mercoledì 25 giugno 2025
lunedì 23 giugno 2025
PERCHE' LA GUERRA DI TRUMP E ISRAELE E' FUORI DALLE REGOLE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
USA vs IRAN/ “Perché la guerra di Trump e Israele è fuori
dalle regole del diritto internazionale”
Int. Pasquale De Sena Pubblicato 23 Giugno 2025 - Aggiornato
alle ore 06:40
Trump, Iran
La guerra preventiva di Israele contro l’Iran e l’attacco
Usa sono illegali e rappresentano un nuovo colpo alla credibilità
dell’Occidente
Israele e Stati Uniti hanno scatenato una guerra preventiva
contro l’Iran in assenza di una minaccia nucleare concreta e presente.
Un’azione contraria alle regole del diritto internazionale, spiega al
Sussidiario Pasquale De Sena, ordinario di diritto internazionale
nell’Università di Palermo e già presidente della SIDI. “Se ammettessimo la
possibilità di difendersi con le armi dinanzi a un pericolo astratto, come in
questo caso, dovremmo ritenere lecito anche l’attacco armato russo
all’Ucraina”. La reazione armata da parte dell’iran, invece, per le ragioni
specularmente opposte, è legittima, afferma il giurista.
Stiamo assistendo a una situazione nella quale l’Occidente
euroatlantico ha totalmente assorbito la logica del doppio standard prodotta da
trent’anni di “New World Order”, l’ordine mondiale neoliberale, e non vede più
la differenza tra verità e menzogna politica, aggressore e aggredito. Ma
soprattutto, di questo doppio standard censura le contraddizioni e gli effetti
paradossali e distruttivi. “L’attacco statunitense – continua De Sena – è un
colpo inferto non solo all’Iran, ma alla credibilità dell’Occidente e alla sua
civiltà giuridica”.
Nella notte di domenica gli Stati Uniti hanno attaccato i
siti nucleari iraniani. Come definirebbe l’operazione americana?
L’azione militare statunitense costituisce una violazione
grave del divieto dell’uso della forza armata nei rapporti internazionali, dal
momento che gli Stati Uniti non hanno subìto alcun attacco dall’Iran. Si tratta
di un attacco armato, sferrato a titolo di complicità nell’azione di Israele –
illecita anch’essa – e volta, per di più, alla distruzione di infrastrutture
che non costituiscono obiettivi militari dal punto di vista del diritto
umanitario.
Quali potrebbero essere le possibili implicazioni
dell’iniziativa americana?
Sul piano giuridico, un attacco di questa portata rende
lecita una reazione armata da parte dell’Iran.
In quali modalità, secondo lei?
Stante il divario delle forze in campo e la lontananza
geografica degli USA, è ipotizzabile che tale reazione non avverrà in forme
uguali e contrarie – come sta avvenendo per Israele –, ma tramite azioni volte
a colpire basi militari statunitensi che si trovano nel territorio di Stati
terzi, o navi e basi navali.
Vuol dire che la guerra è destinata ad allargarsi.
Speriamo che queste azioni non si traducano in attentati
idonei a provocare morti fra i cittadini di quegli Stati. E, ancor di più,
auguriamoci che non vi siano attentati terroristici veri e propri, perché
questa sembra una conseguenza probabile.
Diamo uno sguardo alle reazioni che ci sono state nella
comunità internazionale all’intervento americano.
Il Consiglio di Sicurezza deve ancora riunirsi, ma due Stati
che ne fanno parte, Cina e Russia, hanno già apertamente condannato
l’intervento. La presidente della Commissione europea von der Leyen, nella
breve nota diramata stamane (ieri, nda) sui social, non ha espresso alcuna
condanna. Si tratta di un atteggiamento criticabile.
Per quale ragione?
Perlomeno per due motivi. Sul piano politico, la scelta di
von der Leyen mina significativamente la credibilità dell’atteggiamento
intransigente assunto nei confronti della Russia per l’aggressione all’Ucraina,
visto il chiaro doppio standard di cui è espressione.
E l’altro motivo?
Sul piano giuridico, contribuisce ad indebolire il divieto
consuetudinario dell’uso della forza. Nella misura in cui una sua chiara
violazione non viene contestata a chi l’ha effettuata, viene indebolito un
cardine dell’ordinamento internazionale post seconda guerra mondiale.
Tecnicamente, si contribuisce a un possibile processo di caduta in desuetudine
della norma, perlomeno nella sua attuale configurazione.
Abbiamo visto Cina, Russia e UE. E gli altri Stati?
Si può presumere che gran parte degli Stati dell’Asia
centro-meridionale, dell’America latina, dei Paesi arabi e africani condannino
l’intervento statunitense, com’è già avvenuto con l’attacco israeliano.
Con quali effetti politici?
Il risultato sarebbe quello di una sorta di isolazionismo
euro-statunitense non particolarmente positivo.
Andiamo all’attacco di Israele all’Iran cominciato nella
notte del 13 giugno. Fonti ufficiali dell’IDF lo hanno definito “attacco
preventivo storico per eliminare questa minaccia esistenziale contro lo Stato
di Israele”. Cosa dice il diritto internazionale?
La legittima difesa preventiva non è permessa dal diritto
internazionale, né in concreto – dinanzi, cioè, a un pericolo imminente –, né
dinanzi a un pericolo astratto o, per meglio dire, erroneamente presunto, come
in questo caso. Infatti, a stare alle ultime dichiarazioni rese dal direttore
dell’IAEA alla CNN, la preparazione di un ordigno nucleare da parte dell’Iran
non sarebbe alle viste.
Ma perché un’azione di difesa, appunto, “preventiva” è
illegittima?
Perché l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, di cui
Iran e Israele sono parti, ammette l’uso della forza armata solo in risposta a
un attacco armato già sferrato; e tale norma corrisponde anche al diritto
internazionale generale, nel senso che quest’ultimo non si è evoluto nel senso
di una deroga più ampia rispetto al fondamentale divieto dell’uso della forza.
C’è una considerazione ulteriore da fare a questo proposito.
Prego.
Se ammettessimo la possibilità di difendersi con le armi
dinanzi a un pericolo astratto, come in questo caso, dovremmo ritenere lecito
anche l’attacco armato russo all’Ucraina, perlomeno nella misura in cui questo
è stato espressamente giustificato con la necessità della Russia di reagire
alla prospettiva dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, specificamente
prescritta da una norma della Costituzione di quel Paese.
Qui occorre sottolineare due aspetti. Il primo è che il
regime degli ayatollah si propone di cancellare quella che definisce “entità
sionista”. Il secondo è che l’arricchimento dell’uranio attuato dall’Iran è
ritenuto preliminare alla realizzazione dell’arma atomica. Cosa risponde?
Una cosa sono le affermazioni, altra le possibilità
effettive e i comportamenti concreti: l’Iran non ha la benché minima
possibilità di “cancellare” Israele. Primo, perché non ne ha la capacità
militare, dato che quest’ultimo dispone, probabilmente, dell’arma atomica.
Secondo, perché sarebbe immediatamente attaccato – e probabilmente distrutto –
dagli Stati Uniti. Ciò accadrebbe anche nel momento in cui l’Iran si procurasse
una bomba nucleare e dovesse usarla: un minuto dopo sarebbe esposto a una
devastante rappresaglia americana. A Teheran lo sanno benissimo, perciò le loro
intemerate contro Israele sono essenzialmente propagandistiche.
Gli esperti ritengono che l’arricchimento dell’uranio oltre
il 60% sia un chiaro indizio della volontà di Teheran di costruire l’arma
nucleare. Nessun reattore civile usa combustibile così arricchito e arrivare al
90% richiede un lavoro nettamente inferiore a quello già realizzato. Come mai
l’IAEA non ha approvato all’unanimità la relazione sull’ultima ispezione dei
siti iraniani, sempre renitente ai controlli e scarsamente collaborativo ?
Certamente il comportamento iraniano non è in linea con gli
obblighi derivanti dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), a stare a
quanto emerge dall’ultimo rapporto IAEA. Ma di qui a ritenere che ci sia
l’intenzione di pervenire alla fabbricazione di una bomba al fine di usarla
contro Israele, ce ne corre. Beninteso: essendo l’Iran parte del TNP, esso è
obbligato a usi esclusivamente civili del nucleare; dunque, costruire ordigni
nucleari costituirebbe una violazione del Trattato. Ma, come ho appena detto,
escludo che ciò sarebbe fatto nella prospettiva di distruggere Israele.
E con quale finalità avverrebbe, invece?
