martedì 31 dicembre 2024

2025, un buon anno inquieto


 

2025, un buon anno inquieto

Per il nuovo anno in tanti desiderano tranquillità, salute e lavoro. Per i più giovani le cose sono diverse

Fernando De Haro Pubblicato 31 Dicembre 2024

 

Cosa ci auguriamo per il 2025? Cosa intendiamo per buon anno? Desideriamo godere di buona salute, vogliamo anche tranquillità e lavoro. È quel che emerge da un recente sondaggio condotto da Funcas (un istituto di studi economici) in cui agli intervistati è stato chiesto di scegliere una parola per definire cosa si aspettano dal prossimo anno: salute, tranquillità e lavoro sono i nomi che la maggior parte degli spagnoli ha dato al proprio bisogno.

 

Per i giovani il desiderio ha altri nomi. Quelli che hanno meno di 24 anni sanno che la loro situazione economica è difficile e che nel 2025 le cose non miglioreranno molto. Questi giovani vogliono la pace, la felicità e soprattutto l’amore. Secondo altri sondaggi, un giovane su quattro tra quelli che desiderano l’amore si sente solo.

 

I giovani si sentono più soli degli anziani. È una solitudine non voluta, tragica, causata in molti casi dalla difficoltà di passare alla vita adulta. Una solitudine che provoca molta sofferenza. I più poveri sono i più soli e coloro che sono soli sono più vulnerabili alle malattie mentali. Non è chiaro se la causa di questa situazione siano i social network e l’uso eccessivo degli schermi.

 

Senza dubbio è necessario lottare contro questa mancanza di compagnia. Il problema è come farlo. Trasformare necessariamente la solitudine in una malattia non sembra la cosa più intelligente da fare. Vogliamo curare i giovani prescrivendo loro tranquillità, investendo più soldi nella sanità preventiva? Ci sono compagnie che possono essere più distruttive del dramma di non riuscire ad avere una vita piena. Basta vedere cosa comporta lo sviluppo dei movimenti identitari. Questi movimenti crescono perché offrono una scorciatoia: l’identità (nazionale, religiosa, sportiva, ideologica, sessuale, ecologica, ecc.) concepita come rifugio e come conflitto è una droga a buon mercato. Il vecchio e il nuovo oppio dei popoli.

 

Diciamo che i nostri Paesi non sono per giovani perché non possono accedere agli alloggi, perché non possono emanciparsi, perché da molto tempo i loro salari sono molto bassi, perché esiste una gerontocrazia istituzionale che impedisce loro di influenzare la vita democratica. E tutto ciò è vero. Il nostro sistema pensionistico garantisce il presente degli anziani ed è un grande ipoteca per chi ha 40 anni di vita professionale davanti a sé. Tutto ciò è una profonda ingiustizia che giudica e discredita il nostro modo di vivere.

 

Ma al di là delle patologie, questo non sentirsi accompagnati dei nostri giovani, questo desiderio di amore e di pace, andando oltre il disgusto che queste due parole possono suscitare in noi, è una fonte di energia umana senza la quale saremmo morti. Noi adulti che aspiriamo solo alla tranquillità e a non avere dolori fisici non riusciamo a capire che voler essere accompagnati e non trovare risposta è la grande risorsa di un mondo come quello europeo, un mondo stanco e senza forze.

 

Meno male che qualcuno spera che nel 2025 si giunga a un accordo di pace in Ucraina. Un accordo che non sia una resa e che non rinvii il problema della sicurezza. Meno male che qualcuno desidera che finisca la guerra a Gaza, che ha causato decine di migliaia di vittime tra i civili e che usa la carestia come arma.

 

(…)

https://www.ilsussidiario.net/editoriale/2024/12/31/2025-un-buon-anno-inquieto/2785435/#:~:text=CRONACA-,2025%2C%20un%20buon%20anno%20inquieto,riporter%C3%A0%20alla%20nostra%20solitudine%20primaria%2C%20se%20ci%20far%C3%A0%20vivere%20salubremente%20inquieti.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94


lunedì 30 dicembre 2024

Maria Zambrano, un "sapere dell'anima"

 



LETTURE/ María Zambrano, un “sapere dell’anima” per cercare il senso della vita

Maria Zambrano ha riproposto in modo nuovo la sintesi antica di amore e conoscenza. Solo il sapere affettivo ci libera dal razionalismo

Francesca Carenzi Pubblicato 30 Dicembre 2024

 

Immaginate per un attimo di dover lasciare tutto ciò a cui siete abituati. Di dover abbandonare da un giorno all’altro la vostra casa, le vostre abitudini, i vostri cari e dover partire per un Paese sconosciuto. È quanto accade nel 1939 a una giovane spagnola, una professoressa di filosofia che, a causa della sua opposizione al regime franchista, deve abbandonare l’amata patria. Inizia così una peregrinazione attraverso l’Europa e l’America latina che durerà più di quarant’anni. Questa donna si chiama María Zambrano (1904-1991) e racconterà il viaggio del proprio esilio nelle pagine di opere come I Beati, Delirio e destino e L’esilio come patria.

 

Le circostanze che Zambrano si trova a vivere diventano il punto di partenza della sua indagine. La filosofia deve rispondere alle provocazioni della vita e quindi, per l’autrice, anche alla domanda di senso sull’esilio. Come apprende dal maestro Ortega y Gasset, la domanda al centro del pensiero è di ordine pratico: che cosa fare? Come vivere ciò che ci è dato da vivere?

 

Attraversare il dolore, come quello che caratterizza la vita di Zambrano, non è possibile con l’astrazione. La filosofia deve quindi aiutare l’uomo ad abitare la realtà così come si presenta, accogliendo anche (e soprattutto) le zone d’ombra, le contraddizioni dell’esistenza. Questa ricerca conduce Zambrano alla scoperta del suo particolare metodo filosofico: il “sapere dell’anima”.

 

Seguire il sapere dell’anima, instaurare una relazione di conoscenza affettiva con la realtà, è l’unica possibilità di abbracciare la complessità dell’esistenza. Non un metodo conoscitivo “scientifico” ma una guida, una saggezza fatta da azioni, moti spirituali del pensare e del sentire. Zambrano non propone un metodo gnoseologico, piuttosto una postura etica con cui poter abitare l’esistente. In questa visione la filosofia si fa umile. Lascia il posto alla consapevolezza che nella vita nulla è perfettamente sovrapponibile e replicabile, ma sempre nuovo e misterioso. Vivere facendosi guidare da una lettura aprioristica della realtà sarebbe solo uno sterile schematismo. L’esperienza dell’autrice lo rende evidente: il pensiero sgorga dalla vita e ad essa sola deve rendere conto.

 

Laura Boella illustra bene cosa fu l’esperimento di vita di Zambrano: “L’idea della vita come realtà radicale vuol dire che è la vita a dar conto di tutto il resto, la vita che si dà sempre e solo a uno, a una, in un luogo e in un tempo (le circostanze); tutto è accadimento (…) con la prima conseguenza che, per esempio, la vita non è un elemento che si affianca o si contrappone alla ragione, anzi è ragione essa stessa, anche se, certo, non ragione astratta, universale. La vita non ha ragione, è ragione” (L. Boella, María Zambrano: dalla storia tragica alla storia etica).

