"La maggiore vitalità della vita cattolica del XX
secolo è scaturita dall’entusiasmo di scoprire pozzi dimenticati, trovando in
essi acqua limpida e fresca. Dov’è finito quell’entusiasmo? Perché ora sentiamo
di dover abbandonare i pozzi per allestire invece pieghevoli stand accanto a
distributori automatici?”.
Intervista
“Il cristianesimo non è un’utopia. La religione biblica è in
sommo grado e in modo sconcertante realistica. I grandi maestri della fede
hanno sempre insistito sul fatto che la vita soprannaturale deve basarsi su una
profonda considerazione della natura. Dobbiamo allenarci a vedere le cose come
sono, noi stessi come siamo. Avere speranza come cristiani non significa
aspettarsi che tutto vada bene. Non tutto va bene”. Erik Varden è un monaco
cistercense che dal 2019 è vescovo di Trondheim e dal 2023 amministratore
apostolico di Tromsø, in Norvegia. Ha cinquant’anni, è stato abate trappista di
Mount Saint Bernard, in Inghilterra. Ha insegnato teologia a Cambridge. Di
famiglia formalmente appartenente alla Chiesa luterana di Norvegia, ma in
pratica agnostica, si è convertito a quindici anni dopo aver ascoltato la
Sinfonia n. 2 (“Risurrezione”) di Gustav Mahler. Nel 1993 è diventato cattolico
e nel 2002 è entrato nell’ordine dei Cistercensi di stretta osservanza. Con il
Foglio parla di Natale e di speranza (tema cardine del Giubileo che si apre
oggi), di Europa e periferie, di guerra e cristianesimo. Da poco è in libreria
il suo ultimo libro, Castità (San Paolo, 208 pp., 20 euro), dove si interroga
sul significato più profondo di un tema che può apparire fuori dal tempo.
E’ Natale, si parla tanto di speranza. Spesso si usa
questa parola con superficialità, come fosse un augurio di stare bene oppure
che “tutto andrà per il meglio”. Invece, pensando alle trincee ucraine, a Gaza,
al Libano e alla Siria, la realtà è che questo mondo è in pezzi e che dire che
tutto andrà bene pare quasi un insulto. La speranza cristiana ci viene in
aiuto: qual è il suo vero significato anche in relazione al mondo in guerra?
“Sperare è avere fiducia che tutto, anche l’ingiustizia,
possa comunque avere un senso e uno scopo. La luce ‘brilla nelle tenebre’. Non
toglie di mezzo le tenebre; questo avverrà nei nuovi cieli e nella nuova terra
in cui ‘non ci sarà più notte’. Qui e ora, la speranza si manifesta come un
barlume. Questo non vuol dire che sia irrilevante. La speranza ha un contagio
benedetto che le permette di diffondersi di cuore in cuore. I poteri totalitari
lavorano sempre per cancellare la speranza e indurre alla disperazione.
Educarsi alla speranza significa esercitarsi alla libertà. In una poesia, Péguy
descrive la speranza come la fiamma della lampada del santuario. Questa fiamma,
dice, ‘ha attraversato la profondità delle notti’. Ci permette di vedere ciò
che è ora, ma anche prevedere ciò che potrebbe essere. Sperare significa
scommettere la propria esistenza sulla possibilità del divenire. E’ un’arte da
praticare assiduamente nell’atmosfera fatalista e deterministica in cui
viviamo”.
Il Natale ha qualcosa di misterioso che cattura anche chi
non crede. Viene da pensare a Paul Claudel, che si convertì ascoltando un
Vespro a Notre-Dame, nel Natale del 1886. E
a Jean Paul Sartre, l’ateo per eccellenza che scrisse in un suo
racconto: “La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe
dipingere sul suo viso è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su
un viso umano”. Qual è questo mistero del Natale che attira tutti?
“Lo stupore di cui parla Sartre non appare forse in alcune rappresentazioni
della Vergine nell’iconografia bizantina? L’attrattiva del Natale è insita
nelle più emblematiche rappresentazioni evangeliche: il bambino appena nato; la
proclamazione della pace; l’affermazione che gli uomini sono dopo tutto capaci
di ‘buona volontà’; il silenzio pacifico di una notte durante la quale tutto il
creato – uomini, animali e stelle – si dispone armoniosamente in attesa intorno
a un centro in sé evidente. Claudel scrive ne L’annuncio a Maria, che rileggo
ogni Natale: ‘Molte cose si consumano
nel fuoco di un cuore ardente’. Il Natale ci fa intuire il desiderio del nostro
cuore. Ci dà il senso di ciò che passa, di ciò che resta. La sfida è lasciare
che questa intuizione diventi concreta nelle decisioni che definiscono la
nostra vita, non confinata in un sentimento passeggero, fiacco”.