Semmai nella prospettiva di dissuadere qualsiasi attacco
israeliano, dunque in una prospettiva difensiva. Ammesso e non concesso che
effettivamente gli iraniani stessero procedendo in questa direzione, mi pare
poi che la reazione israeliana sia la più plastica dimostrazione del fatto che
armarsi a fini difensivi alimenta escalation che finiscono per generare
null’altro che guerre.
Che cosa bisogna fare?
Il problema vero è lavorare per ricreare fiducia, non per
accrescere diffidenza.
In sintesi: TNP, Israele e Iran, come stanno le cose?
Come ho appena detto, l’Iran è parte del TNP, Israele no; e
Israele, probabilmente, possiede l’atomica. Ma neppure se fosse parte del TNP
Israele sarebbe titolato a reagire con la forza alle violazioni del Trattato,
commesse, in ipotesi, dall’Iran. Figuriamoci non essendone parte!
Eppure “l’Iran non deve avere l’atomica” è un assunto
politico consolidato in Occidente. Lo ripetono tutti.
Giuridicamente non ha alcun valore. Anzi esso rappresenta un
disvalore, nella misura in cui esprime la chiara propensione, da parte
dell’Occidente euroatlantico, a usare doppi standard. Va detto che la maggior
parte degli Stati non europei – con alcune eccezioni fra cui Argentina e India
– si sono apertamente schierati contro l’intervento israeliano, dunque contro
la posizione espressa dal G7, che ha sostanzialmente ratificato l’intervento
israeliano, incongruamente definendolo difensivo.
Come commenta quanto ha dichiarato lo storico israeliano
Benny Morris al Corriere della Sera? Il possesso di armi nucleari da parte di
Israele è legittimo “Perché noi siamo una società democratica occidentale e
loro sono un regime fanatico messianico islamico”.
Si tratta di affermazioni che si commentano ampiamente da
sole. Sono però istruttive, perché dimostrano che la guerra all’Iran riscuote
consenso diffuso in Israele e perché, nella sua brutalità, Morris dice il vero
quando osserva che Netanyahu non fa altro che quello che, da anni – senza
un’idea o uno straccio di strategia in testa –, vorrebbero fare USA ed europei
con l’Iran. Lo dimostra la recente dichiarazione di Merz sul “lavoro sporco”
che Israele starebbe facendo.
Quanto accaduto a Gaza dopo il 7 Ottobre riguarda in
qualche modo anche la guerra tra Israele e Iran?
Direi che nella strategia di liquidazione della questione
palestinese manu militari, e in completo disprezzo per il principio di
autodeterminazione, l’attacco all’Iran si inserisce piuttosto bene. Non vi è
nessuna prova che l’operazione terroristica del 7 Ottobre sia stata condotta
sotto il controllo e la direzione iraniana, e credo che l’idea di arrivare a
uno showdown con l’Iran fosse già parte dei piani israeliani da anni.
(….)
https://www.ilsussidiario.net/news/usa-vs-iran-perche-la-guerra-di-trump-e-israele-e-fuori-dalle-regole-del-diritto-internazionale/2848875/#:~:text=USA-,USA%20vs%20IRAN/%20%E2%80%9CPerch%C3%A9%20la%20guerra%20di%20Trump%20e%20Israele%20%C3%A8,(Federico%20Ferra%C3%B9),-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94
(Federico Ferraù)
domenica 22 giugno 2025
L’ansia della pace da Pio IX a Francesco
L’ansia della pace da Pio IX a Francesco (p.Occhetta, 2023)
La Chiesa davanti alle guerre del Novecento, che hanno
provocato un numero di morti tre volte superiore a quelli che si erano avuti
dal I al XIX secolo. Quali tappe caratterizzano l’evoluzione della «teologia
della pace» nei pontificati dall’Ottocento a oggi?
Quale posizione ha assunto la Chiesa davanti alle guerre del
Novecento, che hanno provocato un numero di morti tre volte superiori a quelli
che si erano avuti dal I al XIX secolo? Quali tappe caratterizzano l’evoluzione
della «teologia della pace» nei pontificati compresi tra Pio IX e Francesco?
A partire dalla metà del secolo scorso la guerra
tradizionale si è trasforma in «guerra moderna», quella dell’era nucleare. Dopo
la caduta del Muro di Berlino (1989), invece, è cresciuto il numero dei
conflitti all’interno degli Stati, come quello in Kosovo, le «guerre
dimenticate» dell’Africa, le interminabili «guerre civili» dell’America Latina,
le rivolte del Medio Oriente.
Evolve la natura della guerra: la guerra non è più
combattuta da Stati, negli ultimi anni del secolo XX è emersa la guerra dal
«volto religioso», causata dai conflitti etnici o dal terrorismo
internazionale.
Ma non solo. I conflitti maggiori provengono dagli interessi
privati, basti pensare ai conflitti finanziari con i conseguenti mutamenti
internazionali e l’estensione del dominio privato al di là della politica
democratica. Poi, per la prima volta nella storia dei Parlamenti, non ci si è
limitati a ratificare la decisione dei propri governi (democratici o
autoritari) sulle guerre. Da Obama a Cameron e Hollande hanno dovuto fare i
conti con i loro Parlamenti. Infine il ruolo dei media diviene sempre più importante
come condizione di pace e di guerra. Insomma una prima breve conclusione ci
porta a dire che il futuro della pace passerà sempre di più attraverso il
controllo dell’opinione pubblica perchè nella società civile è cresciuta la
coscienza della pace.
La guerra come inutile strage
La riflessione sulla pace, durante il pontificato di Pio IX
(1846-78), avvicinò cattolici e protestanti che promossero insieme una scuola a
Roma per lo studio del diritto internazionale e la formazione di arbitri
internazionali indipendenti per la risoluzione dei conflitti tra Nazioni.
In questi anni uno dei contributi di maggior rilievo è stato
quello del gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio, tra i fondatori della Civiltà
Cattolica, i cui studi sulla pace e la guerra diventeranno il punto di
riferimento per il pensiero dei Papi fino a Giovanni XXIII, di giuristi e
politici. Taparelli riteneva immorale che gli Stati sovrani potessero ritenere
legittimo entrare in guerra, se un’organizzazione internazionale, che chiamò
etnarchia, avesse impedito ogni ricorso alle violenze tra Stati.
Leone XIII (1878-1903), erede di questa tradizione, iniziò a
sistematizzare una proposta di «pace politica» e nella conferenza sul disarmo
dell’Aja del 18 maggio 1899, a cui parteciparono 26 Stati, il Pontefice venne
riconosciuto da alcune Nazioni come garante dei conflitti in forza della sua
«paternità universale».
In questo periodo la Santa Sede inizia ad avere credibilità
nel campo internazionale proprio grazie al tema della pace.
La Nota ai belligeranti del 1° agosto 1917, in cui Benedetto
XV definì la guerra una «inutile strage», è stata la proposta di uno schema
dettagliato e pratico che nessun Capo di Stato riuscì a proporre per negoziare
la pace. Nonostante la sua proposta sia stata ostacolata dalle grandi potenze,
ancora oggi in campo diplomatico Benedetto XV viene considerato «il Papa della
pace».
Durante la seconda guerra mondiale, Pio XII sarà il primo
Papa ad esporre organicamente «i presupposti essenziali di un ordine
internazionale», riproponendo il pensiero di Taparelli nel radiomessaggio del
Natale del 1942.
Si calcola che durante la guerra la Chiesa guidata da Pio
XII salvò la vita a circa 800.000 ebrei. Basterebbe questo dato per rispondere
alle accuse di silenzio davanti al genocidio e di un suo presunto appoggio ai
regimi totalitari.
L’idea positiva di pace
Con Giovanni XXIII l’idea di pace diventa «positiva», il suo
significato si amplia e include i diritti umani, una nuova idea di democrazia,
la volontà di creare strutture internazionali di governo che la garantiscano.
Nell’archivio di Civiltà Cattolica è custodita una lettera
di Giovanni XIII al direttore, l’attuale card. Tucci, in cui si sottolinea la
volontà di porre le basi per un’etica civile che ricerchi la pace che non fosse
né religiosa né antireligiosa, ma «laica», fondata su una razionalità etica
condivisa dalla maggioranza che crede nella costruzione di una società
democratica. Era il sogno di Taparelli.