 

Ricercare il senso dell’esistenza e della propria, personalissima, storia richiede a ciascuno di sprofondare in essa. Occorre capovolgere lo stereotipo della tradizionale via alla verità: non l’uscita dalla caverna platonica ma un’immersione nelle cose. Abbiamo bisogno di “questa filosofia pratica, quella che ci aiuta a entrare nella realtà materiale respirando tutto quanto ci è possibile della vita spirituale. Da qui l’importanza per Zambrano di una filosofia della pratica, che prende la forma di un materialismo spirituale” (L. Mortari, María Zambrano).

 

Zambrano rifiuta l’idea che il mondo fattuale sia messo in secondo piano. L’essere, nella sua opera, è sempre caratterizzato da un’innata positività. La realtà che si dà con inesauribile novità all’uomo, in un rapporto di mutua interdipendenza e affezione. Per questo l’autrice, nel descrivere il processo conoscitivo, riprende quell’unione tra amore e conoscenza che risuona nelle pagine degli autori da lei amati: Platone, Plotino e Agostino. Se però nel pensiero classico l’amore è il mezzo verso “l’Aldilà”, per Zambrano è la via per immergersi “nell’aldiqua”.

 

Per questo attaccamento alla vita, il pensiero dell’autrice è stato definito anche come “nuovo realismo”. Per incarnarlo, Zambrano propone di unire l’atteggiamento filosofico (inteso come contemplazione delle idee), quello religioso (apertura verso la rivelazione dell’Essere) e quello poetico (percezione profonda della materialità). Non si tratta di prospettive autonome e autosufficienti. Solo se assunte insieme potranno illuminare l’esistenza.

 

Un nuovo realismo chiede una nuova ragione, la “ragione poetica”. Una sapienza che incarna lo spirito culturale spagnolo, impregnato di materialità e a-sistematicità, intimamente poetico. Una ragione che sa permanere nelle zone d’ombra, che non ha paura delle contraddizioni, innamorata dell’esperienza, e che ritroviamo nel sentire di artisti e poeti.

 

(….)

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-maria-zambrano-un-sapere-dellanima-per-cercare-il-senso-della-vita/2785373/#:~:text=CULTURA-,LETTURE/%20Mar%C3%ADa%20Zambrano%2C%20un%20%E2%80%9Csapere%20dell%E2%80%99anima%E2%80%9D%20per%20cercare%20il%20senso%20della,di%20sorvolo%20sulla%20superficie%20dell%E2%80%99essere%2C%20sa%20stare%20in%20presenza%20del%20mistero%E2%80%9D.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94


sabato 28 dicembre 2024

La secolarizzazione si è esaurita. Parla il Vescovo Erik Varden

 



"La maggiore vitalità della vita cattolica del XX secolo è scaturita dall’entusiasmo di scoprire pozzi dimenticati, trovando in essi acqua limpida e fresca. Dov’è finito quell’entusiasmo? Perché ora sentiamo di dover abbandonare i pozzi per allestire invece pieghevoli stand accanto a distributori automatici?”.

Intervista

 

“Il cristianesimo non è un’utopia. La religione biblica è in sommo grado e in modo sconcertante realistica. I grandi maestri della fede hanno sempre insistito sul fatto che la vita soprannaturale deve basarsi su una profonda considerazione della natura. Dobbiamo allenarci a vedere le cose come sono, noi stessi come siamo. Avere speranza come cristiani non significa aspettarsi che tutto vada bene. Non tutto va bene”. Erik Varden è un monaco cistercense che dal 2019 è vescovo di Trondheim e dal 2023 amministratore apostolico di Tromsø, in Norvegia. Ha cinquant’anni, è stato abate trappista di Mount Saint Bernard, in Inghilterra. Ha insegnato teologia a Cambridge. Di famiglia formalmente appartenente alla Chiesa luterana di Norvegia, ma in pratica agnostica, si è convertito a quindici anni dopo aver ascoltato la Sinfonia n. 2 (“Risurrezione”) di Gustav Mahler. Nel 1993 è diventato cattolico e nel 2002 è entrato nell’ordine dei Cistercensi di stretta osservanza. Con il Foglio parla di Natale e di speranza (tema cardine del Giubileo che si apre oggi), di Europa e periferie, di guerra e cristianesimo. Da poco è in libreria il suo ultimo libro, Castità (San Paolo, 208 pp., 20 euro), dove si interroga sul significato più profondo di un tema che può apparire fuori dal tempo.

 

E’ Natale, si parla tanto di speranza. Spesso si usa questa parola con superficialità, come fosse un augurio di stare bene oppure che “tutto andrà per il meglio”. Invece, pensando alle trincee ucraine, a Gaza, al Libano e alla Siria, la realtà è che questo mondo è in pezzi e che dire che tutto andrà bene pare quasi un insulto. La speranza cristiana ci viene in aiuto: qual è il suo vero significato anche in relazione al mondo in guerra?

 

“Sperare è avere fiducia che tutto, anche l’ingiustizia, possa comunque avere un senso e uno scopo. La luce ‘brilla nelle tenebre’. Non toglie di mezzo le tenebre; questo avverrà nei nuovi cieli e nella nuova terra in cui ‘non ci sarà più notte’. Qui e ora, la speranza si manifesta come un barlume. Questo non vuol dire che sia irrilevante. La speranza ha un contagio benedetto che le permette di diffondersi di cuore in cuore. I poteri totalitari lavorano sempre per cancellare la speranza e indurre alla disperazione. Educarsi alla speranza significa esercitarsi alla libertà. In una poesia, Péguy descrive la speranza come la fiamma della lampada del santuario. Questa fiamma, dice, ‘ha attraversato la profondità delle notti’. Ci permette di vedere ciò che è ora, ma anche prevedere ciò che potrebbe essere. Sperare significa scommettere la propria esistenza sulla possibilità del divenire. E’ un’arte da praticare assiduamente nell’atmosfera fatalista e deterministica in cui viviamo”.

 

Il Natale ha qualcosa di misterioso che cattura anche chi non crede. Viene da pensare a Paul Claudel, che si convertì ascoltando un Vespro a Notre-Dame, nel Natale del 1886. E  a Jean Paul Sartre, l’ateo per eccellenza che scrisse in un suo racconto: “La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo viso è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano”. Qual è questo mistero del Natale che attira tutti?

 

“Lo stupore di cui parla Sartre  non appare forse in alcune rappresentazioni della Vergine nell’iconografia bizantina? L’attrattiva del Natale è insita nelle più emblematiche rappresentazioni evangeliche: il bambino appena nato; la proclamazione della pace; l’affermazione che gli uomini sono dopo tutto capaci di ‘buona volontà’; il silenzio pacifico di una notte durante la quale tutto il creato – uomini, animali e stelle – si dispone armoniosamente in attesa intorno a un centro in sé evidente. Claudel scrive ne L’annuncio a Maria, che rileggo ogni Natale:  ‘Molte cose si consumano nel fuoco di un cuore ardente’. Il Natale ci fa intuire il desiderio del nostro cuore. Ci dà il senso di ciò che passa, di ciò che resta. La sfida è lasciare che questa intuizione diventi concreta nelle decisioni che definiscono la nostra vita, non confinata in un sentimento passeggero, fiacco”.

