Una vita con don Giussani Come ti (cine)racconto Cl
La strada bella, montando più di seicento video, mette in scena il variegato mondo di Comunione e Liberazione. Con semplicità
La strada bella, montando più di seicento video, mette in scena il variegato mondo di Comunione e Liberazione. Con semplicità
C'è
una ragazza orientale che fa l'insegnante ripresa davanti a una
scalinata che dice: facendo questo lavoro non posso non pensare che
anche don Giussani, molti anni fa, ha salito dei gradini entrando in una
scuola.
Molti anni fa, sessanta per la precisione. Era l'ottobre 1964
e don Luigi Giussani, giovane prete brianzolo con sicure prospettive da
teologo, iniziava ad insegnare al Liceo Berchet di Milano. Dalle
lezioni che terrà a quegli studenti nascerà il movimento di Comunione e
Liberazione, oggi diffuso in tutto il mondo. Per raccontare questi
sessant'anni, a quasi dieci dalla morte del fondatore di cui è in corso
la causa di beatificazione e canonizzazione, Roberto Fontolan,
responsabile del Centro internazionale di CL, e Monica Maggioni,
direttore di Rainews 24, hanno realizzato La strada bella , un
documentario montato da 603 video arrivati da 43 Paesi.
«Confesso che ho copiato - ammette Fontolan -. Tempo fa mio figlio mi aveva segnalato Life in a Day , novanta minuti prodotti dai fratelli Scott (Ridley e Tony), basati su migliaia di contributi video inviati da tutto il mondo». Insieme con la Maggioni e il fotografo Dario Curatolo, Fontolan decide di adottare il metodo Scott (peraltro scelto nello stesso periodo, e reciprocamente all'insaputa, da Gabriele Salvatores per il suo Italy in a Day - Un giorno da italiani ) chiedendo alle comunità di inviare brevi video su cosa significhi appartenere al movimento. Il risultato sono ottantacinque minuti di documentario contenente anche un'intervista a Julian Carrón, responsabile del movimento, realizzata nei luoghi della sua vocazione in Spagna. Solo testimonianze, zero filosofia. Secondo una scelta minimalista che, però, non è piaciuta al poeta Davide Rondoni e firma giornalistica pluritestata, che nel suo blog Il Clandestino lo ha definito «troppo liscio, televisivo. Carino, appunto». Da Miami a Kampala, dalle favelas di San Paolo all'Iraq, dal centro della Grande Mela a Manila non si ravvisano, però, manierismi o eccessi autocelebrativi. Anzi: studenti, operatori sanitari, assistenti sociali, ingegneri, manutentori, inservienti, agricoltori alla mungitura delle vacche, giornalisti, semplici madri raccontano esperienze di carità, di condivisione, di volontariato, spesso in luoghi assai remoti. Descrivendo come la loro vita sia cambiata dopo essersi imbattuti nella scia di persone che hanno incontrato il Gius.