Con Paolo VI (1963-1978) la Chiesa introduce una vera
rivoluzione epistemologica nella dottrina sulla pace distinguendo, nel campo
della morale sociale, una doppia natura della pace: «la pace interiore» e la
«pace esteriore». I gesuiti vennero incaricati dal Papa di scrivere i più
importanti discorsi sul tema. Per studiare l’evoluzione della teologia della
pace, oltre al suo messaggio alle Nazioni Unite nel 1965 in cui gridò «mai più
la guerra» ne ricordiamo altri due ancora poco conosciuti: il radiomessaggio
del 1967: «Il cammino della pace tra i popoli passa per la “pace del cuore”» e
l’omelia del 1° gennaio 1969 nella chiesa dell’Ara Caeli a Roma. La pace, per
Paolo VI, è nutrita da una radice spirituale, è un dono che si accoglie e la
possono costruire e mantenere coloro che scoprono la pace del cuore.
Al suo pontificato dobbiamo anche l’inizio dell’«educazione
alla pace», con gli undici messaggi della Giornata mondiale della pace
(1968-1978), da lui inaugurate.
La pace come azione politica e profezia
Giovanni Paolo II difese la «pace ad ogni costo» anche
davanti a una possibile guerra totale e di religione, che molti politologi
prevedevano in seguito all’attacco di Al Quaeda alle torri gemelle. Bastava che
Giovanni Paolo II entrasse in quella trappola infernale, attaccasse
genericamente l’Islam… e il mondo si sarebbe trovato diviso e schierato in base
alla confessione religiosa. Non andò così per una scelta profetica.
In due encicliche, la Sollicitudo rei socialis (1987) e la
Centesimus Annus (1991), Giovanni Paolo II aveva posto le sue idee sulla pace
ma è nella Giornata di Assisi del 27 ottobre 1986 che presentò la sua proposta
profetica di pace. Cristiani, ebrei e musulmani si riunirono per la prima volta
per chiedere insieme il dono della pace. Il messaggio era allo stesso tempo
semplice e chiaro: l’uomo credente deve vivere e insegnare la riconciliazione,
la mediazione pacifica nei conflitti sociali, la possibilità di una vita
comunitaria autentica. Queste sono le «armi» in mano alle religioni per
costruire la pace.
Nel 1991 i gesuiti di Civiltà Cattolica scrissero un
articolo affermando che con l’avvento della «guerra totale» la guerra non è in
alcun modo permessa ed è sempre un intrinsece malum. L’articolo fu voluto e
difeso da Giovanni Paolo II. Ma il mondo cattolico si divise. Viene così
superata la dottrina tradizionale della guerra giusta.
Per i gesuiti, si legge negli archivi ancora segreti della
Civiltà Cattolica, la questione, oltre ad essere di natura epistemologica, è
anche semantica. Cambiando la sua natura, la guerra deve cambiare anche il
linguaggio che la spieghi. La Chiesa di Giovanni Paolo II chiede di abbandonare
l’uso della parola «guerra» e parla di «conflitti armati», che giustifica nei
casi di legittima difesa e di ingerenza umanitaria.
Benedetto XVI ha consolidato la prassi e la dottrina
precedente. Durante il suo pontificato gli sforzi della Chiesa in campo
diplomatico hanno puntato sulla prevenzione della pace, chiamata anche
transitional justice. Durante il suo discorso alle Nazioni Unite del 18 ottobre
2008, ha accolto il principio di «responsabilità di proteggere» (The
responsibility to protect). Ma l’impegno della Chiesa è anche sullo ius
prae-bellum. La dottrina sociale della Chiesa chiede di investire nella
formazione, nello sviluppo economico, nelle buone governances, nelle
organizzazioni internazionali, nell’impegno a sottoscrivere patti regionali.
Concretamente si stanno appoggiando le politiche di riduzione degli armamenti
nucleari e la riforma del Consiglio di Sicurezza, che tenga in debito conto i
mutati equilibri geopolitici.
La pace da costruire nelle periferie sociali
In questa “nuova” situazione sociale ed ecclesiale papa
Francesco ha assunto un atteggiamento peculiare di fronte alla grande missione
della Chiesa sul tema della Pace. Certo si rivolge alla politica, ma i suoi
rappresentanti non sono i suoi interlocutori privilegiati. Innanzitutto il Papa
ha compreso che il problema oggi non si pone più in termini «nazionali» come
per i suoi predecessori; anche quando i conflitti sono apparentemente limitati,
in realtà sono conflitti globali in quanto anche nel piccolo sono coinvolti gli
stessi attori che gestiscono le scene internazionali. La soluzione che papa
Francesco sta proponendo è quella del bottom up, dal basso, dai corpi
intermedi, dalle associazioni, Ong, sindacati ecc., il mondo del terzo settore,
quello del welfare state.
Per questo il Papa parla sempre più di portare la pace dove
c’è violenza. E lo fa con la preghiera. Una veglia di pace davanti al
Santissimo per chiedere di evitare un attacco della Siria è stata una «bomba di
pace» a cui hanno aderito tutti gli uomini di buona volontà.
Una forma di guerra secondo il Pontefice è ciò che anima la
tratta delle persone, le ingiustizie sociali ecc. Sono dunque le “periferie” da
ri-pacificare! Il modo per farlo è quello studiato negli ultimi anni del
Novecento. Rompere, attraverso la cultura e l’educazione, il duopolio di Hobbes
dove l’altro è il possibile nemico, e favorire, attraverso processi di
riconciliazione civile, l’amicizia civica in cui l’altro è concittadino.
Portare pace alle «guerre sociali» comporterà una nuova ricollocazione della
natura delle guerre: l’impegno a portare la pace nell’economia e nella scuola,
fino alla ricerca scientifica per preparare non «individui egoisti», ma
«persone in relazione e interconnesse» l’una con l’altra per cooperare insieme.
La parola d’ordine sulla pace di papa Francesco è
“pacificazione”. E questa grazie sia alla misericordia di un dono, che è quello
del perdono, che fa cambiare le sorti della storia e sia all’ascolto maturo
della voce della propria coscienza che aiuta a rispettare un principio antico:
bonum faciendum et male vitandum.
Da più di un secolo la Chiesa è ritornata a parlare in forma
esplicita e radicale del «Vangelo di pace» (At 10,36) davanti alla guerra, e lo
fa senza assumere posizioni “ideologicamente pacifiste”, ma realiste, possibili
nella contingenza della storia. I Pontefici si sono mossi con una
preoccupazione comune: proteggendo i più deboli nei conflitti, limitando i
danni delle guerre, costruendo coscienze e comunità di pace.
Per noi questo insegnamento è un’eredità da vivere.
(….)
https://www.sussidiarieta.net/cn1583/l-ansia-per-la-pace-da-pio-ix-a-papa-francesco.html#:~:text=La%20Chiesa%20davanti,un%E2%80%99eredit%C3%A0%20da%20vivere.
sabato 21 giugno 2025
giovedì 19 giugno 2025
LA RESISTENZA IRANIANA/ “No a bombe e ingerenze esterne, serve una terza via, ecco quale”
LA RESISTENZA IRANIANA/ “No a bombe e ingerenze esterne,
serve una terza via, ecco quale”
Int. Ghazal Afshar Pubblicato 19 Giugno 2025 - Aggiornato
alle ore 13:18
No alla guerra, no all’accondiscendenza nei confronti del
regime. La resistenza iraniana ha un’alternativa e fa un appello alla comunità
internazionale
Niente dialogo con il regime e niente guerra. Per liberare
l’Iran c’è una terza via da percorrere, quella indicata dal Consiglio Nazionale
della Resistenza Iraniana (CNRI): l’attuale gruppo di potere va isolato anche a
livello internazionale per favorire una transizione il più possibile pacifica,
osserva Ghazal Afshar, iraniana residente in Italia, portavoce
dell’associazione dei Giovani iraniani, nella quale sia il popolo a dire quale
Paese vuole e non forze esterne che agiscono in base ai loro interessi e non a
quelli della gente.
Gli oppositori degli ayatollah che fanno capo all’esperienza
del loro parlamento in esilio si fanno avanti e chiedono una soluzione della
crisi iraniana senza spargimento di sangue, proprio mentre USA e Israele si
preparano a sganciare le bombe più potenti per intaccare i siti nucleari
iraniani. Con Trump che intima di arrendersi e Khamenei che risponde che non lo
farà mai.
Cosa pensa l’opposizione iraniana della guerra scatenata
da Israele?
Parlo per conto dell’Associazione dei Giovani Iraniani, che
sostiene da sempre il CNRI. Fin dall’inizio di questo ennesimo conflitto
scoppiato nella regione abbiamo ribadito che l’opzione non può essere tra
l’appeasement con il regime e la guerra, perché esiste una terza via più che
percorribile, quella presentata ormai da vent’anni dalla presidente del
Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, Maryam Rajavi. Una via che
riconosce la lotta del popolo iraniano e la sua resistenza contro ogni forma di
dittatura, sia quella precedente dello Scià, sia quella attuale dei mullah,
sulla base di un piano in dieci punti presentato nel 2006 al Consiglio
d’Europa.