 

Lei è vescovo in una delle periferie tanto citate da Papa Francesco. Periferia europea, per di più. A sud è evidente come la fede nel Vecchio continente si stia perdendo, incalzata da un laicismo che si fa sempre più forte. Qual è la sua prospettiva, appunto, dalla periferia?

 

“Una periferia è definita rispetto a un centro. In un’ottica cristiana, il centro non è un punto sulla mappa. Il centro è dove il mistero di Cristo è presente in pienezza. La periferia è chiamata a diventare centro. Vediamo questa dinamica all’opera nella storia della missione della Chiesa. La fiamma della fede risplende sempre di nuovo in luoghi inaspettati. Qual è stato lo stupore di quegli europei sicuri di sé, che arrivarono in India nel XVI secolo, pensandosi arrivati ai margini della civiltà, per poi scoprire che lì il centro lo avevano raggiunto fin dai tempi apostolici, mentre i loro propri antenati adoravano pezzi di legno e pietre? La terminologia delle periferie è spesso utilizzata da istituzioni o persone certe di essere al centro in virtù di privilegi ereditari. La fede sfida questo assunto. Così la terminologia diventa un utile auto-sovvertitore. Ci sfida a chiederci: ‘Dov’è, in effetti, il centro?’. In termini biblici, si tratta di seguire l’Agnello ovunque vada, abbandonando la confortevole convinzione che egli rimanga necessariamente dove sono io”.

 

Le chiese sono abitate sempre più da persone anziane, si fa fatica a intercettare il bisogno di senso delle nuove generazioni. Che però ce l’hanno: spesso diciamo che pensano solo al divertimento o allo smartphone. Però, come in tutte le età e come per tutte le generazioni, sentono un desiderio “alto”. Cosa può fare la Chiesa per intercettare questa esigenza?

 

 “La mia esperienza è assai diversa. Incontro molti giovani affamati di significato, sinceri nella loro ricerca, lucidi nelle loro analisi. Sorrido un po’ di fronte alle diagnosi, siano laiche o ecclesiastiche, in cui anziani commentatori propongono tesi sui ‘giovani’ come se questi ultimi fossero una specie tenuta in vita artificiosamente in un frigorifero di laboratorio, confinata nei presupposti e nell’habitat culturale dei decenni passati. Come può la Chiesa impegnarsi con i giovani di oggi? Prendendoli sul serio. Non parlando loro con sufficienza. Osando presentare ideali alti e belli. Rispettando il loro desiderio di abbracciare la pienezza della tradizione. Non dando loro sassi, o dolcetti, come pane”.

 

Nel suo libro "La solitudine spezzata" (Qiqajon, 151 pp., 16 euro), scriveva che “per vivere, si deve imparare a guardare la morte negli occhi. Prima che potessi sapere ciò che significava la parola, ero stanco della superficialità”. Parlavamo dei giovani e della guerra e le chiedo: non è che, forse, in questo clima di assopimento collettivo pesa anche il fatto che da generazioni l’Europa di fatto non sa più cosa sia la guerra e la morte in casa sua? Ci siamo troppo abituati alla pace in casa nostra tanto da non sapere più neanche guardare la morte in faccia?

 

 “Il rischio è quello di dare per scontata la pace, pensando che sia in qualche modo la normalità. Non è così. La storia ce lo ricorda con insistenza. Andando avanti negli anni, sono sempre più toccato dal fatto che la prima morte riportata nelle Scritture sia una morte per fratricidio. E’ un paradigma che vediamo ripetersi con terribile coerenza fino ai nostri giorni. Il Prologo della Regola di san Benedetto cita un Salmo che dà un’utile prospettiva. San Benedetto ci esorta a ‘cercare la pace e a seguirla’. Ci viene ricordato che la pace è dinamica, una realtà viva da promuovere. Un mezzo secolo europeo senza grandi guerre è stato una specie di miracolo. Ora l’orizzonte si fa oscuro. In Ucraina infuria una guerra ingiusta; il crollo di un governo dopo l’altro, con l’esplosione di fragili coalizioni, genera ansia; la retorica dell’aggressione si diffonde come un fumo nefasto. Ho l’impressione però che il nostro continente, e non da ultimo i suoi giovani, si stiano svegliando. Il Covid è stato un campanello d’allarme. Ha avvicinato lo spettro della morte. Ha infranto l’illusione che il benessere o la competenza scientifica ci tengano al sicuro, che la morte sia solo qualcosa che accade agli altri. Abbiamo riflettuto abbastanza su queste lezioni della storia recente? Io credo di no. La vedo come un’occasione persa, dal punto di vista politico e catechetico”.

 

Abbiamo visto in mondovisione lo spettacolo dell’inaugurazione della cattedrale di Notre-Dame restaurata dopo l’incendio. Una folla enorme, i potenti in coda per entrare, la gente comune che ha contribuito al finanziamento dell’opera come accadeva nel Medioevo. Allora, nonostante tutto, siamo ancora attaccati a questi simboli che parlano della nostra identità?

 

“Il fatto che restiamo attaccati ad alcuni simboli sembra evidente. Le manifestazioni di dolore che sono seguite all’incendio di Notre-Dame sono state commoventi. Onore a tutti coloro che hanno contribuito alla sua ricostruzione! Ma a cosa siamo legati? A un grande santuario cristiano? O a un simulacro culturale? Durante l’Avvento la Chiesa ci fa leggere il profeta Isaia. E’ una lettura sconvolgente. Isaia ci offre meravigliose immagini di consolazione, misteriose profezie dell’incarnazione. Allo stesso tempo dice che la redenzione nascerà dalla rovina. Chiarisce che è il Signore che predispone la distruzione di Gerusalemme e l’esilio del suo popolo, volendo insegnare loro, appunto, a non riporre la loro fiducia in monumenti di forza ma a vivere, invece, secondo la grazia, sostenuti giorno per giorno nell’umana fragilità esistenziale. E’ compito della Chiesa far sì che il nostro patrimonio architettonico e artistico rimanga un segno potente della bontà di Dio, che permetta l’incontro del nostro essere di terra con lo splendore increato, divino. Abbiamo sufficiente fiducia nella nostra tradizione, per aiutare i nostri contemporanei a vedere cosa significano e implicitamente promettono i luoghi e gli oggetti che formano in superficie la nostra identità culturale? C’è qui un’ampia prospettiva per un esame di coscienza. Spesso, infatti, mi sembra che ci diamo per vinti di fronte alla modernità secolare. Ci sforziamo di rendere il nostro patrimonio ‘rilevante’ alle sue condizioni, mentre i nostri tempi chiedono da noi qualcosa di diverso”.

 

Domanda al vescovo che opera in Norvegia: noi europei del Terzo millennio abbiamo forse un problema d’identità? Sappiamo ancora chi siamo e da dove veniamo?