C'è don Carrón, innanzi tutto, che ne ha raccolto la responsabilità e confessa una certa «incoscienza» nell'averla accettata perché «il movimento è talmente grande che solo Cristo è in grado di portare una realtà così». C'è un uomo di colore, un malavitoso deciso a sucidarsi: «Andavo in giro urlando contro Dio. Dicevo: se esisti, non puoi fermarmi in ciò che ho intenzione di fare... La vita è una maledizione. Io sono come un lupo mannaro, la luna è sempre piena per me. Non la voglio questa vita. Però non so come, qualcosa ha gridato dentro di me, mi è esplosa in gola: Dio se riesci a fermare ciò che sto per fare ti servirò per il resto della mia vita. Poi mi sono fermato e ho detto: cosa? Questa come mi è venuta?... Mi sono ricordato di uno che mi aveva dato un numero di telefono, chiama se sei nei guai. Nella stazione ferroviaria dov'ero per buttarmi sotto un treno, c'era una cabina telefonica e ho chiamato quel numero... Per questo sono qui». C'è un professore ebreo, presidente dell'European University Institute, che dice che per Giussani «la domanda è più importante della risposta. Lui voleva un cristiano che arriva alla fede ponendo le domande giuste sulla vita. Solo se si pongono le domande giuste, la risposta della fede è profonda e autentica. Per questo Giussani si rivolge a tutti gli uomini che hanno in comune queste domande». Ci sono i detenuti del carcere di Padova, un ragazzo cinese di 25 anni e due fratelli sardi ergastolani, che si incontrano con altri detenuti per fare la Scuola di comunità, sorta di catechismo ciellino, e riflettere sui loro errori. C'è un professore musulmano che insegna all'Università del Cairo che dice che leggendo Giussani è «diventato un musulmano migliore». C'è uno scrittore che sostiene che la croce dell'uomo moderno è la difficoltà a trovare corrispondenza tra il desiderio infinito che siamo, e la realtà che viviamo. «Tutto, i media, la pubblicità, ci dicono insistentemente che la risposta è dietro l'angolo. Ma non la troviamo mai». C'è una donna dei Senzaterra di San Paolo che racconta l'impegno per trovare una casa ai favelados. Un impegno declinante, finché non incontrò don Giussani, il quale «mi disse che non ero responsabile di costruire tutte le case del mondo. Gesù, disse, avrebbe potuto guarire tutti i malati della Palestina. Ma non lo fece». C'è ancora Carrón che spiega che lo scopo di CL è formare uomini che possano agire nel mondo con la propria responsabilità: «Il movimento ha riconosciuto che erano capitati certi errori in questo tentativo di entrare nella mischia della realtà. E non ha avuto nessuna remora a riconoscere questi errori e a chiedere perdono, pubblicamente, dai giornali. Perché quello che abbiamo incontrato è molto più forte dei nostri errori e del nostro male». Poi c'è un uomo qualsiasi che dice così: «Io non ero cristiano. La domenica, invece di andare a messa, lavavo la macchina».
Ci sono tanti altri racconti in questo documentario (di cui si stanno organizzando visioni pubbliche in tutta Italia). Soprattutto, c'è la testimonianza travolgente sensibile appassionata umile e profondamente umana del don Gius. E c'è la documentazione che, da quella testimonianza, la Grazia ha preso a percorrere le strade del mondo come in un'unica «strada bella», giungendo ad incontrare ovunque altri uomini per mostrare che Cristo è venuto a colmare il desiderio del loro cuore, a lenirne la solitudine, a donare la pace.
«Confesso che ho copiato - ammette Fontolan -. Tempo fa mio figlio mi aveva segnalato Life in a Day , novanta minuti prodotti dai fratelli Scott (Ridley e Tony), basati su migliaia di contributi video inviati da tutto il mondo». Insieme con la Maggioni e il fotografo Dario Curatolo, Fontolan decide di adottare il metodo Scott (peraltro scelto nello stesso periodo, e reciprocamente all'insaputa, da Gabriele Salvatores per il suo Italy in a Day - Un giorno da italiani ) chiedendo alle comunità di inviare brevi video su cosa significhi appartenere al movimento. Il risultato sono ottantacinque minuti di documentario contenente anche un'intervista a Julian Carrón, responsabile del movimento, realizzata nei luoghi della sua vocazione in Spagna. Solo testimonianze, zero filosofia. Secondo una scelta minimalista che, però, non è piaciuta al poeta Davide Rondoni e firma giornalistica pluritestata, che nel suo blog Il Clandestino lo ha definito «troppo liscio, televisivo. Carino, appunto». Da Miami a Kampala, dalle favelas di San Paolo all'Iraq, dal centro della Grande Mela a Manila non si ravvisano, però, manierismi o eccessi autocelebrativi. Anzi: studenti, operatori sanitari, assistenti sociali, ingegneri, manutentori, inservienti, agricoltori alla mungitura delle vacche, giornalisti, semplici madri raccontano esperienze di carità, di condivisione, di volontariato, spesso in luoghi assai remoti. Descrivendo come la loro vita sia cambiata dopo essersi imbattuti nella scia di persone che hanno incontrato il Gius.