Il piano cosa prevede?
Tra i punti chiave ci sono l’istituzione di una Repubblica
basata sulla separazione tra religione e Stato, l’uguaglianza di genere,
l’abolizione della pena di morte: il regime è il detentore del record di
esecuzioni capitali. Vogliamo un Iran non nucleare e pacificato.
Materialmente come volete realizzare questi punti?
Chiedete che Israele smetta di attaccare?
Questa è una guerra avviata in seguito alle azioni del
regime, ma la guerra principale che si sta combattendo nel nostro Paese non è
tra il regime e Israele, ma tra il regime e la popolazione iraniana. Non
vogliamo puntare l’attenzione su ciò che dovrebbe fare una forza esterna che ha
attaccato, ma sulla necessità di considerare l’alternativa che è rappresentata
dal Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, una sorta di parlamento in
esilio, con tanto di commissioni, che ha una rete di sostenitori all’interno
del Paese.
Come si arriva a far cadere Khamenei e il suo gruppo di
potere?
Non vogliamo ingerenze esterne perché gli attori coinvolti
farebbero i loro interessi, che non hanno nulla a che vedere con la lotta del
nostro popolo. Chiediamo semplicemente di isolare l’attuale regime, di mettere
da parte i tentativi di dialogo e quelli per cercare di riformarlo. E di
inserire il Corpo delle Guardie della Rivoluzione nella lista dei terroristi.
Quindi volete che la comunità internazionale riconosca il
CNRI come governo legittimo?
La comunità internazionale non deve più riconoscere il
regime come interlocutore, ma rivolgersi al Consiglio Nazionale della
Resistenza Iraniana. Non vogliamo né armi, né denaro, né potere, ma solo
isolare un regime che è vulnerabile.
La vostra, quindi, è una via non violenta, che prevede
solo l’uso delle “armi” diplomatiche?
Esattamente. Pensiamo a una transizione pacifica e
democratica, che non preveda spargimento di sangue per bombe che, volenti o
nolenti, comunque portano alla morte indiscriminata di civili. Da chiunque
arrivino. Il problema è capire perché siamo arrivati a questo punto, dopo
decenni di accondiscendenza nei confronti del regime, che hanno permesso di
organizzare la repressione esportando il terrorismo. Il CNRI ha anche il merito
di aver smascherato per la prima volta nel 2002 gli impianti nucleari segreti
del regime iraniano, ai quali si è aggiunta la realizzazione di missili con una
gittata di oltre 3mila chilometri, che potrebbero arrivare nel cuore
dell’Europa
(….)
https://www.ilsussidiario.net/news/la-resistenza-iraniana-no-a-bombe-e-ingerenze-esterne-serve-una-transizione-pacifica-ecco-come/2847044/#:~:text=ESTERI-,LA%20RESISTENZA%20IRANIANA/%20%E2%80%9CNo%20a%20bombe%20e%20ingerenze%20esterne%2C%20serve%20una,Iran%20minaccia%20il%20mondo%2C%20Merz%3A%20%E2%80%9CIsraele%20fa%20lavoro%20sporco%20per%20noi%E2%80%9D,-ULTIME%20NOTIZIE%20DI
(Paolo Rossetti)
sabato 14 giugno 2025
mercoledì 11 giugno 2025
Messaggio in occasione del Pellegrinaggio Macerata-Loreto (14-15 giugno 2025)
Messaggio in occasione del Pellegrinaggio Macerata-Loreto
(14-15 giugno 2025)
Cari amici,
sono grato a voi tutti,
organizzatori e pellegrini, per aver dato la vostra disponibilità a
partecipare a questo gesto così
importante per la storia del nostro movimento, che vuol essere un
contributo a sostenere la
missione della Chiesa nel drammatico frangente storico in cui oggi siamo
chiamati a vivere.
Anzitutto, siamo chiamati. Dice
don Giussani: «La vita razionale dell’uomo dovrebbe essere
sospesa all’istante, sospesa in
ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale
che sono le circostanze» nelle
quali ci troviamo a vivere (Il senso religioso, Bur, Milano 2023, p.
189). Circostanze che talvolta
appaiono difficili da decifrare, faticose, persino ostili, ma davanti alle
quali siamo chiamati a stare,
come Maria che, davanti al dolore innocente di suo Figlio sulla croce,
mentre gli apostoli fuggivano,
“stava” – Stabat Mater – perché era davanti a una presenza. Per lei, la
prima chiamata dell’Angelo non si
era esaurita; quella promessa di felicità, di giustizia, di amore che
le era stata annunciata nella sua
casa di Nazareth, custodita a Loreto, coincideva anche in quel
momento con una presenza, con
Gesù sulla Croce, ed era destinata a durare per sempre.
Per questo il vostro gesto è
prezioso. Dobbiamo chiedere a Maria di essere come lei, «figlia
del [suo] figlio»: dobbiamo
chiederLe la grazia di essere davvero liberi, cioè di assecondare
l’attrattiva di Cristo presente
dentro le circostanze, di accettare quella simpatia profonda che si
impone nell’incontro con Lui
presente “qui e ora”, anche a distanza dal primo incontro. È solo questo,
infatti, che ci permette di
“stare” dinanzi a qualunque circostanza.
Anche noi, come Maria, siamo
chiamati, con-vocati attraverso un incontro, che per noi ha
assunto i tratti di una compagnia
umana che ci ha raggiunto e coinvolto: ciascuno chiamato con il
proprio nome, dunque, ma insieme.
In un mondo sempre più segnato dalle divisioni tra Stati e culture,
tra popoli e persone, la nostra
unità costituisce un segno per tutti del destino di amore e di pace cui
tutti siamo chiamati.
È a questo che papa Leone XIV ci
sta instancabilmente richiamando fin dall’inizio del suo
ministero petrino, quando ha
indicato nell’amore e nell’unità «le due dimensioni della missione
affidata a Pietro da Gesù» e ci
ha invitato a essere «un piccolo lievito di unità, di comunione, di
fraternità»: «Questo, fratelli e
sorelle, vorrei che fosse il nostro primo grande desiderio: una Chiesa
2
unita, segno di unità e di
comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato» (Omelia per
l’Inizio del Ministero Petrino,
18 maggio).
Non c’è nulla di più urgente che
far nostro il desiderio indicatoci dal successore di Pietro,
affidandoci – come lui ha fatto
il giorno stesso della sua elezione – a Maria.
Quando Giussani si recò in
pellegrinaggio a Lourdes nel 1992, in occasione del decennale del
riconoscimento ecclesiastico
della Fraternità di Comunione e Liberazione, ebbe a dire che «la vita
intera del mondo, di tutti gli
uomini, è legata come possibilità di equilibrio e di felicità, di calore e di
pace, a questa coscienza di
essere figli, nel rapporto con il seno fecondo della Vergine Maria. A noi
cristiani questo è dato, come per
caso, cioè per Grazia. Ma perché a noi? Perché lo riveliamo agli
altri! E così, in questa
figliolanza siamo di fronte al mondo. Sì, di fronte a questo mondo: disperato e
cinico, che riconosce come unico
fattore il potere, e perciò la violenza» («A riscoprire una coscienza
di figli», Avvenire, 17 ottobre
1992, p. 1).
Recandovi in pellegrinaggio alla
casa di Maria, potrete porre voi stessi, il nostro movimento
e la Chiesa intera nelle braccia
della Madre, certi del suo amore per noi, chiedendo a lei la grazia della
nostra unità come profezia di
pace per il mondo, secondo le intenzioni del Papa.
Buon cammino!
In amicizia,
Davide Prosperi
lunedì 9 giugno 2025
O la Pentecoste o la Babele
O la Pentecoste o Babele
Nella Pentecoste accade qualcosa di nuovo, impensabile senza
lo Spirito. Si rinnova il miracolo dell’io e con lui il dono di una unità nuova
Simone Riva Pubblicato 8 Giugno 2025
“Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua
nativa?” (At 2, 8). Il segno che è accaduto qualcosa di nuovo, che quel
“fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso” non ha lasciato le cose come
le ha trovate, è tutto contenuto in quella domanda che si fanno le persone
radunate sotto il cenacolo, dove gli apostoli erano chiusi a doppia mandata per
paura di tutto e di tutti.
