Intervista
L’analista Loretta Napoleoni: Occidente e islam,
stavolta è proprio guerra «a puntate»
stavolta è proprio guerra «a puntate»
Nello Scavo
18 novembre 2014
«L’unico
leader ad aver capito fino in fondo cosa sia veramente il Califfato e
quali rischi, su scala mondiale, possano venire dalle crisi in Medio
Oriente è Francesco. La "terza guerra mondiale a pezzi" di cui parla il
Papa è un fatto, non una suggestione. Ora le cancellerie devono
decidere: fermare l’escalation militare o peggiorare la situazione, con
ripercussioni ad amplissimo raggio». Loretta Napoleoni non è mai stata
quel tipo di analista disposto a cedere al "diplomaticamente corretto".
E non lo fa neanche in questa intervista ad Avvenire, a un giorno dall’uscita in Italia del suo Isis. Lo Stato del terrore (Feltrinelli, pagine 144, euro 13), un saggio già divenuto di riferimento nel Regno Unito e negli Usa con il titolo The islamist Phoenix.
Cos’è la "fenice islamica" che chiamiamo Isis?
«Questo movimento è la genesi dello "Stato Islamico". Ho capito che qualcosa di serio stava succedendo alla fine del 2013, quando c’è stata una trasformazione che molti non hanno voluto (o saputo) notare. Quella in Siria e in Iraq non era più una "guerra per procura", nella quale uno sponsor esterno, come il Qatar, prendeva un gruppetto, lo finanziava, gli spediva le armi, sotto il naso della comunità internazionale. Gli americani sapevano, ma consideravano la questione come un problema locale. Anche gli Usa hanno avuto un ruolo: i soldi ai ribelli sono stati forniti anche da loro. Ma questi, intanto, avevano conquistato posizioni chiave, erano in grado di autofinanziarsi, in una sorta di privatizzazione del terrorismo. Da allora quello che alcuni si ostinano a chiamare Isis non esiste più».
Che tipo di trasformazione è avvenuta?
«Ora c’è il Califfato. Una metamorfosi come non se ne vedevano da secoli. È uno Stato con una sua organizzazione, una propria burocrazia, un suo esercito "autonomo" dai burocrati, ove vige un sistema di tassazione e perfino una legislazione giudiziaria. In un certo senso uno "Stato guscio" che non è riconosciuto, non è nato da una rivoluzione (come accadde nell’Iran degli ayatollah), e cerca di ottenere un vasto consenso non attraverso gli strumenti classici della democrazia, ma grazie al supporto della popolazione a livello tribale. Insomma, una "joint venture" con i capitribù per usare le risorse energetiche, a cominciare dai giacimenti di petrolio, che l’Isis controlla e sfrutta anche a livello economico. E con il denaro incassato hanno potuto pagare tangenti a funzionari che hanno fatto arrivare interi arsenali dall’Iraq, dalla Libia del dopo Gheddafi e anche dalla Siria, il cui esercito non è immune dalla corruzione».
E cosa non è l’Isis?
«Non è al-Qaeda, perché lo Stato Islamico non è interessato ad attaccare il nemico lontano per eccellenza, cioè gli Usa. Non ha interesse a un’azione spettacolare come nell’11 settembre 2001, o come in altre azioni in Europa e nel resto del mondo. Ciò non toglie che altri, autonomamente e con una regia autonoma dal Califfato, possano farlo per un effetto emulazione. Lo Stato Islamico è una organizzazione molto pragmatica e "moderna". Si muove nel presente, non nel passato. Benladen e al-Zawahiri vivevano in una dimensione demenziale: pensavano di essere tornati ai tempi del Profeta. Invece questi che erroneamente consideriamo i loro eredi sanno combattere, sanno amministrare uno Stato. Naturalmente è una "modernizzazione" che mi disgusta, ma dobbiamo tenerne conto».
Quale posto ha la religione islamica nelle dinamiche interne e nell’immagine pubblica del Califfato?