C'è don Carrón, innanzi tutto, che ne ha raccolto la responsabilità e confessa una certa «incoscienza» nell'averla accettata perché «il movimento è talmente grande che solo Cristo è in grado di portare una realtà così». C'è un uomo di colore, un malavitoso deciso a sucidarsi: «Andavo in giro urlando contro Dio. Dicevo: se esisti, non puoi fermarmi in ciò che ho intenzione di fare... La vita è una maledizione. Io sono come un lupo mannaro, la luna è sempre piena per me. Non la voglio questa vita. Però non so come, qualcosa ha gridato dentro di me, mi è esplosa in gola: Dio se riesci a fermare ciò che sto per fare ti servirò per il resto della mia vita. Poi mi sono fermato e ho detto: cosa? Questa come mi è venuta?... Mi sono ricordato di uno che mi aveva dato un numero di telefono, chiama se sei nei guai. Nella stazione ferroviaria dov'ero per buttarmi sotto un treno, c'era una cabina telefonica e ho chiamato quel numero... Per questo sono qui». C'è un professore ebreo, presidente dell'European University Institute, che dice che per Giussani «la domanda è più importante della risposta. Lui voleva un cristiano che arriva alla fede ponendo le domande giuste sulla vita. Solo se si pongono le domande giuste, la risposta della fede è profonda e autentica. Per questo Giussani si rivolge a tutti gli uomini che hanno in comune queste domande». Ci sono i detenuti del carcere di Padova, un ragazzo cinese di 25 anni e due fratelli sardi ergastolani, che si incontrano con altri detenuti per fare la Scuola di comunità, sorta di catechismo ciellino, e riflettere sui loro errori. C'è un professore musulmano che insegna all'Università del Cairo che dice che leggendo Giussani è «diventato un musulmano migliore». C'è uno scrittore che sostiene che la croce dell'uomo moderno è la difficoltà a trovare corrispondenza tra il desiderio infinito che siamo, e la realtà che viviamo. «Tutto, i media, la pubblicità, ci dicono insistentemente che la risposta è dietro l'angolo. Ma non la troviamo mai». C'è una donna dei Senzaterra di San Paolo che racconta l'impegno per trovare una casa ai favelados. Un impegno declinante, finché non incontrò don Giussani, il quale «mi disse che non ero responsabile di costruire tutte le case del mondo. Gesù, disse, avrebbe potuto guarire tutti i malati della Palestina. Ma non lo fece». C'è ancora Carrón che spiega che lo scopo di CL è formare uomini che possano agire nel mondo con la propria responsabilità: «Il movimento ha riconosciuto che erano capitati certi errori in questo tentativo di entrare nella mischia della realtà. E non ha avuto nessuna remora a riconoscere questi errori e a chiedere perdono, pubblicamente, dai giornali. Perché quello che abbiamo incontrato è molto più forte dei nostri errori e del nostro male». Poi c'è un uomo qualsiasi che dice così: «Io non ero cristiano. La domenica, invece di andare a messa, lavavo la macchina».
Ci sono tanti altri racconti in questo documentario (di cui si stanno organizzando visioni pubbliche in tutta Italia). Soprattutto, c'è la testimonianza travolgente sensibile appassionata umile e profondamente umana del don Gius. E c'è la documentazione che, da quella testimonianza, la Grazia ha preso a percorrere le strade del mondo come in un'unica «strada bella», giungendo ad incontrare ovunque altri uomini per mostrare che Cristo è venuto a colmare il desiderio del loro cuore, a lenirne la solitudine, a donare la pace.