All’improvviso, il fatto di avere diverse provenienze non è
più un problema. Viene capovolta la logica della torre di Babele, ben descritta
dall’allora arcivescovo di Monaco e Frisinga nell’omelia per la Pentecoste del
1977: “Mentre stavano costruendo insieme, si trovarono improvvisamente a
costruire uno contro l’altro. E mentre cercavano di diventare dèi corsero il
rischio di non essere più neanche uomini, poiché in essi andò distrutto ciò che
c’è di più umano, l’accordo e la capacità di comprendersi” (Joseph
Ratzinger/Papa Benedetto XVI, Vieni, Spirito Creatore. Omelie sulla Pentecoste,
Lindau, Torino 2006, p. 12).
Luca, nel testo degli Atti, parla di “lingua nativa”,
escludendo così l’improvvisa abilità degli apostoli nell’esprimersi in greco,
lingua franca di allora, e facendoci capire che non si trattò neppure di un
acume particolare che li mise nella condizione di accordare tutti con
ragionamenti o strategie.
Lo Spirito Santo, piuttosto, consentì agli apostoli di
raggiungere gli uomini nel loro punto di origine, nella lingua che hanno
imparato quando sono nati per entrare in rapporto con la realtà. Il dono della
Pentecoste ha a che fare con il primo linguaggio nel quale ogni uomo si sente a
casa, dove i termini non sono equivocati e le flessioni degli accenti non
confondono i significati.
Questo spiega lo stupore di tutti, degli apostoli e della
“folla che si radunò turbata perché ciascuno li udiva parlare nella propria
lingua” (At 2, 6). In effetti lo stupore diventerà il vero nuovo linguaggio
dello Spirito, che precede anche la capacità di esprimersi. Non a caso, uno dei
segni di chi si stupisce è il rimanere “a bocca aperta”, senza bisogno di dire
una parola. Dio mette l’umanità davanti alla sua opera e questo accorda i
cuori.
Benedetto XVI ribadì questo metodo divino nella sua omelia
per la Pentecoste del 2006: “Restare insieme fu la condizione posta da Gesù per
accogliere il dono dello Spirito Santo; presupposto della loro concordia fu una
prolungata preghiera. Troviamo in tal modo delineata una formidabile lezione
per ogni comunità cristiana. Si pensa talora che l’efficacia missionaria
dipenda principalmente da un’attenta programmazione e dalla successiva
intelligente messa in opera mediante un impegno concreto. Certo, il Signore
chiede la nostra collaborazione, ma prima di qualsiasi nostra risposta è
necessaria la sua iniziativa: è il suo Spirito il vero protagonista della
Chiesa. Le radici del nostro essere e del nostro agire stanno nel silenzio
sapiente e provvido di Dio”.
Quando il punto di partenza siamo noi, e i nostri tentativi,
presto o tardi torniamo al metodo della torre di Babele e, in nome degli ideali
più alti, anziché essere uno per l’altro ci ritroviamo “improvvisamente a
costruire uno contro l’altro”. Con grande realismo Benedetto XVI ci ha
ricordato che questo rischio è per tutti, persino per le comunità cristiane.
(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/6/8/o-la-pentecoste-o-babele/2842561/#:~:text=CHIESA-,O%20la%20Pentecoste%20o%20Babele,Come%20mai%20ciascuno%20di%20noi%20sente%20parlare%20nella%20propria%20lingua%20nativa%3F%E2%80%9D.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94
Dio permette comunque tutto questo perché il metodo della
Pentecoste non cambi: devo esserci io. Se manca uno che dica “io” in piena
libertà lo Spirito non avrebbe su chi posarsi. Così fiorisce il dono
dell’unità, come l’ha presentata papa Leone nell’omelia di domenica 1° giugno:
“Il Signore non vuole che noi, per unirci, ci sommiamo in una massa indistinta,
come un blocco anonimo, ma desidera che siamo uno: ‘Come tu, Padre, sei in me e
io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola’. L’unità, per la quale Gesù
prega, è così una comunione fondata sull’amore stesso con cui Dio ama, dal
quale vengono al mondo la vita e la salvezza. E come tale è prima di tutto un
dono, che Gesù viene a portare. È dal suo cuore di uomo, infatti, che il Figlio
di Dio si rivolge al Padre dicendo: ‘Io in loro e tu in me, perché siano
perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come
hai amato me’”.
Cristo pone la Trinità come paradigma della vera unità. E
perché, nella storia, questo non si riduca a un discorso, lo Spirito Santo
elargisce i doni carismatici come provocazione per tutta la Chiesa che può così
godersi “una Pentecoste ancora in cammino” (Verbum Domini n. 4).
Doni carismatici che, affidati a uomini e donne concreti,
domandano di essere attualizzati e non semplicemente ripetuti, come sottolinea
Jesús Morán nel suo bel testo Fedeltà creativa. La sfida dell’attualizzazione
di un carisma (Città Nuova 2016): “Così come accade per la Tradizione della
Chiesa – poiché custode della Rivelazione – anche per noi vale il principio che
questa non s’identifica mai solo con una mera trasmissione scritta o orale. La
vera Tradizione non riguarda qualcosa che semplicemente sopravvive, ma qualcosa
che c’è stato, è, e sarà. Non si tratta quindi di ripetizione ma di
continuazione verso un’attualizzazione sempre più ampia, e questo non dipende
solo da una prova documentale, che può essere addirittura azzardata o
frammentaria, e comunque sempre suscettibile di interpretazioni anche
problematiche” (p. 24).
Poiché molti sono capaci di “ripetere”, ma non tutti di
“attualizzare”, questo resterà un criterio insuperabile per verificare cosa
rimane, nella storia, di un dono dello Spirito, evitando di trovarsi, quasi
senza accorgersi, distratti e rassegnati nella sequela di altro, con il volto
di un discorso formalmente giusto ma sostanzialmente mondano.
(….) https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2025/6/8/o-la-pentecoste-o-babele/2842561/#:~:text=CHIESA-,O%20la%20Pentecoste%20o%20Babele,Come%20mai%20ciascuno%20di%20noi%20sente%20parlare%20nella%20propria%20lingua%20nativa%3F%E2%80%9D.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94
Per questo don Morán precisa che l’attualizzazione di un
carisma “consiste nel creare le condizioni perché chi riceve il suo annuncio
sperimenti di riceverlo dall’anima stessa del fondatore” (Ibidem, p. 33). La
Pentecoste, dunque, riaccade ancora oggi spalancando, come il suo primo giorno,
le porte per l’uomo a una sfida inesausta per la conquista del suo vero sé,
commossa e stupita, tanto da rimanere “a bocca aperta”, tanto da far sorgere la
domanda: “Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?”.
venerdì 6 giugno 2025
«La Chiesa, un luogo per tutti»
Oggi in Vaticano la testimonianza di Camilo Conejeros e
Margarita Sillano all’incontro annuale dei moderatori delle associazioni
internazionali di fedeli, dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità. Su
Tracce di novembre la storia di questa giovane coppia e di come accompagnano i
ragazzi “irrecuperabili” di El Duraznal a Santiago del Cile
Santiago, capitale del Cile. Sorge in un’antica e florida
vallata sulle sponde del fiume Mapocho ed è circondata dalle maestose cime
della Cordigliera delle Ande. L’architettura disordinata, i quartieri vivaci,
le colline con i punti panoramici sponsorizzati dalle guide turistiche: sono
tante le bellezze di questa città sudamericana fondata nel giorno di Santa
Lucia, il 13 dicembre 1541. Solo che chi ci abita, spesso, non ha l’opportunità
di vederle perché la durezza della vita quotidiana impedisce anche solo di
alzare lo sguardo. Basti pensare alla gente di El Duraznal, un’area vulnerabile
della periferia di Puente Alto, un sobborgo della capitale. Omicidi, spaccio,
regolamenti di conti tra bande, abbandono scolastico, famiglie disfunzionali
sono la norma in questo angolo di mondo.
In quelle strade e in quelle case, affacciati alle finestre
o rincorrendo un pallone, vivono moltissimi bambini e adolescenti. Spesso senza
genitori – perché sono morti o in carcere oppure non in grado di provvedere
loro – né figure adulte di riferimento. La nostra storia inizia qui, in queste
vie caotiche dove alcuni giovani universitari, seguendo le orme degli amici
sacerdoti della Fraternità San Carlo Borromeo, cominciano nel 2017 ad andare a
cercare questi ragazzi. Semplicemente per fare loro compagnia. Tra loro ci sono
Camilo e Margarita. «Ho conosciuto il movimento a 14 anni frequentando la
parrocchia dove alcuni preti della San Carlo erano arrivati in missione», dice
lui. «Nel 2014, per un ritiro quaresimale, ho incontrato Margarita». I due
cominciano a uscire insieme, si fidanzano e nel 2022 si sposano. Iniziano a
lavorare: lui come maestro di matematica, lei come terapeuta occupazionale,
dedita alla riabilitazione e al reinserimento sociale di soggetti fragili, con
problemi di droga.