 

“Da tempo il consenso non è mai stato così teso su questioni fondamentali: cosa significhi essere un uomo o una donna, cosa sia un essere umano, cosa debba essere una società. Per molto tempo i dibattiti pubblici sembravano ronzare in modo sinistro come nidi di vespe. Chiunque vi partecipava correva il rischio di essere punto. Ho l’impressione che ora la tendenza si stia gradualmente invertendo: un numero maggiore di persone si pone domande, cerca ragionamenti validi e parametri affidabili. La tradizione intellettuale cattolica ha un immenso contributo da dare in questo senso. Senza voler per nulla sminuire l’importanza del lavoro caritativo o delle cause di giustizia e di pace, credo che l’apostolato intellettuale sia fondamentale per i prossimi decenni. Il Verbo si è fatto carne per impregnare di logos la nostra stessa natura, creata a immagine del Verbo. Accogliere questo aspetto del nostro essere e articolarlo significa iniziare a ricordare la nostra dignità”.

 

Non è raro sentire nella cosiddetta “opinione pubblica” che la Chiesa propone qualcosa di anacronistico, soprattutto sul piano della morale e perfino della bioetica: dopotutto, si dice, perché bisogna dire no all’eutanasia se una persona soffre? La via più semplice è quella che piace di più. Il problema è che spesso sono anche tanti uomini di Chiesa che, sui media, chiedono di “cambiare” e “riformare” perché il messaggio non arriva più al Popolo di Dio. Qual è la sua opinione? Quanto è utile o rischioso dare ascolto allo Zeitgeist?

 

“Lo Zeitgeist – dice mons. Varden – è volubilissimo! Certo, dobbiamo ascoltarlo: trasmette messaggi di cui dobbiamo tenere conto. Ma cercare di seguirlo è un atto di sfida verso se stessi. Quando siamo arrivati al punto in cui si trovava un momento fa, è già più in là. La Chiesa per sua natura si muove lentamente. C’è il rischio che ci impegniamo in quelle che riteniamo siano tendenze contemporanee quando già non sono rimaste altro che braci morenti. Così passiamo senza fortuna, e in modo leggermente assurdo, da un falò spento all’altro. E’ sicuramente più promettente, interessante e gioioso rimanere aggrappati a ciò che resiste. Questo è ciò che parlerà ai cuori e alle menti umane nella nostra epoca come in ogni altra epoca. Il Concilio Vaticano II è stato caratterizzato dalla sollecitazione a bere con abbondanza dalle fonti. La maggiore vitalità della vita cattolica del XX secolo è scaturita dall’entusiasmo di scoprire pozzi dimenticati, trovando in essi acqua limpida e fresca. Dov’è finito quell’entusiasmo? Perché ora sentiamo di dover abbandonare i pozzi per allestire invece pieghevoli stand accanto a distributori automatici?”.

 

(….)

https://www.ilfoglio.it/chiesa/2024/12/24/news/-la-secolarizzazione-si-e-esaurita-parla-il-vescovo-erik-varden-7271267/#:~:text=%22La%20secolarizzazione%20si%20%C3%A8%20esaurita%22.%20Parla%20il%20vescovo%20Erik%20Varden

 


sabato 21 dicembre 2024

Padre Aldo Trento: in memoria

 


ALDO TRENTO/ La forza di dare tutto: un uomo “ferito” da Cristo e don Giussani

ieri è nato al Cielo padre Aldo Trento (1947-2024). Aderì alla Fraternità San Carlo e andò missionario in Paraguay. Il ricordo dell'autore

Alfredo Tradigo Pubblicato 21 Dicembre 2024

 

Cercando di guardare all’essenziale, e con gli occhi del cuore, che cosa resta, cosa ci tramanda, cosa ci insegna padre Aldo Trento con la sua vita ben spesa, una vita al servizio di Dio, prima in Italia e poi nei trentacinque lunghi anni vissuti in missione in Paraguay? Innanzitutto, padre Aldo ci lascia il suono indelebile della sua voce, quel tono afono, un po’ strozzato, come di un uomo ferito da qualcosa. E quel tono lì resterà per sempre, come un’eredità, nelle orecchie di chi lo ha ascoltato.

Poi padre Aldo ci lascia l’esempio delle sue virtù, e anche delle sue piccole manchevolezze, quei due elementi che fanno grande un uomo. Sì, padre Aldo era un uomo che pulsava d’amore per il suo prossimo, poi si concedeva due o tre cappuccini il mattino, lavava i piatti per tutti e di notte, anziché dormire, passava lunghe ore davanti al Santissimo. Il diabete lo costringeva a lunghe camminate appena sveglio. Aveva bisogno di tutti e di tutto, senza nasconderlo.

Ci lascia l’esempio della caparbietà di fronte ad ogni cosa, davanti ad ogni contrarietà, ad ogni ostacolo. Una caparbietà dolce e priva di qualsiasi aggressività. Per lui era come se le patate bollenti della vita si dovessero sempre prendere da sotto, col mestolo di legno, per non romperle e, allo stesso tempo, non scottarsi le dita. Padre Aldo si è portato in dote in Paraguay questa sua dolce caparbietà, tutta veneta. Su invito di don Luigi Giussani è andato in un Paese povero e sconosciuto del Sudamerica, che ha percorso in lungo e in largo, su traballanti corriere, per conoscere, gomito a gomito, scossone su scossone, il popolo guaraní. Sarebbe diventato il suo popolo, che lo chiamava padre, in lingua guaraní “paí”. Furono due anni intensi di immersione nella cultura guaraní, di studio della sua storia, delle sue radici. Poi la scoperta dell’arte barocca delle sue chiese. Un tirocinio, una cultura che precedeva e avrebbe reso la sua carità missionaria più vera, più incarnata.

Ed ecco la grande tenerezza di un uomo che ha saputo essere un buon pastore per le sue pecore. Quando entrava in una favela di Asunción, la capitale del Paraguay, padre Aldo spesso ne usciva con un malato in spalla, come si vede in certi quadri del Buon Samaritano. Anche se non c’era posto nel piccolo ospedale della parrocchia di san Rafael, non importava. Il suo cruccio era: come si fa a lasciare lì quella gente a vivere e a procreare in pochi metri quadrati di una baracca? Incominciava a ricoverare la donna, spesso si trattava di malattie incurabili all’ultimo stadio. Lo scopo era ridare dignità alla malattia. Poi si preoccupava di mandare a scuola i suoi bambini. Anche l’uomo che le viveva accanto, spinto da padre Aldo, lasciava donne e stravizi per un matrimonio inaspettato e felice. Un pezzo di paradiso guaraní in ospedale, prima del salto finale. Loro stessi dicevano di essere felici, di avere vissuto come animali e ora di morire come re.

Per il paí prima di tutto venivano i bambini. Quelli nell’ospedale dei piccoli malati, su in alto sopra l’oratorio, perché quelli sani, tutti ben ordinati e con le divise stirate, guardassero sopra e sapessero di loro. Una preghierina. Il reparto dei bambini era il luogo prediletto di padre Aldo, dove avrebbe voluto mettere un letto e una scrivania per sé e non muoversi più. Con padre Aldo nella parrocchia di Asunción la vita rinasceva, e veniva da piangere, e da ridere insieme, a vedere la gioia di questi bimbi. Viene ancora adesso alla memoria, nel pensarci, un brivido di compassione, in tanta aridità che spesso prende il cuore.

