Non
chiediamo ai ragazzi di essere se stessi a modo nostro
Genitori ed educatori devono imparare ad ascoltare figli e
studenti. Lo psicologo o psicoterapeuta Matteo Lancini si confronta con il
volantino di CL sui fatti di Paderno Dugnano
Paola Bergamini11.10.2024
«Leggendo il volantino, mi ha colpito che non si accenni a
Internet. Provocatoriamente penso che le prossime conferenze le titolerò: “Se
sei adulto e non sai cosa fare, dai la colpa al cellulare”», esordisce Matteo
Lancini, psicologo e psicoterapeuta. «Anche per la tragedia di Paderno Dugnano
si è provato a far ricadere la colpa su social, videogiochi e rapper, ma
Riccardo era un ragazzo normale, non attaccato allo schermo, faceva persino
sport. E si sono dovuti rassegnare a parlare del dolore». Docente alla
Cattolica e alla Bicocca a Milano, presidente della Fondazione Minotauro,
centro clinico per adolescenti e giovani adulti, Lancini impatta
quotidianamente, per lavoro, con quel malessere che, nella forma estrema, ha
portato Riccardo a uccidere. Il suo quindi è un osservatorio privilegiato
sull’universo giovanile.
Partiamo proprio dalla parola dolore. Dove affonda?
C’è una trama affettiva e psichica sui cui dovremmo
interrogarci, perché quello che io vedo è una forte disperazione. Non sono del
tutto d’accordo quando nel volantino si dice che dipende da troppa libertà;
meglio forse dire da una libertà distorta. Penso che, però, prima ci sia un
tema più importante: chiediamo ai ragazzi di essere se stessi, ma a modo
nostro. Che è il titolo del mio ultimo libro: Sii te stesso a modo mio. C’è una
tendenza – in questo Internet ha contribuito – a sovrintendere la mente e il
pensiero dell’altro come necessità di sentirsi adeguati. Un episodio che mi è
capitato può rendere meglio l’idea.
Racconti.
All’uscita di una scuola elementare, un bambino spintona un
compagno che cade all’indietro, più per il peso dello zaino che per la botta
ricevuta. La mamma dell’assalitore si getta sul figlio e dice: «Cosa hai fatto?
Non si risolvono così i conflitti». Il ragazzino mortificato si mette a
piangere e a quel punto la signora, girandosi verso gli altri genitori,
esclama: «Vedete, si è già pentito!». Non ha chiesto cosa fosse successo o,
meglio, ha lasciato perdere, visto che nessuno si era fatto male in modo grave.
In nome di valori “adeguati” non ha ascoltato cosa il figlio avesse da dire. Le
famiglie e gli educatori, in genere, sono più aperti all’ascolto, e questo è
certo un dato positivo, ma non sono in grado prestare attenzione alle emozioni,
ai pensieri più profondi, anche negativi, dei ragazzi.
Forse perché gli adulti hanno paura delle emozioni, dei
sentimenti?
In una società complessa come la nostra, con continui
cambiamenti – mi riferisco, per esempio, ai codici bioetici e deontologici,
alle trasformazioni tecnologiche –, quello che vedo è una fragilità dell’adulto
a cui manca la capacità di identificarsi e quindi di mettersi in relazione con
l’altro. Questa fragilità di senso genera lo stato di grande confusione di cui
mi raccontano i giovani che, mettendo a tacere quelle emozioni – rabbia,
tristezza, vergogna, ansia – che non rispondono alle attese di genitori e
insegnanti, arrivano a non saper distinguere ciò che desiderano, chi sono, da
quello che gli è stato detto di essere per tenere a bada la fragilità adulta.
Non c’è più io o super io: è ciò che chiamo vuoto identitario. Ma la domanda:
«Chi sono?», prima o poi emerge sempre.
È anche un problema educativo.
A mio avviso oggi l’educazione deve passare attraverso un
atteggiamento umano di profonda identificazione con il funzionamento affettivo,
emotivo e psichico dell’altro. Non può esserci educazione digitale, contro la
violenza di genere o all’affettività, per fare alcuni esempi, se non si
ascoltano le voci, a volte terribili, dei ragazzi. Dare legittimità alle loro
parole è la vera emergenza, che non significa dargli ragione. La disperazione
degli adolescenti è legata all’impossibilità di esprimere le proprie emozioni,
che, se non trovano un canale comunicativo, qualcuno pronto ad ascoltarli,
diventano gesti disperati, sempre più spesso contro il corpo (disturbi
alimentari, autolesionismo), e violenti verso gli altri. Le cronache dei
giornali parlano di giovani pronti a tirar fuori i coltelli, di incidenti
automobilistici per abuso di alcool o sostanze pur avendo fatto i corsi di
prevenzione (e spesso sull’asfalto nemmeno ci sono i segni della frenata). Non
hanno niente da perdere perché ormai non hanno niente di loro.
Ma dentro questa disperazione cosa cercano?
Degli adulti credibili, cioè che, in una relazione autentica
identificata, abbiano il coraggio di fare domande significative sulla vita
senza avere la pretesa della risposta pronta. Domande anche disturbanti: stai
pensando al suicidio? Ti vedi brutto? Questo vale per genitori e insegnanti.
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guarda all'infinito»
In questo senso, a scuola si gioca una partita importante.
Sono dell’idea che le trasformazioni in atto devono portare
a un cambiamento nel modo di insegnare. Oggi quello che noto è che spesso il
voto è l’unica forma di valutazione del ragazzo, ma, soprattutto dopo la
pandemia, la scuola è diventata un luogo di costruzione di relazioni, di
diversità, nel senso di pensiero, di apprendimento. Il vero docente è chi dice:
«Hai sbagliato, ora ti dico dove e come puoi raggiungere l’obiettivo». Solo
così si conquistano i ragazzi, che sono molto più autentici di noi, che ci
sottomettevamo al professore di turno augurandogli in cuor nostro le più atroci
sofferenze. Forse sarebbe ora di una riforma fatta per gli studenti e non per
gli insegnanti. Ma per tornare al punto, stare in relazione, identificarsi con
l’altro è più difficile che dire: «Guarda che ti sto educando». Si rischia di
chiamare “educazione” e “norma” la trasmissione di un nostro sistema di valori
oggi molto individuale. Interessante, in questa prospettiva, quando alla fine
del volantino si parla di «bisogno di senso»: «Ciò che desideriamo è qualcuno
che ci ami, che riconosca il nostro valore». Io non credo che l’amore ci salvi,
credo che ci salvi l’identificazione con l’altro. Anche se Gesù ha detto: «Ama
il prossimo tuo come te stesso».
(…)
https://it.clonline.org/news/attualit%C3%A0/2024/10/11/volantino-cl-intervista-matteo-lancini#:~:text=News-,NON%20CHIEDIAMO%20AI%20RAGAZZI%20DI%20ESSERE%20SE%20STESSI%20A%20MODO%20NOSTRO,Matteo%20Lancini%2C%20psicologo%20e%20psicoterapeuta,-Newsletter