Racconta Camilo: «Nel 2017 andavamo all’università ed
eravamo diventati molto amici di don Lorenzo Locatelli, uno dei missionari di
Puente Alto. Quell’anno avevo molto tempo libero perché ormai seguivo solo due
corsi. Sapevo che don Lorenzo andava nel Duraznal durante la settimana e decisi
di aiutarlo. Mi lanciai proponendo un laboratorio di basket per i ragazzi. Dopo
un’ora mi fu chiaro che non avrebbe funzionato: a loro interessava solo il
calcio. Non ci siamo scoraggiati e, insieme a Margarita e altri amici, abbiamo
continuato ad andare: è nata una caritativa che dura ancora oggi».
«La caritativa a El Duraznal ci ha insegnato un metodo, ci
ha consegnato la forma con la quale vogliamo vivere. Al servizio degli altri,
disponibili ad accogliere ma sempre seguendo qualcuno»
Il gesto è semplice: si va nelle case e per le strade a
chiamare i bambini e gli adolescenti, li si invita all’oratorio per giocare, si
fa merenda con pane e cioccolato e poi, per chi vuole, verso sera c’è la Messa.
«Da qualche tempo c’è anche un piccolo momento di dialogo, che noi chiamiamo
“raggio”, che dura una ventina di minuti. Un giorno», ricorda ancora Camilo,
«un ragazzo venne da me dicendomi di avere tantissime domande sulla vita. Gli
proposi di trovarci per parlarne, lui lo disse ai suoi amici, e così è nato il
raggio. Un luogo dove parliamo di tutto: della solitudine, del dolore, dei
primi innamoramenti».
Margarita ascolta Camilo sorridendo. Non lo interrompe mai,
si lasciano la parola l’uno con l’altro. «Ci siamo resi conto, con il passare
dei mesi, che la caritativa nel Duraznal ci insegnava un metodo, ci consegnava
la forma con la quale volevamo vivere. Cioè al servizio degli altri,
disponibili ad accogliere ma sempre seguendo qualcuno. Volevamo servire la vita
della Chiesa, costruirla anche noi». Non sono parole vuote. E infatti ricordano
a uno a uno i nomi e i volti di questi giovani, anche di quelli che se ne sono
andati. «Il primo fu Brando. Viveva con la zia, senza genitori perché erano nel
mondo della droga. Ricordo ancora quando si fermò a Messa per la prima volta.
Davanti a noi il Crocifisso e due statue: la Madonna e san Giuseppe. Mi chiese
chi fossero. Non li aveva mai visti. Iniziò a fare il chierichetto finché un
giorno mi chiese se poteva vivere con me. Risposi di no, perché all’epoca ero
solo un povero universitario spiantato che abitava ancora con la mamma».
Quel giorno, il Vangelo della Messa raccontava l’episodio in
cui Gesù diceva che chi accoglie i bambini accoglie Lui. «Rimasi di sasso»,
racconta Camilo. «Qualche tempo dopo, Brando se ne andò. Ero triste, raccontai
a casa quello che era successo e mia madre disse che lei avrebbe desiderato
accogliere in casa un bambino bisognoso». Le cose non vanno sempre come
sperato. «La sera stessa Margarita mi chiamò per dirmi che una sua amica voleva
abortire. Le parole di mia mamma e quanto vissuto con Brando ci fecero
accorgere che saremmo stati disposti ad accogliere noi quel bambino se la
gravidanza fosse proseguita». Il piccolo non nacque, Brando non è mai tornato.
Ma Dio ha donato a questa giovane coppia, negli anni a venire, molto più di
quanto potesse immaginare.
La caritativa infatti prosegue, passano tre anni, e
Margarita si accorge che pallone e corda per saltare non bastano più. «I
bambini iniziavano a diventare grandi e in noi maturava la preoccupazione: cosa
proponiamo a loro? Prima o poi dovremo parlare di Gesù, di questo Amico che ha
preso la nostra vita e l’ha resa così bella». La parrocchia della San Carlo
conta infatti sette cappelle, tutte erette da gente del posto, e le attività
sono tante: catechismo, oratorio, Messa, momenti di convivenza detti campamentos.
Perché non proporre anche al “gruppo del Duraznal” una vacanza insieme? Il
rischio, si dicono, è elevato perché non sono soggetti semplici. Ma vale la
pena tentare.
«Due anni fa abbiamo fatto il primo campo fuori Santiago.
Insieme a don Lorenzo, abbiamo deciso in quei giorni di dire loro finalmente
chi è Gesù, chi è l’Amico cui consegniamo la nostra vita. Li abbiamo portati
davanti a una cascata imponente, siamo stati tutti in silenzio e poi abbiamo
spiegato che quella cascata è stata fatta da qualcuno che ci ama e ci ha
chiamato per nome. Poi abbiamo letto insieme il Vangelo su Giovanni e Andrea.
C’era un’attenzione in ciascuno di quei ragazzi… inimmaginabile». Quella prima
vacanza, dicono, è stata uno spartiacque. «Loro stavano aspettando qualcosa di
grande per la loro vita», dice Margarita. «È stato commovente assistere al
risveglio del desiderio del loro cuore. E nelle cinque ore di auto che da
Santiago ci portavano alla vacanza, l’altra cosa commovente è stata che hanno
cominciato a chiamare me e Camilo mamma e papà».
«Tanti anni fa, pensavo che la Chiesa non potesse arrivare
dappertutto: la povertà, le famiglie distrutte, la disperazione nera. Come
poteva Dio abitare lì? Ora ho visto che non è così. Il Signore risponde»
Mentre parla, Margarita mostra il disegno di una cascata,
con la scritta «Finalmente libero». Lo ha fatto uno di quei ragazzi, due anni
dopo quella prima esperienza. Anche la vacanza successiva è un passo di
maturazione. Camilo apre infatti il suo cuore durante una serata insieme,
raccontando di suo padre alcolizzato e abbandonato da tutti. «Continuo a
stargli vicino perché nella Chiesa e nel movimento ho imparato che le ferite si
possono guardare e mettere davanti a Dio. Il giorno dopo abbiamo tenuto un’assemblea
e i ragazzi hanno cominciato a condividere i dolori delle loro vite».
Tutti parlano, raccontano, piangono nello scoprire che le
difficoltà che vivono sono storia comune. E che ora hanno un luogo dove poterle
consegnare. Tutti. Tranne uno. Se ne sta sprofondato nel divano, cappuccio ben
calato in testa, silenzioso. Durante il tragitto per rientrare a Santiago, quel
ragazzo ombroso è in auto proprio con i due giovani sposi. Improvvisamente
inizia a vuotare il sacco. Un mese dopo quell’episodio, durante un raggio alla
caritativa, dirà davanti a tutti: «Ho scoperto qui che la mia vita è amata, ho
lasciato la marijuana perché ho incontrato qualcuno che mi ama». Camilo e
Margarita, con don Lorenzo e gli altri amici del movimento, capiscono che è il
momento di parlare seriamente del cammino cristiano a quei ragazzi. Camilo: «Ho
semplicemente spiegato loro che nella mia vita la felicità coincide con
l’incontro cristiano, che è sperimentare il centuplo. Perché ora ho dieci
padri, molti amici, una moglie stupenda e una bella famiglia. “Vi interessa?”.
Hanno risposto tutti di sì e così è iniziato il catechismo del sabato».
Molti giovani del Duraznal hanno chiesto il Battesimo, hanno
iniziato il cammino dei Sacramenti e in alcuni casi anche le loro famiglie li
hanno seguiti.
(…) https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/camilo-margarita-el-duraznal-cile#:~:text=Il%20gesto%20%C3%A8,Iscriviti
giovedì 5 giugno 2025
Giubileo dei Movimenti. Il messaggio di Prosperi
Giubileo dei Movimenti. Il messaggio di Prosperi
Le parole del Presidente della Fraternità di CL alla vigilia
del pellegrinaggio a Roma per il Giubileo dei Movimenti, delle Associazioni e
delle nuove Comunità (7-8 giugno 2025)
28.05.2025
Cari amici,
il giorno della sua elezione, papa Leone XIV ci ha invitato
a riconoscerci «uniti con Dio e tra di noi» (8 maggio 2025). Ciò che è
impossibile al mondo, segnato da divisioni sempre più profonde tra culture,
popoli e persone, Cristo lo dona a noi con il Suo amore incondizionato, che
sempre «ci precede» e ci unisce nel Suo corpo che è la Chiesa.
