LA STRADA BELLA / LETTERA
Ma chi era quest'uomo?
di Luca Doninelli
13/11/2014 - Un amico scrittore (e firma di Tracce) racconta che cosa lo ha colpito del film sui 60 anni di CL. Spiegando perché ci ha trovato dentro «lo spettacolo immenso e terribile» di una domanda che interpellava gli apostoli. E che sfida noi ora
Caro Direttore,
ho parlato con diversi amici del film La strada bella sui sessant’anni del nostro movimento. Il bello di un’operazione come questa sta anche nella sua capacità di sollevare discussioni.
Ho ascoltato e letto molti elogi e anche alcune critiche, e in un paio di occasioni mi sono trovato nella situazione comica di essere il solo, in mezzo a tutti ciellini, a difendere questo film. Il giudizio espresso da Davide Rondoni (che è mio amico), per esempio, è stato sostenuto pressappoco con gli stessi argomenti da altri miei amici carissimi. Si parla di “look buonista”, di ambientazioni un po’ “da santino”, di troppo spazio dedicato a certe realtà e troppo poco ad altre, e via dicendo. Qualcuno sottolinea pure che dei seicento filmati arrivati ne saranno stati usati sì e no una cinquantina.
Vorrei perciò, senza alcuna pretesa di dire parole definitive, esprimere le mie opinioni (che sono pure opinioni, s’intende) nella certezza che possano contribuire positivamente al dibattito. E io, come si sarà capito, sono pienamente favorevole al video. Penso che, una volta stabilito che il film non è un’opera d’arte (non credo aspirasse a tanto), la prima cosa da considerare, secondo me l’unica, sia un’altra.
Finito di vedere il film, la domanda che mi è sorta è stata: chi era mai quel prete brianzolo capace di parlare ai malati ugandesi o a delle specie di sindacalisti brasiliani come mai nessun ugandese o brasiliano ha saputo fare? Chi era quell’uomo nato a Desio che ha saputo dire a un finissimo intellettuale musulmano le parole che lo hanno aiutato a vivere la propria fede con una consapevolezza nuova, che non aveva mai trovato durante i suoi studi al Cairo, la capitale culturale dell'Islam? Chi era quel sacerdote ambrosiano, così innamorato della tradizione cristiana da risultare, paradossalmente, un sovversivo? E nelle cui parole si sono riconosciuti tanto i malati di Aids africani quanto i surfisti australiani?
Insomma: chi è costui? È la stessa domanda che aleggiava nelle parole e nei cuori intimoriti degli Apostoli di fronte alla potenza di Gesù, che sapeva comandare al vento e alle acque e conosceva i moti più sottili dell’animo di tutti. Per me il senso del film è stato questo, e solo questo: assistere allo spettacolo immenso e terribile di un’immedesimazione così grande tra un uomo del nostro tempo e il Signore Gesù da far sorgere la stessa domanda, da suscitare lo stesso stupore. In questa immedesimazione io vedo il volto luminoso del nostro carisma, con la strada che esso ci indica.
Perché dico “terribile?” Perché questo suscita la coscienza del niente che sono. Una volta morto, dovrò rendere conto a Dio, ma l’aver ricevuto il dono di don Giussani mi rende consapevole che questa resa dei conti è presente già ora come alba, come inizio di luce. Senza attraversare, come in un lampo, l’umiliazione che questo film ci presenta come necessaria, è difficile non lasciarsi tentare dalla critica cinematografica.
Concludo. Ogni mese diventa sempre più difficile per me tenere la rubrica “Magellano” di Tracce, non perché non ci siano cose di cui parlare (anzi), ma perché mi rendo conto sempre di più che la domanda, mese dopo mese, è una soltanto: sta accadendo o no? Io non amo i racconti edificanti perché trovo fallimentare, dal punto di vista narrativo, il tentativo di “ricostruire” una circostanza. Le circostanze non rendono comprensibile l’avvenimento, anzi: è vero il contrario, è l’annuncio di Cristo presente a rendere raccontabili le circostanze, perché la circostanza raccontata è già passata, mentre chi è presente è il narratore. Così ha fatto don Giussani, per questo tutte le circostanze umane lo sentono proprio, come se fosse ugandese o brasiliano o siberiano…
Per questo c’è da chiedersi: le scene “da santino”, che infastidiscono qualcuno, comunicano un messaggio niente più che edificante o suggeriscono di andare oltre? Qui mi pare si giochi la libertà di tutti noi. Il nostro carisma sta nella coscienza dell’io che sorge dall’esperienza, spesso scandalosa, di un “Tu”, di qualcosa di totalmente diverso da me e da te, che accade nelle nostre giornate.
Certo, come detto dobbiamo richiamarci all’umiltà (da humus, terra, stare coi piedi per terra) perché qui non ci sono istruzioni per l’uso, ed è bene perciò ricordare che, se qualcosa nel film ci appare debole o non adeguato alla forza del nostro carisma, la colpa potrebbe essere solo nostra e dell’immagine che noi anteponiamo (lo dico innanzitutto per me stesso) alla realtà delle cose. Come preghiamo tutte le settimane, con le parole di San Paolo: «La realtà, invece, è Cristo». Che bello, quell’invece! C’è dentro tutta la nostra vita.
