ha preso di mira una delle tentazioni più insidiose tra gli uomini: il potere. Dapprima Pietro che, quando Gesù rivela il destino di rifiuto e passione che lo attende, si mette di traverso improvvisandosi tutore di Cristo. Viene subito rimesso al suo posto con una delle frasi più dure mai pronunciate dal Signore: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33). Poi è la volta degli altri che, mentre sono in cammino verso Cafarnao, vengono smascherati dal Maestro circa i loro discorsi: “Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande” (Mc 9,34). Infine Giovanni, il discepolo che Gesù amava, viene corretto nel suo eccesso di zelo che traspare da ciò che dice: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva” (Mc 9,38).

 

Un’escalation di fatti che mostrano quanto sia facile accontentarsi delle briciole, anziché vivere all’altezza del nostro desiderio. Ci si preoccupa di capire chi comanda, chi va accolto e chi va rifiutato, chi deve salire in cattedra per insegnare agli altri e chi deve eseguire… La dinamica del potere si nutre di queste logiche, con continue ondate di democraticismo che non risparmiano neppure la Chiesa. Intanto la vita scorre inesorabile e si rischia di perderla vivendo.

 

Nel vangelo di domenica prossima Gesù mostra la chiave per entrare nel cuore della tentazione del potere: la sponsalità. Papa Francesco ha descritto questa dinamica in modo efficace durante la conferenza stampa sull’aereo, di ritorno dal viaggio apostolico in Lussemburgo, lo scorso 29 settembre. Una giornalista domanda: “Dopo l’incontro a Lovanio, è stato diffuso un comunicato nel quale l’università cattolica ‘deplora le posizioni conservatrici espresse da Papa Francesco sul ruolo della donna nella società'”. Risponde il Papa: “Questo documento è stato fatto nel momento in cui parlavo, è stato ‘pre-fatto’, e questo non è morale. Io parlo sempre della dignità della donna e dico una cosa che non posso dire agli uomini: la Chiesa è donna. Maschilizzare la Chiesa, maschilizzare le donne non è umano, non è cristiano. Il femminile ha la sua forza. Anzi, la donna – lo dico sempre – è più importante degli uomini, perché la Chiesa è donna, la Chiesa è sposa di Gesù. Se questo a quelle signore sembra conservativo, io sono Carlo Gardell. Non si capisce. Io vedo che c’è una mente ottusa che non vuol sentire parlare di questo. La donna è uguale all’uomo, anzi, nella vita della Chiesa la donna è superiore, perché la Chiesa è donna. Sul ministero è più grande la misticità della donna che il ministero. C’è un grande teologo che ha fatto studi su questo: chi è più grande, il ministero petrino o il ministero mariano? È più grande il ministero mariano perché è un ministero di unità che coinvolge, l’altro è ministero di conduzione. La maternalità della Chiesa è una maternalità di donna. Il ministero è un ministero molto minore, dato per accompagnare i fedeli, sempre dentro la maternalità. Vari teologi hanno studiato questo e dire questo è una cosa reale, non dico moderna, ma reale. Non è antiquato. Un femminismo esagerato che vuol dire che la donna sia maschilista non funziona. Una cosa è il maschilismo che non va, una cosa è il femminismo che non va. Quello che va è la Chiesa donna, che è più grande del ministero sacerdotale. E questo non si pensa alle volte”.

 

Il grande teologo Hans Urs Von Balthasar aveva sviluppato a lungo questa dinamica del “principio mariano” nella Chiesa, arrivando ad affermare che “Maria è la ‘Regina del Apostoli’ senza rivendicare per sé i poteri apostolici. Lei possiede altro e molto di più” (H.U. von Balthasar, Neue Klarstellungen, trad. ital., Milano 1980, p. 181).