Padre Aldo, quando poteva, diceva Messa nella foresta, sopra i resti degli altari dei gesuiti, tra le radici che si mangiavano le fondamenta, le mura di quella che era la “città di Dio”, le reducciones governate un tempo dai guaraní. Padre Aldo era capace di litigare, alla frontiera tra Paraguay e Venezuela, solo per far vedere a te quelle cose lì. Ci lasciava l’anima. Si metteva il suo bel collarino da prete e andava all’attacco. La spuntava sempre lui.

Il popolo del rio Paraná voleva bene a quel “nuovo” paí che gli antenati di certo avevano mandato, nascosto sotto il vestito di un prete italiano. Un prete che si sarebbe perso, come tanti altri preti, nella bufera degli anni Sessanta. E invece quei due mesi d’estate, passati insieme con don Luigi Giussani, sono stati per lui un corso accelerato, un “seminario”. Poi due anni di tirocinio, come si dice, di inculturazione, in un Paese come il Paraguay che oggi è diventato dopo tanti anni il suo Paese d’elezione e dove ha voluto salire in cielo, da quelle stesse stanze d’ospedale dove lui trattava ogni malato come un re.

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https://www.ilsussidiario.net/news/aldo-trento-la-forza-di-dare-tutto-un-uomo-ferito-da-cristo-e-don-giussani/2782969/#:~:text=DON%20LUIGI%20GIUSSANI-,ALDO%20TRENTO/%20La%20forza%20di%20dare%20tutto%3A%20un%20uomo%20%E2%80%9Cferito%E2%80%9D%20da,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94,-Abbiamo%20bisogno%20del

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venerdì 20 dicembre 2024

Le memorie di Anna Szyszko-Grzywacz, “La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956”


 

LETTURE/ “Una donna nel Gulag”: Anna Szyszko-Grzywacz, la vittoria dei vinti

Le memorie di Anna Szyszko-Grzywacz, “La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956” sono un unicum nella letteratura del Gulag giunta fino a noi

Elena Freda Piredda Pubblicato 20 Dicembre 2024

 

Le memorie dei lager sovietici disponibili per il lettore italiano vedono perlopiù narratori e protagonisti maschili; sono poche, sebbene rappresentative, le eccezioni (basti ricordare Viaggio nella vertigine di Evgenija Ginzburg) e ancora più rare sono le opere scritte da donne di nazionalità non russa. È questo un primo motivo che rende le memorie di Anna Szyszko-Grzywacz, pubblicate da Guerini e Associati (La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 per la collana “Narrare la memoria” curata da Memorial Italia, traduzione e postfazione di Luca Bernardini, 2024) un unicum nel panorama della letteratura del Gulag giunta fino a noi.

L’eccezionalità di queste memorie, però, non si limita a questo: La mia vita nel Gulag non nasce infatti subito come una testimonianza scritta, ma è il frutto di una serie di conversazioni fra Anna e la figlia Barbara, registrate nel 1994, a quasi quarant’anni dal ritorno di Anna in patria dopo gli undici anni di lager trascorsi a Vorkuta, nel profondo della Russia artica, nella Repubblica dei Komi. E proprio della conversazione queste memorie, pubblicate per la prima volta in Polonia nel 2022, mantengono il carattere discorsivo: la narrazione fluisce libera e rende il lettore parte di un mondo ormai scomparso, ma ancora vivissimo nei ricordi della protagonista.

Nata nel 1923 nella parte orientale della Polonia (nella regione di Vilna, l’odierna Vilnius), Anna Szyszko-Grzywacz entrò come staffetta di collegamento nella Armia Krajowa, la resistenza polacca antinazista, nel settembre del 1939. Quando i sovietici conquistarono Vilna, i membri dell’Armia Krajowa che rifiutarono di arruolarsi nell’Armata Rossa vennero arrestati. Fu questo anche il destino di Anna Szyszko-Grzywacz, che venne però rilasciata e si unì a quel punto a una unità partigiana assumendo un nuovo nome, Anna Norska. Sarà con questo nome che, arrestata dall’NKVD nel 1945, verrà condotta prima nel carcere di Vilna e poi nelle carceri di Mosca, per essere infine condannata a vent’anni di lavori forzati nel lager di Vorkuta, uno dei più duri di tutto il sistema dei Gulag. Verrà rilasciata poi nel 1956, quando la stretta del potere si allenterà temporaneamente grazie alle rivelazioni di Chruščev al XX Congresso del PCUS.

Anna tornerà nella Polonia ormai comunista, insieme al futuro marito, Bernard Grzywacz, conosciuto proprio nel lager. Come ricorda la figlia Barbara nell’epilogo delle memorie, dopo il ritorno in Polonia Anna e Bernard “ebbero difficoltà ad affrontare la nuova realtà. Erano trascorsi dodici anni dalla fine della guerra, anni che avevano cambiato tanto le persone quanto il Paese. […] In quel nuovo Stato ‘socialista’ erano persone prive di un passato di cui si potesse parlare in pubblico. Per loro, la vera famiglia erano gli amici del periodo del Gulag. Uniti per sempre dalle esperienze comuni”

(….)

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-una-donna-nel-gulag-anna-szyszko-grzywacz-la-vittoria-dei-vinti/2782578/#:~:text=RUSSIA-,LETTURE/%20%E2%80%9CUna%20donna%20nel%20Gulag%E2%80%9D%3A%20Anna%20Szyszko%2DGrzywacz%2C%20la%20vittoria%20dei,contributo%20per%20continuare%20a%20fornirti%20una%20informazione%20di%20qualit%C3%A0%20e%20indipendente.,-SOSTIENICI.%20DONA%20ORA

 

mercoledì 18 dicembre 2024

Notizie dalle suore Trappiste di A'zer (Siria)

 


domenica 15 dicembre 2024 

"Un messaggio veloce, che facciamo in comune con tutte le Sorelle della Comunità perché in tanti ci chiedete notizie, e vi ringraziamo della vostra vicinanza. Come stiamo? Noi bene, grazie a Dio. Nella nostra zona per ora non ci sono troppe violenze e c'è abbastanza rispetto. Da altre parti però ci sono situazioni più problematiche: vedremo. E’ un miracolo che nei primi giorni non ci sia stato più caos di così, anche se è un equilibrio molto precario. E’ veramente necessario che al più presto stabiliscano un servizio di polizia in tutte le parti, anche nelle periferie. Hanno commesso due grossi errori: svuotare non solo le prigioni politiche, ma anche quelle comuni, rilasciando ogni sorta di delinquenti, ed anche sciogliere tutta la polizia locale. Quindi per ora non ci sono forme complete di controllo. Al vertice, si rischiano anche scontri tra fazioni al comando della Siria. Insomma , una situazione delicata, per la quale vi chiediamo di pregare.. Noi siamo serene, ma certo non è chiaro ciò che abbiamo davanti. Tutto dipenderà dal fatto che le promesse di uno Stato moderato e rispettoso delle varie minoranze siano mantenute oppure no. E’ vero che in Siria non c’è mai stato un Islam fondamentalista, però chi ha in mano la Siria oggi proviene dal Jihadismo. Le componenti moderate ci sono, ma avranno spazio nel sistema di governo del paese? Non lo sappiamo. Quindi... E’ qui che la speranza diventa una parola da prendere sul serio. Non la speranza nelle nostre forze, nella politica degli uomini, ecc , ma la speranza che Dio ha verso ogni uomo. Lui, che conosce e ama tutti i suoi figli, non riuscirà ad aprire una breccia almeno in alcuni, perché scelgano la via della vita, e non della violenza? Del costruire, e non del distruggere? E’ già successo, proprio qui alle porte di Damasco, che lo zelo amaro di un uomo, forte nella fede ma orgoglioso di se stesso, è stato messo in ginocchio, prostrato nella polvere, per rinascere come zelo buono per il Signore della Vita. Non potrebbe accadere ancora, almeno a qualcuno? Tutta la liturgia dell’Avvento ci parla del Signore che è già con noi, anzi oggi, "Domenica gaudete”, la Parola ci dice proprio di rallegrarci, di mettere in Dio ogni nostra preoccupazione .. e il Dio della Pace sarà con noi.. C’è un segno particolare che ci accompagna, in questo Avvento: siccome siamo senza sacerdote e il parroco del villaggio che è a Dubai dai figli non è sicuro che possa rientrare, risparmiano le ostie consacrate perché non ci vengano a mancare. Così ogni giorno ne spezziamo una in otto: Gesù si fa piccolo anche nell’Eucaristia, dicendoci di non preoccuparci; anche in un piccolo frammento di Pane, Lui c'è: è interamente, pienamente con noi... Continuiamo a pregare insieme... In comunione, e con un abbraccio... Le Sorelle Trappiste dalla Siria