Lei è vescovo in una delle periferie tanto citate da Papa
Francesco. Periferia europea, per di più. A sud è evidente come la fede nel
Vecchio continente si stia perdendo, incalzata da un laicismo che si fa sempre
più forte. Qual è la sua prospettiva, appunto, dalla periferia?
“Una periferia è definita rispetto a un centro. In un’ottica
cristiana, il centro non è un punto sulla mappa. Il centro è dove il mistero di
Cristo è presente in pienezza. La periferia è chiamata a diventare centro.
Vediamo questa dinamica all’opera nella storia della missione della Chiesa. La
fiamma della fede risplende sempre di nuovo in luoghi inaspettati. Qual è stato
lo stupore di quegli europei sicuri di sé, che arrivarono in India nel XVI
secolo, pensandosi arrivati ai margini della civiltà, per poi scoprire che lì
il centro lo avevano raggiunto fin dai tempi apostolici, mentre i loro propri
antenati adoravano pezzi di legno e pietre? La terminologia delle periferie è
spesso utilizzata da istituzioni o persone certe di essere al centro in virtù
di privilegi ereditari. La fede sfida questo assunto. Così la terminologia
diventa un utile auto-sovvertitore. Ci sfida a chiederci: ‘Dov’è, in effetti,
il centro?’. In termini biblici, si tratta di seguire l’Agnello ovunque vada,
abbandonando la confortevole convinzione che egli rimanga necessariamente dove
sono io”.
Le chiese sono abitate sempre più da persone anziane, si
fa fatica a intercettare il bisogno di senso delle nuove generazioni. Che però
ce l’hanno: spesso diciamo che pensano solo al divertimento o allo smartphone.
Però, come in tutte le età e come per tutte le generazioni, sentono un
desiderio “alto”. Cosa può fare la Chiesa per intercettare questa esigenza?
“La mia esperienza è
assai diversa. Incontro molti giovani affamati di significato, sinceri nella
loro ricerca, lucidi nelle loro analisi. Sorrido un po’ di fronte alle
diagnosi, siano laiche o ecclesiastiche, in cui anziani commentatori propongono
tesi sui ‘giovani’ come se questi ultimi fossero una specie tenuta in vita
artificiosamente in un frigorifero di laboratorio, confinata nei presupposti e
nell’habitat culturale dei decenni passati. Come può la Chiesa impegnarsi con i
giovani di oggi? Prendendoli sul serio. Non parlando loro con sufficienza.
Osando presentare ideali alti e belli. Rispettando il loro desiderio di
abbracciare la pienezza della tradizione. Non dando loro sassi, o dolcetti,
come pane”.
Nel suo libro "La solitudine spezzata"
(Qiqajon, 151 pp., 16 euro), scriveva che “per vivere, si deve imparare a
guardare la morte negli occhi. Prima che potessi sapere ciò che significava la
parola, ero stanco della superficialità”. Parlavamo dei giovani e della guerra
e le chiedo: non è che, forse, in questo clima di assopimento collettivo pesa
anche il fatto che da generazioni l’Europa di fatto non sa più cosa sia la
guerra e la morte in casa sua? Ci siamo troppo abituati alla pace in casa nostra
tanto da non sapere più neanche guardare la morte in faccia?
“Il rischio è quello
di dare per scontata la pace, pensando che sia in qualche modo la normalità.
Non è così. La storia ce lo ricorda con insistenza. Andando avanti negli anni,
sono sempre più toccato dal fatto che la prima morte riportata nelle Scritture
sia una morte per fratricidio. E’ un paradigma che vediamo ripetersi con
terribile coerenza fino ai nostri giorni. Il Prologo della Regola di san
Benedetto cita un Salmo che dà un’utile prospettiva. San Benedetto ci esorta a
‘cercare la pace e a seguirla’. Ci viene ricordato che la pace è dinamica, una
realtà viva da promuovere. Un mezzo secolo europeo senza grandi guerre è stato
una specie di miracolo. Ora l’orizzonte si fa oscuro. In Ucraina infuria una
guerra ingiusta; il crollo di un governo dopo l’altro, con l’esplosione di
fragili coalizioni, genera ansia; la retorica dell’aggressione si diffonde come
un fumo nefasto. Ho l’impressione però che il nostro continente, e non da
ultimo i suoi giovani, si stiano svegliando. Il Covid è stato un campanello d’allarme.
Ha avvicinato lo spettro della morte. Ha infranto l’illusione che il benessere
o la competenza scientifica ci tengano al sicuro, che la morte sia solo
qualcosa che accade agli altri. Abbiamo riflettuto abbastanza su queste lezioni
della storia recente? Io credo di no. La vedo come un’occasione persa, dal
punto di vista politico e catechetico”.
Abbiamo visto in mondovisione lo spettacolo
dell’inaugurazione della cattedrale di Notre-Dame restaurata dopo l’incendio.
Una folla enorme, i potenti in coda per entrare, la gente comune che ha
contribuito al finanziamento dell’opera come accadeva nel Medioevo. Allora,
nonostante tutto, siamo ancora attaccati a questi simboli che parlano della
nostra identità?