 

(……)

 

https://www.ilsussidiario.net/news/papa-la-chiesa-e-donna-altrimenti-ci-resta-solo-un-gioco-di-potere/2755810/#:~:text=PAPA-,PAPA/%20%E2%80%9CLa%20Chiesa%20%C3%A8%20donna%2C%20altrimenti%20ci%20resta%20solo%20un%20gioco%20di%20potere%E2%80%9D,-Di%20recente%20il


martedì 1 ottobre 2024

La visita di Papa Francesco in Belgio

 



Belgio, una speranza antica da riscoprire

 

Jan De Volder, docente dell'Università cattolica di Lovanio, commenta il viaggio di Papa Francesco e la visita per i seicento anni dell'ateneo: «Ci ha chiesto di non perdere di vista la ricerca della verità»

Luca Fiore01.10.2024

«Ho visto un Papa combattivo. Anziano nel corpo, ma capace dell’energia per scuotere una comunità cristiana che gli appare un po’ addormentata, impaurita e perplessa. Ci aspettavamo un vecchio impegnato in discorsi istituzionali, ma non è stato affatto solo questo: lo abbiamo visto affettuoso, sveglio, con la battuta pronta. Furbo. Mi ha stupito. Ci ha stupito». Jan De Volder è professore all'Università Cattolica di Lovanio, dove insegna nella facoltà di Teologia e Scienze religiose ed è titolare della cattedra “Religione, conflitto e pace”. All’indomani di quello che è stato forse il viaggio più difficile dell’intero Pontificato, per la prima volta nel cuore dell’Europa secolarizzata, il professore belga cerca di individuare i punti salienti del messaggio portato da papa Francesco nel suo Paese. «Il clima della vigilia non era molto favorevole: l’opinione pubblica è apparsa a tratti scettica, a volte molto critica, addirittura cinica. Qualcuno, dopo il lungo viaggio impegnativo in Oriente, pensava che la visita da noi potesse saltare. Poi è arrivato e, come spesso succede con Francesco, le cose si sono smosse».

 

Che cosa l’ha più colpita?

La tappa belga si è aperta con la visita al re Filippo, dove il primo ministro Alexander De Croo ha fatto un discorso molto duro sugli abusi sessuali nella Chiesa e su come la gerarchia ha gestito i casi emersi negli ultimi anni. Il Papa lì ha reagito a braccio dicendo, senza equivoci, che si è trattato di episodi intollerabili e che la Chiesa deve fare in modo che non accadano più. Ha chiesto perdono e ha definito ciò che è accaduto «la nostra vergogna e la nostra umiliazione». Dopo ha incontrato le vittime degli abusi. Anche qui c’erano state delle critiche perché si diceva che un’ora di colloquio con 15 persone, tenuto conto della tradizione, sarebbe stata troppo poco. Poi Francesco si è intrattenuto con loro per quasi due ore in quello che si dice essere stato un incontro aperto, dopo il quale le vittime, alla vigilia quasi tutte critiche, si sono dette contente perché si sono sentite ascoltate da un Papa che è apparso commosso ed empatico. Mi sembra che anche l’opinione pubblica abbia apprezzato.

 

Anche all’università non è stato facile.

Al centro della visita c’era l’invito del Papa per i seicento anni dalla fondazione dell’Università cattolica di Lovanio che, nel 1972, si è scissa nelle sedi di Lovanio, la sede francofona (Katholieke Universiteit Leuven o KU Leuven, ndr), e Louvain-la-Neuve, quella fiamminga (Université Catholique de Louvain o UCLouvain, ndr). Venerdì c’è stato l’incontro con professori incentrato sul tema dei profughi, mentre sabato il Papa ha incontrato gli studenti e il tema era quello dell'enciclica Laudato si'. L’Università ha ringraziato il Pontefice per gli stimoli su questi due temi, ma nei discorsi dei due rettori ha voluto ribadire alcuni temi tipici della cultura liberal che è dominante in questi due atenei: quello dell’apertura rispetto al mondo Lgbtqia+ e quello dell’apertura verso le donne, con anche la richiesta dell’introduzione del sacerdozio femminile. Il Papa ha deciso di non rispondere a queste sollecitazioni, ma a Louvain-la-Neuve ha toccato il tema del ruolo della donna, riproponendo il discorso classico della dottrina cristiana cattolica, insistendo sulla complementarietà tra uomo e donna nella vita della Chiesa, ribadendo che non si tratta di realtà intercambiabili. Questa cosa ad alcuni non è piaciuta, tanto che la rettrice ha pubblicato un comunicato di dissenso alle parole del Papa a discorso appena concluso. Francesco, nel volo di ritorno, ha fatto notare che non è «morale» pubblicare una presa di posizione senza tenere conto di quanto viene detto effettivamente.

