Il documento non nega affatto «il triste e grave fenomeno degli abusi sessuali nei confronti di minori da parte di chierici». Lo affronta da tre punti di vista: la formazione nei seminari e nei noviziati, la «premura verso le vittime degli abusi» e la punizione dei colpevoli.
Anzitutto, i seminari. Leggiamo che «una speciale cura deve essere posta nel discernimento vocazionale dei candidati al ministero ordinato e delle persone consacrate, nell’iter di preparazione al diaconato e al presbiterato. Piena osservanza deve essere assicurata alle previsioni contenute nel Decreto generale circa la ammissione in seminario di candidati provenienti da altri seminari o famiglie religiose della Conferenza Episcopale Italiana (27 marzo 1999), riservando una rigorosa attenzione allo scambio d’informazioni in merito a quei candidati al sacerdozio o alla vita religiosa che si trasferiscono da un seminario all’altro, tra diocesi diverse o tra Istituti religiosi e diocesi».
Non lo si dice in esplicito - la legge Scalfarotto incombe -, ma risalendo dalle Linee guida ai documenti della CEI e della Santa Sede in materia se ne ricava che le persone con chiare e manifeste tendenze omosessuali non devono essere ordinate al sacerdozio. Certamente nessuno pensa di equiparare l'omosessualità alla pedofilia - legge sull'omofobia o no, questo sarebbe falso - ma è un fatto documentato (per i numeri, rimando al libro mio e di Roberto Marchesini «Pedofilia. Una battaglia che la Chiesa sta vincendo», Sugarco, Milano 2014) che la maggior parte dei sacerdoti che abusano di minori abusano di ragazzi e non di ragazze. E deve anche finire, ci dicono i vescovi, il malvezzo per cui un candidato al sacerdozio «sospetto» cacciato da un seminario viene accolto in un altro, magari di una diocesi dove la crisi delle vocazioni è più drammatica e non si guarda troppo per il sottile.
Secondo: accogliere le vittime con amore, e non trascurare alcun mezzo perché possano superare il loro dramma preservando anche la loro fede in una Chiesa che pure è composta di santi e di peccatori. Qui Benedetto XVI e Papa Francesco hanno dato un grande esempio. I vescovi possono certamente fare di più. Tuttavia, questo non implica che a tutti coloro che si presentano come vittime di abusi vada dato credito senza indagini puntuali. Il documento lo afferma con chiarezza: ci sono anche casi - e il passato italiano ne offre esempi tragici e clamorosi - di preti accusati e sbattuti in prima pagina che si sono poi rivelati innocenti. Anche loro sono vittime.
Terzo: punire i colpevoli. La normativa canonica voluta da Benedetto XVI è severissima, ed è applicata anche in Italia, le Linee guida insistono però sulla necessaria serietà delle indagini. Il vescovo potrà farsi affiancare da specialisti e non dovrà fidarsi semplicemente della eventuale indagine parallela della giustizia dello Stato italiano, che non lo esime dal condurre autonomamente la sua. Insistono anche sulla riservatezza: prima della condanna il nome del sacerdote indagato - che potrebbe poi risultare innocente - non dovrà essere dato in pasto ai giornalisti, benché il vescovo debba adottare subito, già nel corso dell'indagine, provvedimenti che prevengano il rischio che il sospetto avvicini altri minorenni e reiteri la condotta criminosa. Di norma, precisano le Linee guida, un semplice trasferimento non è una precauzione sufficiente.
Il punto che ha scatenato le ire di qualche giornalista è l'affermazione finale secondo cui, per quanto sia «importante la cooperazione del Vescovo con le autorità civili», secondo la legge italiana e il Concordato «i Vescovi sono esonerati dall’obbligo di deporre o di esibire documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragione del proprio ufficio» e «nell'ordinamento italiano il Vescovo, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico – salvo il dovere morale di contribuire al bene comune – di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti oggetto delle presenti Linee guida».
Significa che i vescovi devono nascondere le malefatte dei preti pedofili ai giudici italiani? Non è così. La normativa della Santa Sede precisa, ricordano le Linee guida, che l'obbligo di leale collaborazione con l'autorità giudiziaria civile introdotto da Benedetto XVI va declinato secondo il diritto vigente nei singoli Stati. Non solo il vescovo italiano che riferisse al giudice civile semplici sospetti, magari sulla base di maldicenze o lettere anonime, violerebbe i doveri di giustizia e di carità nei confronti del sacerdote coinvolto, ma potrebbe essere a sua volta incriminato per calunnia. Inoltre, come ha ricordato il cardinale Bagnasco, potrebbero essere i genitori della vittima a non volere la pubblicità che deriva da un processo civile che affianchi quello canonico. Se però i genitori decidono di rivolgersi ai giudici italiani, le Linee guida sono molto chiare: la Chiesa, salvo l'accertamento della verità dei fatti, deve comunque essere loro vicina. «Qualora il denunciante dovesse decidere di sporgere denuncia in sede civile, la competente Autorità ecclesiastica, nel rispetto della vigente normativa canonica e civile, provvederà a fornirgli tutto l’aiuto spirituale e psicologico necessario, con ogni premura verso le vittime».
Nessun insabbiamento, dunque. Ma neppure deleghe in bianco ai giudici italiani, che hanno dimostrato in questa materia - come in altre - di non avere sempre ragione; e meno ancora a giornalisti ansiosi di sbattere il prete-mostro in prima pagina, prima ancora di accertare se sia davvero colpevole; o ad ambigue associazioni di «vittime» che sono spesso semplici associazioni anti-cattoliche e anticlericali. Le vittime vere dei preti pedofili, purtroppo, esistono. Ma sono le prime a essere danneggiate da una spettacolarizzazione del loro dramma che, più che i loro interessi, ha a cuore quelli di lobby interessate solo ad attaccare la Chiesa.