«L’aspetto religioso, in senso stretto, non è fondamentale. Lo Stato Islamico, ad esempio, ha avviato le vaccinazioni dei bambini contro la poliomelite, cosa che al-Qaeda e i taleban non facevano. L’intervento religioso ha un carattere prevalentemente politico, nel senso che uno Stato per funzionare ha bisogno di omogeneità. Gli sciiti non possono farne parte per ragioni politiche (Assad è sciita, l’Iraq anche). Dunque, il Califfato ha fatto passare la propria come una rivolta sunnita contro l’oppressore sciita. Ma la creazione di uno Stato omogeneo dal punto di vista religioso è anche il modo per coagulare le forze intorno a una omogeneità etnica. Nello stesso tempo, a differenza di al-Qaeda (che non faceva alcuna distinzione) e diversamente dal giordano e sunnita al-Zarkawi che in Iraq ha rilanciato l’odio tra sunniti e sciiti, qui viene osservato il concetto di Califfato, per cui "tutti possono farne parte, se si convertono". Perciò non si ammazza la gente solo perché è sciita, ma gli viene offerta la possibilità di convertirsi o pagare una tassa e accettare il nuovo corso. È inaccettabile, certo, ma la religione non è l’elemento culturale distintivo del Califfato, semmai un pretesto per farne motivo di sterminio».
Quale fascinazione attrae uomini e donne che vivono in Occidente ad arruolarsi nell’esercito dello Stato Islamico?
«La seduzione è fortissima. C’è uno Stato da costruire, una "terra promessa" da raggiungere. Perché attaccare la metropolitana di Londra quando si può andare a combattere a Kobane? Il principale obiettivo dello Stato Islamico è rappresentare per i musulmani sunniti ciò che Israele è per gli ebrei: uno Stato nella loro antica terra, rioccupata in tempi moderni; un potente Stato confessionale che li protegga ovunque essi si trovino. Anche se non ci piace, questo noi dobbiamo cercare di capirlo. Inoltre l’intervento armato americano ha dato a questa seduzione una spinta propulsiva».
E che ne sarebbe stato dei cristiani e delle minoranze che vengono massacrate?
«Quello delle minoranze e della minoranza cristiana non è un problema nato oggi, ma risale alle sanzioni economiche contro l’Iraq di Saddam negli anni ’90. Ci andavo spesso per lavoro e c’erano donne cristiane in posizione di altissimo livello. Improvvisamente, con l’embargo, è iniziata l’islamizzazione dell’Iraq, dirottando sui cristiani le frustrazioni del regime e della popolazione; costringendoli a lasciare determinati quartieri e limitando le attività economiche. Ma dovremmo anche domandarci, quale posto hanno i cristiani nell’attuale governo di Baghdad? Nessuno».
Cosa suggerirebbe di fare?
«Ridare fiato alla diplomazia, con il compito di aprire canali di dialogo e confronto, stemperando le contrapposizioni e gettando le basi per una stabilizzazione. L’incendio in Medio Oriente, con quello che accade in Iraq, Siria, e l’instabilità crescente in tutta l’area, non promette niente di buono e basta poco perché si propaghi fino alle porte di casa nostra».
E non lo fa neanche in questa intervista ad Avvenire, a un giorno dall’uscita in Italia del suo Isis. Lo Stato del terrore (Feltrinelli, pagine 144, euro 13), un saggio già divenuto di riferimento nel Regno Unito e negli Usa con il titolo The islamist Phoenix.
Cos’è la "fenice islamica" che chiamiamo Isis?
«Questo movimento è la genesi dello "Stato Islamico". Ho capito che qualcosa di serio stava succedendo alla fine del 2013, quando c’è stata una trasformazione che molti non hanno voluto (o saputo) notare. Quella in Siria e in Iraq non era più una "guerra per procura", nella quale uno sponsor esterno, come il Qatar, prendeva un gruppetto, lo finanziava, gli spediva le armi, sotto il naso della comunità internazionale. Gli americani sapevano, ma consideravano la questione come un problema locale. Anche gli Usa hanno avuto un ruolo: i soldi ai ribelli sono stati forniti anche da loro. Ma questi, intanto, avevano conquistato posizioni chiave, erano in grado di autofinanziarsi, in una sorta di privatizzazione del terrorismo. Da allora quello che alcuni si ostinano a chiamare Isis non esiste più».
Che tipo di trasformazione è avvenuta?
«Ora c’è il Califfato. Una metamorfosi come non se ne vedevano da secoli. È uno Stato con una sua organizzazione, una propria burocrazia, un suo esercito "autonomo" dai burocrati, ove vige un sistema di tassazione e perfino una legislazione giudiziaria. In un certo senso uno "Stato guscio" che non è riconosciuto, non è nato da una rivoluzione (come accadde nell’Iran degli ayatollah), e cerca di ottenere un vasto consenso non attraverso gli strumenti classici della democrazia, ma grazie al supporto della popolazione a livello tribale. Insomma, una "joint venture" con i capitribù per usare le risorse energetiche, a cominciare dai giacimenti di petrolio, che l’Isis controlla e sfrutta anche a livello economico. E con il denaro incassato hanno potuto pagare tangenti a funzionari che hanno fatto arrivare interi arsenali dall’Iraq, dalla Libia del dopo Gheddafi e anche dalla Siria, il cui esercito non è immune dalla corruzione».