Al di là delle tensioni, il Papa ha offerto il suo punto di vista sul compito dell’università.

La sua lettura è stata interessante: un elogio nel mondo degli studi accademici, chiedendo di aprire le frontiere del sapere. Ha domandato di non perdere di vista la ricerca della verità, dunque criticando le ideologie che condizionano la ricerca e chi rinuncia a desiderare di conoscere la verità. Sono cose utili e che raramente si ascoltano in università. Ci sarebbe da approfondire, rileggere e dibattere. Non so dire se questo avverrà o se si andrà avanti come se nulla fosse. È ancora presto per dirlo.

 

Un gesto molto importante è stata la visita alla tomba di re Baldovino.

È nota la stima che i Papi hanno avuto per questa figura. Si dimise per due giorni per non firmare la legge che legalizzava l’aborto. Dopo un anno morì e ci fu un lutto nazionale molto sentito anche a livello popolare. Era considerato, agli occhi dei più, un uomo molto credente, forse anche troppo credente per il belga medio, ma la gente lo considerava un uomo retto, che aveva seguito la propria coscienza. Il suo ricordo oggi è forse un po’ sbiadito. Tuttavia, proprio in queste settimane, nel Parlamento belga si discute della possibilità di una maggior liberalizzazione dell’aborto. Il Papa non ne ha parlato nei suoi discorsi, ma è andato a pregare sulla tomba del re e alla fine della Messa ha annunciato che chiederà che si avvii il processo per la sua beatificazione. Questo ha sorpreso un po’ tutti.

 

Qual è stato il messaggio, invece, alla comunità cristiana?

Ha insistito sulla gioia e sull’evangelizzazione. Lui deve aver l’impressione che la nostra sia una Chiesa stanca in un Paese che si è secolarizzato molto rapidamente. Così ci ha invitato a uscire dalla difensiva e metterci al servizio del Vangelo e della missione. Non più pensando di essere in una posizione di maggioranza, ma sapendo che siamo una minoranza, ci chiede di avere il coraggio di portare il messaggio di Cristo a tutti.

Il Papa ha detto, proprio nel primo discorso in Belgio: «La Chiesa Cattolica vuol essere una presenza che, testimoniando la propria fede in Cristo Risorto, offre alle persone, alle famiglie, alle società e alle Nazioni una speranza antica e sempre nuova; una presenza che aiuta tutti ad affrontare le sfide e le prove, senza facili entusiasmi né cupi pessimismi, ma con la certezza che l’essere umano, amato da Dio, ha una vocazione eterna di pace e di bene e non è destinato alla dissoluzione e al nulla».

Sì, la speranza era proprio il tema di questa visita: "En route avec Espérance". Il Papa percepisce il Belgio come un luogo un po’ depresso, soprattutto per la Chiesa e per i cristiani e quindi ha voluto proporre la speranza antica, perché ha radici nel Vangelo, nel messaggio di Cristo che ha vinto il male e la morte sulla croce, ma anche ribadito che questo slancio si può vivere con nuovo vigore nella nostra epoca. Un messaggio di speranza giovanile che arriva da un ottantottenne. La fragilità del suo corpo esaltava la forza delle sue parole. È stato un viaggio vitale concepito come un invito alla vita. Questo penso abbia colpito tanti, sicuramente i giovani. Ce n’erano alcune migliaia alla veglia con i giovani. Non era in programma che il Papa andasse, invece ha voluto esserci. È stato un momento festoso, dove si è visto un popolo di giovani che hanno voglia di essere cristiani. La messa è stata un momento di festa, ma anche di preghiera. Il silenzio era davvero silenzio.

(…) https://it.clonline.org/news/chiesa/2024/10/01/jan-de-volder-universita-cattolica-lovanio-intervista-viaggio-papa-belgio#:~:text=BELGIO%2C%20UNA%20SPERANZA,bello%20della%20visita.