Avvento 2024: testimonianze dal Libano e dalla Siria

sabato 14 dicembre 2024

martedì 10 dicembre 2024

Aggiornamenti Siria di Jean FrancoisThiri da Damasco

https://youtu.be/Uwk3uviWvsQ?si=EFhlCCe8tz0xFBy9




Centenario della nascita di don Oreste Benzi

 


«Chi vuole stare in piedi, impari a inginocchiarsi»

Nel centenario dalla nascita di don Benzi, il sacerdote “dalla tonaca lisa” rimane segno dell’amore di Cristo per ultimi ed esclusi. Anche oltre la comunità e le case-famiglia da lui fondate

 

10.12.2024

Valerio Lessi

Cento anni e li porta benissimo. Nel centenario della nascita e a diciassette anni dalla salita al cielo, il carisma di don Oreste Benzi, il sacerdote dalla tonaca lisa, è vivo e vivace più che mai. La Comunità Papa Giovanni XXIII, da lui fondata, è diffusa nei cinque continenti (in 40 paesi complessivamente), conta in tutto il mondo più di 520 strutture di accoglienza per poveri ed emarginati, mette a tavola ogni giorno, a pranzo e a cena, circa 50mila persone. E molti anelli di questa formidabile rete di condivisione si sono aggiunti dopo la scomparsa del sacerdote.

 

Ma chi era don Oreste Benzi? Molti ricordano il suo pacioso volto rotondo sempre sorridente, le sue veementi parole in difesa dei diritti degli emarginati, il suo modo affascinante e convincente di annunciare Gesù Cristo. Papa Benedetto XVI lo aveva definito un «infaticabile apostolo della carità». I suoi amici lo ricordano come un maestro di preghiera, come un uomo di azione che affonda le sue radici nella contemplazione. Del resto, uno dei suoi fortunati slogan era: «Chi vuole stare in piedi e camminare, impari a stare in ginocchio». Chiaro, no? 

 

Molti lo ricordano come un profeta del nostro tempo, il fautore di un cristianesimo che non accetta la riduzione a devozione ma vuole essere rivoluzione di sé, cambiamento di mentalità da cui nasce un popolo nuovo. Per don Benzi, come per don Giussani, il cristianesimo è una rivoluzione di sé.

 

Il Sessantotto è uno spartiacque per il sacerdote nato il 7 settembre 1925 da una famiglia povera, in un paesino delle colline riminesi. Diventa parroco (e incredibilmente lo rimane fino all’età della pensione) e fonda il primo nucleo della Comunità Papa Giovanni XXIII. Cosa aveva fatto fino a quel momento? Era stato un educatore, con un occhio particolare ai preadolescenti, ai pre-ju, come li si chiamava negli anni Cinquanta e Sessanta. Don Oreste capisce che è facile in quell’età, dove si formano le convinzioni fondamentali della vita, che i ragazzi abbandonino la Chiesa. Anche il sacerdote riminese, come il milanese don Giussani, non si illude sulla durata di certo trionfalismo cattolico che ancora riempie le piazze. Egli si adopera perché quei ragazzi così fragili rispetto alla fede facciano un incontro simpatico con Cristo. Generazioni di riminesi sono stati almeno una volta ad Alba di Canazei, nella Casa Madonna delle Vette, da lui voluta perché nella contemplazione della bellezza delle Dolomiti scattasse l’incontro con Cristo.

 

Il cammino di don Oreste non è stato costruito a tavolino, ha proceduto per incontri successivi, per concreti suggerimenti dello Spirito Santo. Nel Sessantotto è chiamato a insegnare catechismo in una struttura per ragazzi spastici. È la scoperta di un mondo, da quel momento lega la sua vita alla loro. La sequela di Cristo povero assume una declinazione immediata: la condivisione di vita. Non si fanno le cose per loro, ma insieme a loro, si vive con loro. Anche ciò che è stato definito il carisma suo e della Comunità si precisa nel tempo: seguire e conformare la propria vita a Cristo povero, è la scelta fondamentale, dalla quale derivano cinque punti: condividere la vita egli ultimi, condurre una vita da poveri, fare sazio alla preghiera e alla contemplazione, lasciarsi guidare dall’obbedienza, vivere la fraternità. Non è una vita facile, infatti don Benzi ha immaginato l’adesione alla Comunità come una vocazione a cui si è chiamati (e c’è anche un anno di verifica per scoprire se quella vita fa per sé).

 

Il 1973 è l’anno della grande invenzione di don Benzi: la casa famiglia. Oggi ce ne sono più di 260 diffuse in tutto il mondo. Sono vere famiglie (non istituti travestiti da famiglie), dove un babbo e una mamma (ma anche solo una mamma, una donna consacrata) accolgono nell’amore figli propri e quanti sono scartati dalla società. La casa famiglia sorge nell’animo di don Oreste perché lui desidera che ogni minore abbia una vera famiglia, non il surrogato di un istituto. Spesso, alle coppie di giovani che si sposano, porta la sua benedizione e, per regalo, un bimbo senza genitori. «Dare una famiglia a chi non ce l’ha», «Dio ha creato la famiglia, non gli istituti». Quante battaglie ha compiuto don Oreste su questo tema. Sì, perché lui sia per i minori che per i tossicodipendenti, per gli spastici come per le prostitute, l’impegno di carità va sempre accompagnato all’impegno per la giustizia. E così, passo dopo passo, prende forma in lui l’idea di «società del gratuito».

 

A volte è la Chiesa a chiamare don Benzi e la sua comunità verso nuove frontiere. All’inizio degli anni Ottanta il vescovo di Rimini Giovanni Locatelli lo invita a occuparsi del problema emergente dei tossicodipendenti. Lui parte, studia, segue le tracce di altri cattolici che si sono cimentati con questa tragedia. Ben presto elabora un suo metodo e seguendolo compie una scoperta: non appena i tossicodipendenti riprendono in mano la loro umanità, spontaneamente, senza forzature, rinasce il loro il senso religioso. Sono gli anni in cui abbondano i convegni su tossicodipendenza e senso religioso, con don Benzi che insiste: «L’uomo è essenzialmente un essere religioso».