E cosa non è l’Isis?
«Non è al-Qaeda, perché lo Stato Islamico non è interessato ad attaccare il nemico lontano per eccellenza, cioè gli Usa. Non ha interesse a un’azione spettacolare come nell’11 settembre 2001, o come in altre azioni in Europa e nel resto del mondo. Ciò non toglie che altri, autonomamente e con una regia autonoma dal Califfato, possano farlo per un effetto emulazione. Lo Stato Islamico è una organizzazione molto pragmatica e "moderna". Si muove nel presente, non nel passato. Benladen e al-Zawahiri vivevano in una dimensione demenziale: pensavano di essere tornati ai tempi del Profeta. Invece questi che erroneamente consideriamo i loro eredi sanno combattere, sanno amministrare uno Stato. Naturalmente è una "modernizzazione" che mi disgusta, ma dobbiamo tenerne conto».
Quale posto ha la religione islamica nelle dinamiche interne e nell’immagine pubblica del Califfato?
«L’aspetto religioso, in senso stretto, non è fondamentale. Lo Stato Islamico, ad esempio, ha avviato le vaccinazioni dei bambini contro la poliomelite, cosa che al-Qaeda e i taleban non facevano. L’intervento religioso ha un carattere prevalentemente politico, nel senso che uno Stato per funzionare ha bisogno di omogeneità. Gli sciiti non possono farne parte per ragioni politiche (Assad è sciita, l’Iraq anche). Dunque, il Califfato ha fatto passare la propria come una rivolta sunnita contro l’oppressore sciita. Ma la creazione di uno Stato omogeneo dal punto di vista religioso è anche il modo per coagulare le forze intorno a una omogeneità etnica. Nello stesso tempo, a differenza di al-Qaeda (che non faceva alcuna distinzione) e diversamente dal giordano e sunnita al-Zarkawi che in Iraq ha rilanciato l’odio tra sunniti e sciiti, qui viene osservato il concetto di Califfato, per cui "tutti possono farne parte, se si convertono". Perciò non si ammazza la gente solo perché è sciita, ma gli viene offerta la possibilità di convertirsi o pagare una tassa e accettare il nuovo corso. È inaccettabile, certo, ma la religione non è l’elemento culturale distintivo del Califfato, semmai un pretesto per farne motivo di sterminio».
Quale fascinazione attrae uomini e donne che vivono in Occidente ad arruolarsi nell’esercito dello Stato Islamico?
«La seduzione è fortissima. C’è uno Stato da costruire, una "terra promessa" da raggiungere. Perché attaccare la metropolitana di Londra quando si può andare a combattere a Kobane? Il principale obiettivo dello Stato Islamico è rappresentare per i musulmani sunniti ciò che Israele è per gli ebrei: uno Stato nella loro antica terra, rioccupata in tempi moderni; un potente Stato confessionale che li protegga ovunque essi si trovino. Anche se non ci piace, questo noi dobbiamo cercare di capirlo. Inoltre l’intervento armato americano ha dato a questa seduzione una spinta propulsiva».
E che ne sarebbe stato dei cristiani e delle minoranze che vengono massacrate?
«Quello delle minoranze e della minoranza cristiana non è un problema nato oggi, ma risale alle sanzioni economiche contro l’Iraq di Saddam negli anni ’90. Ci andavo spesso per lavoro e c’erano donne cristiane in posizione di altissimo livello. Improvvisamente, con l’embargo, è iniziata l’islamizzazione dell’Iraq, dirottando sui cristiani le frustrazioni del regime e della popolazione; costringendoli a lasciare determinati quartieri e limitando le attività economiche. Ma dovremmo anche domandarci, quale posto hanno i cristiani nell’attuale governo di Baghdad? Nessuno».
Cosa suggerirebbe di fare?
«Ridare fiato alla diplomazia, con il compito di aprire canali di dialogo e confronto, stemperando le contrapposizioni e gettando le basi per una stabilizzazione. L’incendio in Medio Oriente, con quello che accade in Iraq, Siria, e l’instabilità crescente in tutta l’area, non promette niente di buono e basta poco perché si propaghi fino alle porte di casa nostra».
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