Da bambina in casa avevo visto
passare la morte, e a quindici anni ne riconoscevo le tracce
dappertutto. L'accartocciarsi della foglia riarsa, il cavallo
stramazzato, erano segni che comprendevo bene. Nessuno mi aveva parlato
credibilmente di Cristo. E dunque io immaginavo che la salvezza dal
dolore potesse essere nella indifferenza descritta da Montale: nella
siderale lontananza di certe statue nelle piazze delle città di
provincia, nell'ora più calda dell'estate, quando tutto attorno nell'afa
è immoto.
Questa mattina però ho aperto gli occhi e ho incontrato
il crocifisso di legno appeso sul muro davanti al letto. L'ho comprato
anni fa da un robivecchi a Colonia, era confuso in una cassa di cose
polverose – sgomberate, credo, dalla casa di un vecchio defunto. Ho
pensato che, forse, quel crocifisso stava sulla parete di una stanza di
Colonia sotto alle bombe, mentre tutto attorno crollava.
Adesso è la
prima cosa su cui poso gli occhi quando mi sveglio. E mi ricordo allora
della croce su cui Cristo ci ha salvato dalla morte. A dire la verità, a
me pare che di dolore e di morte ce ne siano ancora così smisuratamente
tanti, in giro. Però io credo che davvero in quella croce tutta questa
immensa mole di sofferenza sia stata salvata; strappata al nulla,
abbracciata e sanata.
Ognuno di noi, certo, deve prendersi il pezzo
di croce che è suo, e portarlo. Dentro a questo sguardo, comincio a
capire, hanno un senso anche le giornate amare. Non è, come credevo da
ragazza, l'indifferenza delle nuvole ciò che ti permette di stare
davanti al dolore; ma è la croce di Cristo, e l'accettare di mettersene
ogni mattina sulle spalle un frammento. Come lo faresti per aiutare,
curvo sotto a quel peso, un fratello, o tuo figlio.