13/11/2014 - Un amico scrittore (e firma di Tracce) racconta che cosa lo ha colpito del film sui 60 anni di CL. Spiegando perché ci ha trovato dentro «lo spettacolo immenso e terribile» di una domanda che interpellava gli apostoli. E che sfida noi ora
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Luca Doninelli.
ho parlato con diversi amici del film La strada bella sui sessant’anni del nostro movimento. Il bello di un’operazione come questa sta anche nella sua capacità di sollevare discussioni.
Ho ascoltato e letto molti elogi e anche alcune critiche, e in un paio di occasioni mi sono trovato nella situazione comica di essere il solo, in mezzo a tutti ciellini, a difendere questo film. Il giudizio espresso da Davide Rondoni (che è mio amico), per esempio, è stato sostenuto pressappoco con gli stessi argomenti da altri miei amici carissimi. Si parla di “look buonista”, di ambientazioni un po’ “da santino”, di troppo spazio dedicato a certe realtà e troppo poco ad altre, e via dicendo. Qualcuno sottolinea pure che dei seicento filmati arrivati ne saranno stati usati sì e no una cinquantina.
Vorrei perciò, senza alcuna pretesa di dire parole definitive, esprimere le mie opinioni (che sono pure opinioni, s’intende) nella certezza che possano contribuire positivamente al dibattito. E io, come si sarà capito, sono pienamente favorevole al video. Penso che, una volta stabilito che il film non è un’opera d’arte (non credo aspirasse a tanto), la prima cosa da considerare, secondo me l’unica, sia un’altra.
Finito di vedere il film, la domanda che mi è sorta è stata: chi era mai quel prete brianzolo capace di parlare ai malati ugandesi o a delle specie di sindacalisti brasiliani come mai nessun ugandese o brasiliano ha saputo fare? Chi era quell’uomo nato a Desio che ha saputo dire a un finissimo intellettuale musulmano le parole che lo hanno aiutato a vivere la propria fede con una consapevolezza nuova, che non aveva mai trovato durante i suoi studi al Cairo, la capitale culturale dell'Islam? Chi era quel sacerdote ambrosiano, così innamorato della tradizione cristiana da risultare, paradossalmente, un sovversivo? E nelle cui parole si sono riconosciuti tanto i malati di Aids africani quanto i surfisti australiani?
Insomma: chi è costui? È la stessa domanda che aleggiava nelle parole e nei cuori intimoriti degli Apostoli di fronte alla potenza di Gesù, che sapeva comandare al vento e alle acque e conosceva i moti più sottili dell’animo di tutti. Per me il senso del film è stato questo, e solo questo: assistere allo spettacolo immenso e terribile di un’immedesimazione così grande tra un uomo del nostro tempo e il Signore Gesù da far sorgere la stessa domanda, da suscitare lo stesso stupore. In questa immedesimazione io vedo il volto luminoso del nostro carisma, con la strada che esso ci indica.
Perché dico “terribile?” Perché questo suscita la coscienza del niente che sono. Una volta morto, dovrò rendere conto a Dio, ma l’aver ricevuto il dono di don Giussani mi rende consapevole che questa resa dei conti è presente già ora come alba, come inizio di luce. Senza attraversare, come in un lampo, l’umiliazione che questo film ci presenta come necessaria, è difficile non lasciarsi tentare dalla critica cinematografica.
Concludo. Ogni mese diventa sempre più difficile per me tenere la rubrica “Magellano” di Tracce, non perché non ci siano cose di cui parlare (anzi), ma perché mi rendo conto sempre di più che la domanda, mese dopo mese, è una soltanto: sta accadendo o no? Io non amo i racconti edificanti perché trovo fallimentare, dal punto di vista narrativo, il tentativo di “ricostruire” una circostanza. Le circostanze non rendono comprensibile l’avvenimento, anzi: è vero il contrario, è l’annuncio di Cristo presente a rendere raccontabili le circostanze, perché la circostanza raccontata è già passata, mentre chi è presente è il narratore. Così ha fatto don Giussani, per questo tutte le circostanze umane lo sentono proprio, come se fosse ugandese o brasiliano o siberiano…
Per questo c’è da chiedersi: le scene “da santino”, che infastidiscono qualcuno, comunicano un messaggio niente più che edificante o suggeriscono di andare oltre? Qui mi pare si giochi la libertà di tutti noi. Il nostro carisma sta nella coscienza dell’io che sorge dall’esperienza, spesso scandalosa, di un “Tu”, di qualcosa di totalmente diverso da me e da te, che accade nelle nostre giornate.
Certo, come detto dobbiamo richiamarci all’umiltà (da humus, terra, stare coi piedi per terra) perché qui non ci sono istruzioni per l’uso, ed è bene perciò ricordare che, se qualcosa nel film ci appare debole o non adeguato alla forza del nostro carisma, la colpa potrebbe essere solo nostra e dell’immagine che noi anteponiamo (lo dico innanzitutto per me stesso) alla realtà delle cose. Come preghiamo tutte le settimane, con le parole di San Paolo: «La realtà, invece, è Cristo». Che bello, quell’invece! C’è dentro tutta la nostra vita.