“Il fatto che restiamo attaccati ad alcuni simboli sembra
evidente. Le manifestazioni di dolore che sono seguite all’incendio di
Notre-Dame sono state commoventi. Onore a tutti coloro che hanno contribuito
alla sua ricostruzione! Ma a cosa siamo legati? A un grande santuario
cristiano? O a un simulacro culturale? Durante l’Avvento la Chiesa ci fa
leggere il profeta Isaia. E’ una lettura sconvolgente. Isaia ci offre
meravigliose immagini di consolazione, misteriose profezie dell’incarnazione.
Allo stesso tempo dice che la redenzione nascerà dalla rovina. Chiarisce che è
il Signore che predispone la distruzione di Gerusalemme e l’esilio del suo
popolo, volendo insegnare loro, appunto, a non riporre la loro fiducia in
monumenti di forza ma a vivere, invece, secondo la grazia, sostenuti giorno per
giorno nell’umana fragilità esistenziale. E’ compito della Chiesa far sì che il
nostro patrimonio architettonico e artistico rimanga un segno potente della
bontà di Dio, che permetta l’incontro del nostro essere di terra con lo
splendore increato, divino. Abbiamo sufficiente fiducia nella nostra
tradizione, per aiutare i nostri contemporanei a vedere cosa significano e
implicitamente promettono i luoghi e gli oggetti che formano in superficie la
nostra identità culturale? C’è qui un’ampia prospettiva per un esame di
coscienza. Spesso, infatti, mi sembra che ci diamo per vinti di fronte alla
modernità secolare. Ci sforziamo di rendere il nostro patrimonio ‘rilevante’
alle sue condizioni, mentre i nostri tempi chiedono da noi qualcosa di
diverso”.
Domanda al vescovo che opera in Norvegia: noi europei del
Terzo millennio abbiamo forse un problema d’identità? Sappiamo ancora chi siamo
e da dove veniamo?
“Da tempo il consenso non è mai stato così teso su questioni
fondamentali: cosa significhi essere un uomo o una donna, cosa sia un essere
umano, cosa debba essere una società. Per molto tempo i dibattiti pubblici
sembravano ronzare in modo sinistro come nidi di vespe. Chiunque vi partecipava
correva il rischio di essere punto. Ho l’impressione che ora la tendenza si
stia gradualmente invertendo: un numero maggiore di persone si pone domande,
cerca ragionamenti validi e parametri affidabili. La tradizione intellettuale
cattolica ha un immenso contributo da dare in questo senso. Senza voler per
nulla sminuire l’importanza del lavoro caritativo o delle cause di giustizia e
di pace, credo che l’apostolato intellettuale sia fondamentale per i prossimi
decenni. Il Verbo si è fatto carne per impregnare di logos la nostra stessa
natura, creata a immagine del Verbo. Accogliere questo aspetto del nostro
essere e articolarlo significa iniziare a ricordare la nostra dignità”.
Non è raro sentire nella cosiddetta “opinione pubblica”
che la Chiesa propone qualcosa di anacronistico, soprattutto sul piano della
morale e perfino della bioetica: dopotutto, si dice, perché bisogna dire no
all’eutanasia se una persona soffre? La via più semplice è quella che piace di
più. Il problema è che spesso sono anche tanti uomini di Chiesa che, sui media,
chiedono di “cambiare” e “riformare” perché il messaggio non arriva più al
Popolo di Dio. Qual è la sua opinione? Quanto è utile o rischioso dare ascolto
allo Zeitgeist?
“Lo Zeitgeist – dice mons. Varden – è volubilissimo! Certo,
dobbiamo ascoltarlo: trasmette messaggi di cui dobbiamo tenere conto. Ma
cercare di seguirlo è un atto di sfida verso se stessi. Quando siamo arrivati
al punto in cui si trovava un momento fa, è già più in là. La Chiesa per sua
natura si muove lentamente. C’è il rischio che ci impegniamo in quelle che
riteniamo siano tendenze contemporanee quando già non sono rimaste altro che
braci morenti. Così passiamo senza fortuna, e in modo leggermente assurdo, da
un falò spento all’altro. E’ sicuramente più promettente, interessante e
gioioso rimanere aggrappati a ciò che resiste. Questo è ciò che parlerà ai
cuori e alle menti umane nella nostra epoca come in ogni altra epoca. Il
Concilio Vaticano II è stato caratterizzato dalla sollecitazione a bere con
abbondanza dalle fonti. La maggiore vitalità della vita cattolica del XX secolo
è scaturita dall’entusiasmo di scoprire pozzi dimenticati, trovando in essi
acqua limpida e fresca. Dov’è finito quell’entusiasmo? Perché ora sentiamo di
dover abbandonare i pozzi per allestire invece pieghevoli stand accanto a
distributori automatici?”.
(….)
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