 

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/chi-vuole-stare-in-piedi-impari-a-inginocchiarsi#:~:text=CHIESA-,%C2%ABChi%20vuole%20stare%20in%20piedi%2C%20impari%20a%20inginocchiarsi%C2%BB,Iscriviti%20alla,-newsletter


lunedì 9 dicembre 2024

Ratzinger, il nichilismo banale e i testimoni


 

LETTURE/ Ratzinger, il nichilismo “banale” può essere vinto solo da testimoni

L'autore, traduttore e curatore del volume 13 della "Opera omnia" di Joseph Ratzinger, "In dialogo con il proprio tempo", ne presenta il contenuto

Pietro Luca Azzaro Pubblicato 9 Dicembre 2024

Papa Benedetto XVI

Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI (ANSA-EPA)

 

“Della fede è più facile parlare che scrivere: perché essa non è un sistema escogitato nell’interiorità, ma viene dal fatto che altri me la comunicano ed esige di essere comunicata”. Nella risposta che Joseph Ratzinger diede una volta a chi gli chiedeva se un uomo di cultura superiore come lui, e per di più Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, non si sentisse a disagio nel doversi esprimere nella forma “povera” dell’intervista, emerge la ragione profonda del rapporto privilegiato che egli ha consapevolmente cercato con la stampa; e, più in particolare, con chi – tra i giornalisti – lo ha meglio conosciuto e più intervistato: Peter Seewald.

 

Tutto era iniziato in un freddo mattino d’inverno del 1996, quando i due si erano dati appuntamento di fronte al Palazzo del Sant’Uffizio, accanto a San Pietro, per raggiungere insieme in macchina Villa Cavalletti – l’allora casa degli esercizi spirituali dei Gesuiti alle porte di Roma – dove avrebbero trascorso qualche giorno insieme per realizzare il loro primo libro-intervista. In sé, i co-autori non avrebbero potuto essere più diversi: qui un impetuoso notista politico, già militante comunista nella cattolica Baviera, che da tempo aveva abbandonato la Chiesa e che in ogni caso era privo di una qualsiasi formazione teologica; lì un anziano e mite cardinale, teologo fine e autorevole che però nell’immaginario collettivo era soprattutto il “Rottweiler di Dio”, lo spietato censore di chiunque avesse osato contestare la “linea ufficiale” o mettere in discussione posizioni di potere acquisite.

 

E tuttavia, in quei giorni, più la conversazione si infittiva, più maturava qualcosa che, per le premesse date, difficilmente si sarebbe immaginato potesse accadere. Seewald faceva effettivamente domande “scomode”, “radicali” nel senso letterale del termine, di quelle che una certa routine della fede o un certo timore reverenziale avrebbero portato a non fare, e tanto più a un “principe della Chiesa”. E tuttavia, ricorderà più tardi lo stesso Ratzinger, proprio quelle erano anche le domande più “autentiche”; perché “si vedeva che lo riguardavano personalmente”, anzi: “che ci riguardavano sin dentro agli aspetti più profondi e personali del nostro essere e della nostra vita”. Nasceva così Sale della terra, il primo dei tre libri intervista realizzati con il giornalista tedesco (e a dieci anni di distanza da Rapporto sulla fede, la famosa conversazione con Vittorio Messori del 1985 raccolta anch’essa nel volume 13 dell’Opera omnia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2024). Nel 2000 seguirà Dio e il mondo, concepito nell’Abbazia di Montecassino; quindi, nel 2010 Luce del Mondo, frutto di una lunga conversazione con Papa Benedetto XVI durante un soggiorno a Castel Gandolfo.

 

Pur nella diversità di contenuti – che rispecchiano il mutare dei tempi e insieme le diverse tappe del cammino di conversione dello stesso Seewald – le tre lunghe conversazioni sono accomunate dal medesimo intreccio di dimensione personale, attualità e attinenza alla vita. E al contempo riflettono tutte una profonda attitudine di Joseph Ratzinger che egli, una volta, riferì al suo amato maestro Agostino; ma che, proprio leggendo le interviste, il lettore non faticherà a intravedere in lui stesso: “Nietzsche una volta ha detto di non poter soffrire sant’Agostino, tanto gli pareva plebeo e comune. In quest’osservazione c’è indubbiamente qualcosa di giusto, ma sta proprio qui la vera grandezza cristiana di sant’Agostino. Egli avrebbe potuto essere un aristocratico dello spirito, ma, per amore di Cristo e degli uomini, nei quali vedeva venirgli incontro Cristo, ha abbandonato la torre d’avorio dell’alta spiritualità per essere totalmente uomo tra gli uomini, servo dei servi di Dio. Per amore di Cristo, che non ha disdegnato di abbandonare la gloria divina e di essere uomo come noi, egli ha sacrificato tutta la sua cultura superiore ed è riuscito a portare ai suoi la Parola di Dio con semplicità e schiettezza sempre maggiori”.

 

Il significato e l’importanza che a questo scopo Ratzinger attribuisce alla forma del dialogo è resa bene da un episodio raccontato da lui stesso in un’intervista concessa all’inizio degli anni Duemila (e contenuta nel terzo tomo del volume che raccoglie una selezione di conversazioni realizzate dal 1969 al 2004 e sino ad oggi in gran parte inedite). Una volta Christoph Schönborn – suo ex allievo del tempo in cui il prof. Ratzinger insegnava a Ratisbona e nel frattempo divenuto anch’egli cardinale e arcivescovo di Vienna – in un aeroporto si era imbattuto in un libro in cui, in forma di dialogo, un padre insegnava al figlio che cos’era l’induismo: “Era scritto in modo così coinvolgente – nota Ratzinger – che le persone in quell’aeroporto effettivamente compravano una cosa del genere e la leggevano”.

 

Beninteso: non che una volta divenuto “Custode della fede”, Ratzinger rifiutasse a priori qualsiasi riflessione metodica su Dio improntata alla ragione: la teologia era e rimaneva il suo mondo. Essa però non doveva deragliare dalla semplicità della tradizione, pena lo smarrire prima di tutto se stessa e tradire il suo vero compito: aiutare a dischiudere le grandi potenzialità della condizione umana, orientare l’uomo alla pienezza della vita. Così, quando all’inizio del suo mandato di capo dell’ex Sant’Uffizio, al Cardinale fu chiesto di delineare il compito di una Congregazione sulla quale pesava ancora un alone di sospetto e di mistero, rispose: “È la cura della fede dei ‘piccoli’ di cui parla il Vangelo, che deve sempre essere anteposta al timore di qualche conflitto con chi appare potente”. Questa lotta contro il potere per la difesa della fede dei semplici è la grande nota di sottofondo di tutte le sue interviste; e, insieme, di tutta la sua vita di sacerdote, di teologo, di vescovo, di cardinale e infine di papa.

 

(…..)

