Milano,
novembre. Da una vecchia scatola nello sgabuzzino è saltato fuori il
mio diario di scuola di quinta ginnasio. Sulla seconda pagina avevo
trascritto una poesia di Montale, Il male di vivere. La ho riletta nella
mia calligrafia tondeggiante e ancora infantile di quegli anni: «Spesso
il male di vivere ho incontrato:/ era il rivo strozzato che gorgoglia/
era l'incartocciarsi della foglia riarsa, / era il cavallo stramazzato./
Bene non seppi, fuori del prodigio/ che schiude la divina
Indifferenza:/ era la statua nella sonnolenza/ del meriggio, e la
nuvola, e il falco alto levato».
Questa mattina però ho aperto gli occhi e ho incontrato il crocifisso di legno appeso sul muro davanti al letto. L'ho comprato anni fa da un robivecchi a Colonia, era confuso in una cassa di cose polverose – sgomberate, credo, dalla casa di un vecchio defunto. Ho pensato che, forse, quel crocifisso stava sulla parete di una stanza di Colonia sotto alle bombe, mentre tutto attorno crollava.
Adesso è la prima cosa su cui poso gli occhi quando mi sveglio. E mi ricordo allora della croce su cui Cristo ci ha salvato dalla morte. A dire la verità, a me pare che di dolore e di morte ce ne siano ancora così smisuratamente tanti, in giro. Però io credo che davvero in quella croce tutta questa immensa mole di sofferenza sia stata salvata; strappata al nulla, abbracciata e sanata.
Ognuno di noi, certo, deve prendersi il pezzo di croce che è suo, e portarlo. Dentro a questo sguardo, comincio a capire, hanno un senso anche le giornate amare. Non è, come credevo da ragazza, l'indifferenza delle nuvole ciò che ti permette di stare davanti al dolore; ma è la croce di Cristo, e l'accettare di mettersene ogni mattina sulle spalle un frammento. Come lo faresti per aiutare, curvo sotto a quel peso, un fratello, o tuo figlio.