Le parole del Papa ci sollecitano a una «conversione»
radicale di noi stessi e di tutto il movimento, che è la stessa cui Giussani
invitava i giovani amici del Péguy negli anni in cui la tempesta del
Sessantotto stava introducendo una spaccatura profonda nella Chiesa e nella
società: «È attraverso me, te, ma attraverso me in quanto unito a te in nome
Suo, cioè in quanto uniti a Lui, è attraverso noi, è attraverso la nostra
unità, che la morte e la risurrezione di Cristo investono il mondo» (Una
rivoluzione di sé, p. 252).
Per questa ragione rinnovo a tutti voi l’invito a
partecipare al Giubileo dei Movimenti, delle Associazioni e delle nuove
Comunità il 7 e l’8 giugno a Roma, in coincidenza con la solennità della
Pentecoste, come già era accaduto nel 1998, quando don Giussani era intervenuto
alla presenza di san Giovanni Paolo II. I suoi successori sul soglio di Pietro
hanno sempre confermato la fiducia nel dono che lo Spirito Santo ha fatto a
tutta la Chiesa attraverso carismi particolari come quello elargito a don Giussani,
riconoscendo in essi una «risposta provvidenziale» alle sfide del nuovo
millennio.
Per ciascuno di noi questa circostanza è l’occasione per
riaffermare personalmente il nostro «sì» al compito che la Chiesa ci sta
indicando. «Nell’unico Cristo noi siamo uno. E questa è la strada da fare
insieme», ha detto papa Leone durante l’omelia per l’inizio del ministero
petrino (18 maggio 2025): chiedo a ognuno di considerare come rivolto a sé
l’invito del Santo Padre. A tutti coloro che saranno impediti a partecipare,
chiedo di accompagnare il gesto con la preghiera a Maria, Madre della Chiesa.
Ci vediamo a Roma!
In amicizia,
Davide Prosperi
mercoledì 4 giugno 2025
La CEI sul referendum dell'8 giugno 2025
Referendum: Corrado (Cei), “nessun nuovo pronunciamento, resta valido l’invito al discernimento”

“La posizione della Cei sul prossimo referendum è stata espressa nella recente sessione straordinaria del Consiglio permanente con l’invito dei vescovi a un attento discernimento sui temi in oggetto: questioni del lavoro e della cittadinanza”. Lo chiarisce al Sir Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, interpellato questa mattina circa un eventuale invito della Cei a partecipare al voto referendario. “Il comunicato finale del Consiglio permanente – ricorda Corrado – è un atto ufficiale in quanto riporta il parere condiviso da un organo ufficiale. Non ci sono stati né ci saranno altri pronunciamenti nel merito”. Vale dunque la pena, sottolinea Corrado, richiamare quanto espresso nel comunicato: i vescovi sono tornati “sulle questioni del lavoro e della cittadinanza, al centro del prossimo referendum, rispetto alle quali hanno invitato a un attento discernimento. Riguardo al tema della cittadinanza, nello specifico – pur limitandosi alla riduzione del numero di anni per ottenerla (da 10 a 5), mentre sarebbe utile una riforma complessiva della legge – i presuli hanno rinnovato la richiesta di una visione larga che eviti mortificazioni della dignità delle persone. Tutto ciò nel solco di quanto affermato, ormai da tempo e in diverse occasioni, dalla Cei, cercando di integrare nella pienezza dei loro diritti coloro che condividono i medesimi doveri e valori”.
EDUCAZIONE/ “Quando 10 giovani su 25 vanno dallo psicologo, c’è un miracolo della vita da riscoprire”
EDUCAZIONE/ “Quando 10 giovani su 25 vanno dallo psicologo,
c’è un miracolo della vita da riscoprire”
"Silenzio ragazzi, passa il treno" è il nuovo
libro di Silvio Cattarina. Conversazioni con i giovani de L'Imprevisto. Un
estratto
Silvio Cattarina Pubblicato 4 Giugno 2025
Peri tipi di Itaca è stato pubblicato il nuovo libro di
Silvio Cattarina, “Silenzio, ragazzi, passa il treno. Gioia compagna di vita”.
Ne riportiamo un estratto dove l’autore spiega lo spirito con cui va affrontato
il rapporto coni più giovani.
Quanto è importante progressivamente abbreviare il tempo che
scorre tra il dolore e la gioia. Ovvero, abbiamo e portiamo il dolore, ma
comunque possiamo essere gioiosi, e molto. Ai miei ragazzi, fermamente,
seccamente, dico: “Dovete essere gioiosi”. Bisogna essere gioiosi, occorre
essere gioiosi. Quando lo racconto, tanti mi obbiettano: “Non devi dire così,
non va bene, non si capisce… prima ci vuole altro, dell’altro…”. Ma basta,
facciamolo e basta, dico io.
Essere felici è un obbligo, un dovere, un lavoro. Sì, un
obbligo per te e un diritto per me, che tu ti approcci a me comunque con
felicità. Si può e si deve essere felici anche se pieni di problemi e di
difficoltà, di ferite, di “casini”. Sono buoni tutti a essere felici quando le
cose vanno bene. Quante volte mi sono scoperto a dire al ragazzo: “Tu sei
unico, irripetibile, voluto da sempre, amato. Se sei almeno un poco convinto di
questo, vedrai come sarai libero, sereno, nelle circostanze, in tutte le situazioni,
belle o difficili. Ti accorgerai che il problema del papà, della mamma, della
malattia, della miseria, del lavoro, del quartiere popolare da cui provieni
assumerà un’importanza più piccola e relativa. Il tuo è un valore originale,
dato, donato a te, proprio a te. Non devi essere formato, attrezzato, abilitato
a vivere, non devi continuare, come hai fatto finora, a chiedere il permesso
per vivere. Sei stato voluto, chiamato, sei mandato. Vai allora! Questa è la
tua forza. Tu che sei qui in Comunità, che ti ritieni fra i peggiori, tu puoi
essere molto, puoi fare molto, tanto, perché capisci di avere una forza che non
viene da te.
Che novità, che miracolo è mai questo? Considerarsi fatti da
questa originaria volontà di bene, di stima, di provvidenzialità è la novità
più bella che c’è nel mondo, che tu puoi portare nel mondo. Altro che “tutti i
ragazzi dallo psicologo”! È mai possibile che oggi, solo per un mal d’unghia,
li si mandi dallo psicologo o dallo psichiatra? Nelle regioni del Nord Italia
pare che ormai, in una classe delle scuole medie o delle superiori, su
venticinque alunni una decina stabilmente frequentino i professionisti delle
suddette categorie. Verso quale mondo stiamo andando?
Tu, ragazzo, vai bene, sei a posto così: vanno bene il muso
che tieni, i capelli, le gambe, la pancia, il carattere, la timidezza che non
ti fa uscire le parole, vai bene perché sei stato chiamato, sei voluto, amato.
Tu sei importante: quello che puoi fare e dare tu non lo può fare nessun altro.
La stessa esistenza della tua persona è la cosa più grande e meravigliosa del
mondo.
La vita è un abbraccio. L’abbraccio con l’eternità.
L’eternità che ti prende in braccio. Ragazzi, fate bene ad essere inquieti,
irrequieti, insoddisfatti, inappagati, ma per desiderare questo abbraccio, per
chiedere questa eternità. La vostra inquietudine e irrequietezza sono divine.
Se non capite questo, continuerete a prendervela con voi stessi, a tormentarvi
inutilmente, a colpevolizzare le persone a voi più care e vicine. La vostra
ferita deve essere continuamente tenuta ben aperta, ma per venire irrorata
dalla vita, dall’amore, da un balsamo che arriva da lontano. Questo balsamo fa
grandi le cose piccole, guarisce il male.
Ragazzi, c’è bisogno che nella vostra vita accada
un’esplosione, un sommovimento, un terremoto tale che il tran-tran solito dei
giorni sempre uguali sia ribaltato, infuocato, che la vostra vita non sia mai a
posto, sistemata. Però non come facevate un tempo, con avventure assurde,
sostanze, trasgressioni, rapine, ma con “grandi cose”, lottando con una grande
novità. Non immeschinite la vostra vita, non immiseritela con cose piccole, con
sentimenti stucchevoli, ripicche infantili. Bisogna che tanto dentro voi si
rompa, si spezzi. Non guardate sempre e solo voi stessi, piuttosto guardate la
realtà, quanto è bella e grande perché non è vostra. È così imponente e
possente la realtà che scoprirete che veramente tutto è ammirabile, perfino il
limite. Tutto è degno di venerazione. Tutto è degno di essere servito. Invece
voi avete sempre voluto essere serviti in tutto e per tutto. Narciso imperat!