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-ratzinger-il-nichilismo-banale-puo-essere-vinto-solo-da-testimoni/2778914/#:~:text=CHIESA-,LETTURE/%20Ratzinger%2C%20il%20nichilismo%20%E2%80%9Cbanale%E2%80%9D%20pu%C3%B2%20essere%20vinto%20solo%20da%20testimoni,Papa%20Ratzinger,-Sponsored%20stories

 


domenica 8 dicembre 2024

Dialogo con il filosofo Fabrice Hadjadj sullo scandalo dell'incarnazione

 



Scandalo Incarnazione

Dio che si fa «compagno improvviso di cammino»: la venuta di Gesù tra di noi sembra inconcepibile. Ma si può incontrare. Un dialogo con il filosofo Fabrice Hadjadj

 

01.12.2024

Claudio Mésoniat

Giornalista, direttore de Il Federalista

Il filosofo Fabrice Hadjadj al Meeting di Rimini (© Archivio Meeting di Rimini)

 

Professore, l’Incarnazione ha incominciato a scandalizzare i primi uomini che incontrarono Gesù, a partire dai suoi migliori amici. Cominciano lì le prime obiezioni “teologiche” al Dio fattosi uomo. «Scandalo per i giudei», diceva san Paolo. Ma anche per l’altra grande religione monoteista, quella islamica, l’incarnazione è una bestemmia contro la purezza assoluta del divino. Come inquadrare le obiezioni di questi due monoteismi che lei conosce bene? «Sono un ebreo dal nome arabo che si è convertito al cristianesimo», si legge in qualche sua autopresentazione.

 

Credo sia importante distinguere bene la posizione islamica da quella ebraica. Per i musulmani, Dio non può farsi carne perché la sua trascendenza è concepita come una sorta di separazione, di esteriorità, di inaccessibilità. Mentre la tesi ebraica (quella – diciamo – più diffusa, almeno da Maimonide in poi, ma che diventa molto forte in Martin Buber, per esempio) è che Dio ha dato a ogni giudeo la responsabilità di compiere la giustizia, e dunque di essere lui stesso un “Messia”. Non dobbiamo quindi dimenticare che la nozione di “incarnazione” anche nel cristianesimo è legata a una dimensione messianica.

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/scandalo-incarnazione-hadjadj#:~:text=CHIESA-,Scandalo%20Incarnazione,incarnazione%E2%80%9D%20anche%20nel%20cristianesimo%20%C3%A8%20legata%20a%20una%20dimensione%20messianica.%20Non,-Abbonati%20a%20TRACCE


giovedì 5 dicembre 2024

Natale 2024 - Comunione e Liberazione

Gocce di misericordia al quartiere Corvetto prima e dopo la tragedia di Ramy Elgami


 Gocce di misericordia al Corvetto

Dopo la tragedia di Ramy Elgami, parlano le Suore di Carità dell’Assunzione: «Qui non è una banlieue e il bisogno dei giovani che incontriamo è il nostro stesso desiderio di bellezza e felicità. Per questo li accompagniamo, facendo le cose insieme»

 

04.12.2024

Paola Bergamini

«In questi giorni c’è tanto dolore. Mio figlio ha dentro una gran rabbia, lei che lo conosce bene mi dica come posso aiutarlo», aveva chiesto una mamma egiziana, a suor Paola delle Suore di Carità dell’Assunzione, dopo la tragedia di Ramy Elgami, diciannovenne egiziano morto cadendo dallo scooter inseguito dai carabinieri, al Corvetto, quartiere della periferia milanese. Ma una rabbia cattiva era esplosa in disordini con incendi di cassonetti, striscioni pieni di odio e altri vandalismi, tanto che sui giornali si era parlato di clima da banlieue. «Da subito ci siamo opposte a questa definizione», dice suor Mariangela Marognoli, superiora della Congregazione che dal 1954 opera in questa zona assistendo 300 famiglie, molte straniere, e oltre 600 minori. «Innanzitutto, perché i protagonisti dei disordini venivano da fuori, come ci hanno riferito gli abitanti del quartiere. C’è stata una strumentalizzazione della tragedia. Ma non è assolutamente la realtà del Corvetto. Dentro tante fatiche, la gente desidera vivere una normalità. In questo noi cerchiamo di sostenerle». Quotidianamente, in ogni circostanza, come per la tragedia di Ramy.

Il lunedì successivo al fatto, suor Francesca lancia ai bambini del doposcuola la proposta del presepe vivente, un evento che ogni anno si snoda lungo le strade del quartiere e che vede la partecipazione di tante persone non solo del Corvetto. «Abbiamo fatto vedere il video dell’edizione precedente per riaffermare la possibilità di bene che avviene attraverso la nascita di Gesù Bambino». Per introdurre il pomeriggio, come fanno ogni giorno dall’inizio del conflitto in Ucraina, recitano una Ave Maria per la pace. «Preghiamo per l’Ucraina, per la Terrasanta e per la pace dei nostri cuori, perché anche in noi c’è la guerra», dice suor Francesca. Non nomina Ramy, ma aggiunge: «Chi lo desidera può venire a parlare personalmente». Un ragazzo le racconta che sua mamma va ogni giorno dalla madre del ragazzo morto a pregare.

Con suor Fulvia alcuni ragazzi tirano fuori il dolore di quella morte e al contempo iniziano a farsi domande sulla loro vita: «Sulla difficoltà a riconoscere l’autorità, sul limite, sul significato delle regole, sulle conseguenze del proprio comportamento a cui a volte non si bada. “Certo che se avesse avuto il casco, se si fosse fermato al posto di blocco”, mi ha detto un ragazzo». Una presa di consapevolezza, più utile di tante manifestazioni. Non a caso, il padre di Ramy ha fatto ringraziare le suore per quanto hanno detto al servizio del Tgcom24, poche battute per raccontare che «se uno vuol vedere ciò che è vivo al Corvetto, lo vede molto più facilmente, nel senso che c’è tantissima vita. Se guardo il ragazzo come “tu sei quello che distrugge” non l’aiuterò mai a far venire fuori la voglia di costruzione che ha».

Ogni giorno le suore di Carità dell’Assunzione accompagnano le famiglie nei bisogni che emergono: assistenza infermieristica, mediazione linguistica per gli stranieri, colloqui con professori e altro ancora. «Li accompagniamo, non risolviamo i loro problemi», spiega suor Cristina. «Banalmente, c’è da compilare una domanda online? Lo facciamo insieme spiegando ogni passaggio. È la stima per l’altro che ci muove perché possa essere quello per cui Dio lo ha fatto».

Un accompagnamento che dura mesi, a volte anni, a fronte di situazioni di grande difficoltà e solitudine in cui non sembra esserci via d’uscita. Nell’abitazione popolare di una famiglia seguita dalle suore, quando piove è un disastro: la casa è sempre alluvionata, con tutti i disagi del caso. Alle continue richieste non arriva risposta. «Il padre ha saputo aspettare senza cedere a compromessi perché certo della nostra compagnia, fino al momento in cui una nuova casa gli è stata assegnata!», racconta suor Paola. «Io non sono sola. Sono dentro una storia, una comunità che porta con me il dolore della gente». Questo il punto che le famiglie e i bambini del Corvetto vedono: una comunità viva.

 

(….)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/gocce-di-misericordia-al-corvetto#:~:text=SOCIET%C3%80-,Gocce%20di%20misericordia%20al%20Corvetto,Non%20perderti%20il%20meglio,-Uno%20sguardo%20curioso