La grandezza dell’uomo – ancor più di un giovane – è quella di conoscere e
comprendere che l’amore più grande non è quello ricevuto, ma quello offerto.
L’amore è servire sempre.
Lo vedo ogni volta che un ragazzo entra in comunità, nei
primi giorni della sua esperienza. Noi educatori invitiamo sempre i ragazzi,
oltre che a rispettare le regole, a volersi bene, a stimarsi, ad aiutarsi, a
rivolgersi tra loro con parole buone e adeguate, a sorreggersi gli uni gli
altri. Loro si ribellano, si arrabbiano. “Non puoi chiedermi questo, io sono
solo, contro tutti e tutto, me la devo cavare da solo. Non esiste che io aiuti
un altro”. Addirittura un giorno un ragazzo aggiunse: “Non solo non vorrò bene
a nessuno, ma qui non accada che qualcuno voglia bene a me”.
Cosicché si deduce che, al contrario di quello che ho
pensato per tanto tempo, le situazioni che più pesano ai ragazzi non sono il
cellulare che non c’è, le uscite che non ci sono, la musica che non c’è, le
sigarette razionate, i rapporti temporaneamente sospesi con i genitori e con la
fidanzata… Ciò che maggiormente è insopportabile e rigettato è voler bene ed
essere voluto bene. Davvero quello che l’uomo meno accetta è l’amore, non il
dolore.
(…) https://www.ilsussidiario.net/news/educazione-quando-10-giovani-su-25-vanno-dallo-psicologo-ce-un-miracolo-della-vita-da-riscoprire/2840849/#:~:text=EDUCAZIONE-,EDUCAZIONE/%20%E2%80%9CQuando%2010%20giovani%20su%2025%20vanno%20dallo%20psicologo%2C%20c%E2%80%99%C3%A8%20un,certezza%20tutto%20si%20sfarina%2C%20si%20rovina%20e%20ha%20una%20durata%20brevissima.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94
Silvio Cattarina Pubblicato 4 Giugno 2025
Peri tipi di Itaca è stato pubblicato il nuovo libro di
Silvio Cattarina, “Silenzio, ragazzi, passa il treno. Gioia compagna di vita”.
Ne riportiamo un estratto dove l’autore spiega lo spirito con cui va affrontato
il rapporto coni più giovani.
Quanto è importante progressivamente abbreviare il tempo che
scorre tra il dolore e la gioia. Ovvero, abbiamo e portiamo il dolore, ma
comunque possiamo essere gioiosi, e molto. Ai miei ragazzi, fermamente,
seccamente, dico: “Dovete essere gioiosi”. Bisogna essere gioiosi, occorre
essere gioiosi. Quando lo racconto, tanti mi obbiettano: “Non devi dire così,
non va bene, non si capisce… prima ci vuole altro, dell’altro…”. Ma basta,
facciamolo e basta, dico io.
Essere felici è un obbligo, un dovere, un lavoro. Sì, un
obbligo per te e un diritto per me, che tu ti approcci a me comunque con
felicità. Si può e si deve essere felici anche se pieni di problemi e di
difficoltà, di ferite, di “casini”. Sono buoni tutti a essere felici quando le
cose vanno bene. Quante volte mi sono scoperto a dire al ragazzo: “Tu sei
unico, irripetibile, voluto da sempre, amato. Se sei almeno un poco convinto di
questo, vedrai come sarai libero, sereno, nelle circostanze, in tutte le situazioni,
belle o difficili. Ti accorgerai che il problema del papà, della mamma, della
malattia, della miseria, del lavoro, del quartiere popolare da cui provieni
assumerà un’importanza più piccola e relativa. Il tuo è un valore originale,
dato, donato a te, proprio a te. Non devi essere formato, attrezzato, abilitato
a vivere, non devi continuare, come hai fatto finora, a chiedere il permesso
per vivere. Sei stato voluto, chiamato, sei mandato. Vai allora! Questa è la
tua forza. Tu che sei qui in Comunità, che ti ritieni fra i peggiori, tu puoi
essere molto, puoi fare molto, tanto, perché capisci di avere una forza che non
viene da te.
Che novità, che miracolo è mai questo? Considerarsi fatti da
questa originaria volontà di bene, di stima, di provvidenzialità è la novità
più bella che c’è nel mondo, che tu puoi portare nel mondo. Altro che “tutti i
ragazzi dallo psicologo”! È mai possibile che oggi, solo per un mal d’unghia,
li si mandi dallo psicologo o dallo psichiatra? Nelle regioni del Nord Italia
pare che ormai, in una classe delle scuole medie o delle superiori, su
venticinque alunni una decina stabilmente frequentino i professionisti delle
suddette categorie. Verso quale mondo stiamo andando?
Tu, ragazzo, vai bene, sei a posto così: vanno bene il muso
che tieni, i capelli, le gambe, la pancia, il carattere, la timidezza che non
ti fa uscire le parole, vai bene perché sei stato chiamato, sei voluto, amato.
Tu sei importante: quello che puoi fare e dare tu non lo può fare nessun altro.
La stessa esistenza della tua persona è la cosa più grande e meravigliosa del
mondo.
La vita è un abbraccio. L’abbraccio con l’eternità.
L’eternità che ti prende in braccio. Ragazzi, fate bene ad essere inquieti,
irrequieti, insoddisfatti, inappagati, ma per desiderare questo abbraccio, per
chiedere questa eternità. La vostra inquietudine e irrequietezza sono divine.
Se non capite questo, continuerete a prendervela con voi stessi, a tormentarvi
inutilmente, a colpevolizzare le persone a voi più care e vicine. La vostra
ferita deve essere continuamente tenuta ben aperta, ma per venire irrorata
dalla vita, dall’amore, da un balsamo che arriva da lontano. Questo balsamo fa
grandi le cose piccole, guarisce il male.
Ragazzi, c’è bisogno che nella vostra vita accada
un’esplosione, un sommovimento, un terremoto tale che il tran-tran solito dei
giorni sempre uguali sia ribaltato, infuocato, che la vostra vita non sia mai a
posto, sistemata. Però non come facevate un tempo, con avventure assurde,
sostanze, trasgressioni, rapine, ma con “grandi cose”, lottando con una grande
novità. Non immeschinite la vostra vita, non immiseritela con cose piccole, con
sentimenti stucchevoli, ripicche infantili. Bisogna che tanto dentro voi si
rompa, si spezzi. Non guardate sempre e solo voi stessi, piuttosto guardate la
realtà, quanto è bella e grande perché non è vostra. È così imponente e
possente la realtà che scoprirete che veramente tutto è ammirabile, perfino il
limite. Tutto è degno di venerazione. Tutto è degno di essere servito. Invece
voi avete sempre voluto essere serviti in tutto e per tutto. Narciso imperat!
La grandezza dell’uomo – ancor più di un giovane – è quella di conoscere e
comprendere che l’amore più grande non è quello ricevuto, ma quello offerto.
L’amore è servire sempre.
Lo vedo ogni volta che un ragazzo entra in comunità, nei
primi giorni della sua esperienza. Noi educatori invitiamo sempre i ragazzi,
oltre che a rispettare le regole, a volersi bene, a stimarsi, ad aiutarsi, a
rivolgersi tra loro con parole buone e adeguate, a sorreggersi gli uni gli
altri. Loro si ribellano, si arrabbiano. “Non puoi chiedermi questo, io sono
solo, contro tutti e tutto, me la devo cavare da solo. Non esiste che io aiuti
un altro”. Addirittura un giorno un ragazzo aggiunse: “Non solo non vorrò bene
a nessuno, ma qui non accada che qualcuno voglia bene a me”.
Cosicché si deduce che, al contrario di quello che ho
pensato per tanto tempo, le situazioni che più pesano ai ragazzi non sono il
cellulare che non c’è, le uscite che non ci sono, la musica che non c’è, le
sigarette razionate, i rapporti temporaneamente sospesi con i genitori e con la
fidanzata… Ciò che maggiormente è insopportabile e rigettato è voler bene ed
essere voluto bene. Davvero quello che l’uomo meno accetta è l’amore, non il
dolore.
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